Il grande Giacinto de' Sivo così magistralmente sintetizza
l'avanzata di Garibaldi tra Reggio e Salerno:
"Il Nizzardo, sendo
tutte le scene preparate, fè la sua miracolosa parte: egli innanzi, altri pochi
di lato, a drappelli, chi a piè, chi cavalcione a un mulo, chi su carri, chi in
barca con arme varie, sbevazzando per osterie, dormendo disseminati qua e là,
tutti inadatti a qualsiasi pugna. Arrivano Calabresi prezzolati, men valenti di
loro, buoni a correre, a farsi veder da lontano su creste di monti, a simular
fuochi di campi, a tagliar telegrafi, a trarre moschettate all'aria. Egli poi
appare sur un monticello, i soldati gli fan fuoco, ei retrocede, e manda il
parlamentario, il duce regio chiama consiglio, si dice circondato, licenzia la
truppa e sparisce. I soldati gridano tradimento, si sbandano, e si
raggranellano dietro ad altri battaglioni, ch'han stessa sorte. Con tal
reiterata commedia l'eroe s'appressò a Salerno, dove sarebbe finita, se la
reggia non l'aiutava."
Ormai la revisione storica in atto sta dimostrando sempre più
nitidamente l’irrisorio peso della criminalità nel Regno delle Due Sicilie.
Essa era organizzata saltuariamente dai baroni avidi e disubbidienti (specie in
Sicilia) e dai rivoluzionari a corto di uomini (come nel Cilento degli anni
’20). Lo scellerato afflato tra baroni e rivoluzionari conduce ai patti di
Marsala prima e di Salerno dopo. Così agli inizi di settembre 1860 il sindaco
di Napoli d’Alessandria si reca a Salerno per presentare al bandito Garibaldi
colui che gli spalancherà le porte della capitale borbonica. Si tratta di Tore
‘e Criscienzo (Salvatore De Crescenzo) in persona, capo della camorra
mortificata e ristretta dai Borbone. Che cosa abbiano chiesto mafiosi e
camorristi al nizzardo è facilmente intuibile guardando al loro floridissimo
sviluppo e al ruolo loro assegnato dai vari uomini di potere succedutisi in 150
anni di nazione italiana.
E’ tanto suadente la protezione camorristica che il cosiddetto
eroe si avvia praticamente da solo in treno per Napoli. Ivi è pronto lo
spettacolo orchestrato dalla faccia meno torva della camorra, quel Liborio
Romano assurto a furor di delinquenti a
capo della polizia. Vi è la “folla” in delirio costituita dai rivoluzionari di
tutte le province appositamente radunati, i militari sabaudi ormai già padroni
della città, altri rivoluzionari trasferiti velocemente per il lauto banchetto
partenopeo che stava per cominciare, i criminali locali con famiglie al
completo che avevano costretto con la forza qualche sventurato passante a imitarli.
Vi è lo scenario che incita al delirio perché i palazzi sono pavesati dal
tricolore, previa imposizione ai proprietari delle finestre e dei balconi di
esporre quello consegnato per evitare problemi con il nuovo padrone. Vi è anche
chi il delirio deve sognarlo e immortalarlo per una manciata di ducati
(pubblici) e tira giù acquarelli e disegni da utilizzare per la stampa
internazionale ignara e per i gonzi che ancor oggi prendono per oro colato
quelle immagini false e tendenziose. E’ un turbinio di deliri che fa perdere ai
Napoletani la tramontana. Purtroppo ciò prosegue rovinosamente anche oggi, 7
settembre 2010…
V.G.
Sempre da libro dello
scrivente “Il saccheggio del Sud” riportiamo le pagine dedicate alla nefasta
entrata del condottiero in Napoli.
Il lurido trio di efferati
traditori a Napoli funziona a pieno ritmo: Spinelli, Pianelli e Romano
convincono il Re ad abbandonare la capitale. La storia è purtroppo costellata
di tradimenti ma raramente si sono visti ministri costituzionali usare il
potere loro elargito dal sovrano per liberarsi di lui, distruggendo con mille
menzogne il suo esercito fidato, comprimendo con ogni mezzo la spontanea
reazione popolare e regalare l'opulenta patria intatta a banditi stranieri.
