Nuovo intervento-verità di Ubaldo Sterlicchio
Scriveva
Honoré de Balzac che: «Vi sono due storie: la storia ufficiale,
menzogniera, che ci viene insegnata [tanto per capirci, quella scritta
dai vincitori e che ci hanno fatto studiare a scuola, n.d.r.], la storia
ad usum delphini, e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa». In particolare, sul conto di Ferdinando II di Borbone, per oltre un secolo e mezzo, la storiografia dei vincitori
si è accanita e non ha fatto altro che denigrarlo fino all’inverosimile, inventando calunnie su calunnie;
e la sistematica demonizzazione della dinastia dei Borbone di Napoli si
è intrecciata – non proprio per caso – con la denigrazione dell’intero
popolo meridionale (dei poveri “terroni!”), attraverso le tantissime
menzogne confezionate ad arte negli ambienti massonici, italiani ed
europei. È necessario, a questo punto, capire con chiarezza che cosa esattamente accadde più di un secolo e mezzo fa. Cominciamo
col dire che la Vera Storia del Risorgimento non è quella che ci hanno
fatto studiare a scuola. Infatti, a seguito dell’unificazione
politico-territoriale della Penisola nel 1860-61, la storia di quegli
avvenimenti fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i
Savoia, i quali dovevano giustificare, ai contemporanei e ai posteri, l’illecita invasione del Regno delle Due Sicilie
(un legittimo Stato sovrano, che non costituiva pericolo per nessuno e
che, per sua secolare vocazione, era in pace con tutti gli altri Stati,
italiani ed europei – compreso il Regno di Sardegna – con i quali
intratteneva regolari relazioni diplomatiche; mai aggressore, ma sempre
aggredito!), avvenuta senza casus belli, cioè senza motivazioni politico-giuridiche e, cosa gravissima, senza dichiarazione di guerra.
Si toccarono, in tal maniera, gli stessi infimi ed incivili livelli
della pirateria (attraverso la spedizione dei Mille) e delle invasioni
barbariche (attraverso l’aggressione piemontese), in violazione alle più
elementari norme dello jus gentium, prima fra tutte quella che sancisce il «diritto all’autodeterminazione dei popoli».
Infatti,
come sagacemente osserva la storica Elena Bianchini Braglia, «nella
storia, anche in quella più remota, anche in quella dei secoli che gli
stessi liberal-massoni dell’Ottocento definivano oscuri e barbari, mai
nessuna guerra fu reputata legittima senza essere sorretta dall’atto
formale della sua dichiarazione. Prima che un esercito invadesse uno
Stato, occorreva che un previo documento denunciasse motivazioni,
eventuali colpe commesse, eventuali atti di riparazione chiesti, e
annunciasse un intervento armato solo qualora questi non venissero
concordati. Questa era la “barbarie dei secoli oscuri”. La civiltà dei
secoli illuminati, invece, ammette che un esercito attacchi e vada ad
occupare terre altrui senza alcuna motivazione o preavviso... Bene, dopo
un secolo e mezzo, mi pare non sia troppo presto, ma mi auguro non sia
nemmeno troppo tardi, per cominciare a chiamare le cose con il loro
nome».([1])
Occorre però capire che, in realtà, quello dell’unità
d’Italia fu solo un vergognoso pretesto, utilizzato dall’usurpatore
Vittorio Emanuele II di Savoia, per cacciare i legittimi sovrani e
saccheggiare le ricchezze degli altri Stati della Penisola (in primis, quelle del florido Regno delle Due Sicilie), onde evitare la bancarotta
del misero e fallimentare Piemonte che, all’epoca, era indebitato fino
al collo, a causa delle gravosissime spese sostenute per la dissennata