La Corte lascia la capitale
per i citati intrighi ma non si riesce a comprendere ancora il perchè della
precipitazione che provoca pesantissime conseguenze, soprattutto finanziarie.
Il Re s'imbarca come se un terremoto lo costringesse a staccare i suoi piedi il
più presto possibile da Napoli. Nella capitale giacciono derelitti oltre 33 milioni di Ducati in contanti nei
banchi, musei ricchissimi ed unici al
mondo, regge sontuose e intatte, fortezze inespugnabili per la potenza del
nemico, arsenali stracarichi di armi e munizioni. Senza ordini di difendere
tali ricchezze, a chi esse potevano andare se non agli invasori? E con quali
soldi si sarebbe proseguita la dura lotta che si prospettava a nord della capitale? Quanto sarebbero stati
più deboli i Regi senza quella sussistenza, e quanto invece più forti i garibaldeschi con quella manna piovuta dal
cielo? Queste domande inquietanti a tutt'oggi non trovano adeguata risposta.
Occorre solo registrare il fatto assurdo e veramente unico nelle fughe di
regnanti che lasciano, senza essere molestati da vicino, i mezzi del
potere ai loro avversari! Forse un altro
atto di buona volontà per ingraziarsi le nazioni europee? Forse una fiducia nella Provvidenza, difficilmente
accettabile per un re che ha la responsabilità di quasi 10 milioni di sudditi?
Forse l'ultimo tranello della quinta colonna promettente mari e monti al
monarca che finalmente sparisce? Comunque quasi come chi si reca nelle sue
riserve di caccia, il Re parte da Napoli; un osservatore neutrale ed ignaro non
avrebbe rilevato un solo sintomo capace di far concepire un arretramento
strategico verso nord per evitare alla capitale gli orrori della guerra e
per preparare adeguatamente la grande
battaglia per la vittoria conclusiva.
La piccola nave a
disposizione dei reali, la "Saetta", salpando dà ordini alla flotta
in rada con bandiera gigliata di dirigersi a Gaeta. Il tradimento della Marina
si consuma completamente quando da ogni unità si accampa una scusa per
disobbedire, oppure, nel partire, si prendono direzioni del tutto diverse.
Una volta a Gaeta, il Re
riflette finalmente sulla necessità di avere fondi sufficienti per pagare
almeno il soldo alla truppa. Gli evidenti accordi conclusi a Napoli prima della
partenza dimostrano tutta la immotivabile fiducia nutrita sino alla fine dal
Capo dello Stato nei suoi inqualificabili ministri. Quando reiterati dispacci
chiedono trasferimenti di denaro dalla capitale, la risposta, che qualunque
persona con un minimo di senso pratico
si può attendere, arriva precisa col silenzio-rifiuto che chiude un altro atto
della tragicommedia del crollo del Regno di Napoli. Naturalmente la mancanza
della solita mesata, insieme a tutte le considerazioni già fatte sui militari,
porta all'assottigliamento delle fila napoletane perchè alcuni preferiscono
tornare a casa propria uscendo dal caos totale che governa sovrano.
Villamarina coglie
l'occasione di Napoli acefala per offrire i servizi dei battaglioni sardi da tempo in attesa del
lieto evento dell'abbandono del Re per tenere l'ordine pubblico; il che vuol
dire sostituire i Regi nella repressione della reazione. Un rantolo di dignità
viene dal Municipio ove sdegnosamente si rifiuta. Tuttavia il problema di
vigilare sulla reazione popolare sussiste e il sindaco D'Alessandria vien
mandato a Salerno da Garibaldi per
sincerarsi sull'imminenza del suo arrivo a Napoli in modo che il controllo sia
fatto direttamente dai rossi. Il primo cittadino di Napoli ha il coraggio di
dichiarare al filibustiere la sua indisponibilità ad accoglierlo festosamente e
la sua persistente fedeltà al Re Francesco. La fabbrica settaria delle falsità
dipinge invece l'incontro come "l'invito solenne del sindaco all'eroe per
l'ingresso in Napoli in trepida attesa per lui liberatore". Ovviamente nessuna
smentita circola come questo subisso di menzogne e per tutto il mondo quella è
la verità. Il 7 settembre Garibaldi con pochi seguaci sale sulla ferrovia,
vanto dei Borbone, e si dirige verso la
città di Partenope. A Vietri i mercenari bavaresi, che presidiano la stazione,
notano il loro fantomatico nemico e ringraziano il Cielo di essere tedeschi,
non capacitandosi affatto che non si attui un minuscolo sforzo per salvare il
Regno bloccando quei quattro temerari (ben edotti del rischio infinitesimale
corso) coi tanti soldati armati di tutto punto che fanno ala all'esiziale
convoglio. Il repentino arrivo del nizzardo, che segue la partenza della
Corte di poco più di mezza giornata, è
dovuto sia al desiderio di tener d'occhio la possibile reazione (che comunque i
camorristi e la Guardia Nazionale ben potevano sostenere), sia, soprattutto, al
dispetto da fare al Cavour surrogando l'utilizzo dei respinti militari
piemontesi. In questa occasione Garibaldi mostra un certo coraggio perchè pur
di fare il più presto possibile, non aspetta i suoi battaglioni e si avvia
molto vulnerabilmente verso la capitale. E' chiaro che la piega presa dagli
avvenimenti che l'avevano proiettato sempre più agevolmente verso Napoli lo
avevano più che convinto della sicurezza della strada appianata per lui da
tanti e da tanto lontano. La coreografia tramandata descrive il
"trionfo" di Garibaldi quando a mezzodì entra nelle mura di Napoli
con un "tripudio generale di popolo e festeggiamenti d'ogni sorta intorno
a lui". In effetti, come usi a fare per le altre manifestazioni "di
massa" della setta, vengono coagulati presso la Stazione vicino al Mercato
tutti i rivoluzionari reperiti anche nelle province, sono presenti le migliaia
di sardi schierati apposta, la regia dei prezzolati camorristi è quasi perfetta
nel distribuire gli amuleti della libertà (come i ritratti di Garibaldi e
Vittorio Emanuele, le coccarde e le bandiere tricolori) a chiunque ha la
curiosità ma anche la sventura di
trovarsi sul tragitto del corteo sia in strada che ai balconi. A costoro la
violenza camorristica lascia la scelta tra il sembrare inneggianti al filibustiere o l'essere accusati di
reazione e tosto perseguiti. Ecco come Garibaldi, dopo aver letto negli occhi
dei soldati nazionali o delle innumerevoli genti incontrate nel lungo viaggio
l'odio per lo straniero, sicuramente capta il medesimo sentimento tra i
cittadini di Napoli, ben distinguendo l'entusiasmo forzato, perchè senza fede
unitaria, della maggioranza che lo circonda. Preso possesso del Palazzo il
nizzardo inizia a recitare una delle parti più ostiche, perchè niente affatto
congeniali, del copione recandosi al Duomo. L'infamia dei rivoluzionari si
sciorina in tutta la sua intensità proprio nei forzati atteggiamenti religiosi
di un peccatore ed ateo come Giseppe Garibaldi e degli altri suoi degni
compari. La setta gli aveva parlato del grande attaccamento dei Napoletani alla
Chiesa e il filibustiere, durante i giorni della celebrazione del Santo Patrono
Gennaro, vuole dimostrare nel Duomo di essere un loro degno capo. la dignità
del card.Riario Sforza si rivela sin dalla prima opportunità: in pieno giorno
la Cattedrale è chiusa e i garibaldeschi devono abbattere le porte per
accedervi. Per intonare ritualmente il Te Deum di ringraziamento per l'inizio
ufficiale della schiavitù del Regno occorre però un prete: nessuno è
disponibile per la blasfema farsa. Uno
spretato assassino suo fiero seguace, Pantaleo, sembra il più prossimo ad una
celebrazione con parvenza di serietà e la "funzione" ha luogo. Nel pio "dopo Messa" Garibaldi
riceve l'omaggio di parecchi malfattori della quinta colonna; tra i primi quel
gen.Lanza con cui probabilmente ancora ha qualche conticino in
sospeso..........
A spese dell'erario pubblico
sino a notte inoltrata si festeggia e si gozzoviglia, anche profanando il Duomo.
Segue un link con intervista a V. Gulì sulle controcelebrazioni a Napoli del 7-9-10Tratto da: http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=3791&Itemid=69
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