politica militarista e guerrafondaia del megalomane Cavour. Questa è la pura e semplice verità, rivelataci da un’attendibilissima fonte: il deputato piemontese Pier Carlo Boggio, nel suo Pamphlet dal titolo «Fra un mese», pubblicato nel 1859;([2]) ma questa verità, purtroppo, non
la si trova scritta in alcun manuale scolastico. Per sola spedizione in
Crimea (che comportò l’invio di 18 mila uomini, dei quali 14 morirono
in combattimento alla Cernaia e 1.300 per il colera), fu necessario
ottenere in prestito dalle banche inglesi 1 milione di sterline;
contratto nel 1855 dal Piemonte, il debito (comprensivo dei relativi
interessi) verrà estinto solamente nel 1902, e da parte di tutti i
contribuenti italiani.([3])
Pino
Aprile, in «Terroni», afferma che: «Il Piemonte era pieno di debiti; il
Regno delle Due Sicilie pieno di soldi. Quante volte abbiamo letto che i
titoli di Stato del primo, alla Borsa di Parigi, quotavano il 30 per
cento in meno del valore nominale; quelli del secondo, il 20 per cento
in più; e che al Sud, con un terzo della popolazione totale, c’era in
giro il doppio dei quattrini che nel resto d’Italia messo insieme? L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell’Unità d’Italia».([4])
Infatti, fra il 1859 ed il 1861, il debito pubblico piemontese aveva
raggiunto i 2 mila milioni di lire, una cifra astronomica per quei
tempi, specialmente per un piccolo Stato come il Piemonte.([5])
Per questi motivi e non per altro, Vittorio Emanuele II e Cavour decisero di occupare
le ricche Due Sicilie; nella drammatica situazione socio-economica in
cui versiamo oggi, non l’avrebbero mai fatto: si sarebbero legati
un’ingombrante palla al piede!
Ma, per poter realizzare i loro squallidi progetti di rapina
ai danni del Regno delle Due Sicilie, i Savoia ed i loro sodali (prima
fra i quali la massonica Inghilterra) utilizzarono, innanzitutto, la
potente arma della propaganda, denigratoria e calunniosa, contro i
Borbone, che raggiunse risultati incredibili ed, addirittura, insperati
per gli stessi che la promossero. La lezione, valida ancora oggi,
insegna che «la propaganda politica è la migliore arma per distruggere il nemico».
Tutto ebbe inizio nel lontano 1850, allorquando il deputato inglese William
Gladstone fu inviato dal suo governo per seguire il processo che si
sarebbe dovuto svolgere nelle Due Sicilie a carico degli aderenti alla
società segreta «Unità d’Italia», le cui attività sovversive andavano
dalla diffusione di proclami antimonarchici, che invitavano alla
disobbedienza civile, all’organizzazione di attentati come quello del
settembre 1849, quando un ordigno fu fatto esplodere davanti al palazzo
reale di Napoli, mentre si svolgeva una festa in onore del Papa Pio IX
il quale, fuggito a suo tempo da Roma ove era stata proclamata la
Repubblica romana, si apprestava a benedire una folla di ben centomila
persone.
Qualsiasi
governo al mondo avrebbe perseguito penalmente una setta segreta che,
con la violenza, minacciava la sua stessa esistenza e propugnava
l’assassinio politico.([6])
Il
processo iniziò il 1 giugno 1850 e si concluse il 1 febbraio del 1851.
Dei 42 imputati, tre furono condannati alla pena capitale: Filippo
Agresti, Salvatore Faucitano e Luigi Settembrini, subito graziati
il 2 febbraio 1851 da Ferdinando II di Borbone; altri due furono
condannati all’ergastolo; i rimanenti ebbero condanne fra i trent'anni
ed i quindici giorni; otto furono assolti.
Tuttavia,
tornato a Londra, d’intesa con il primo ministro britannico lord Henry
Palmerston (mandante), sir Gladstone (materiale esecutore) fece
diffondere alcune lettere che lo stesso avrebbe inviato al ministro
degli esteri, lord George Aberdeen, nelle quali, con una frase ad
effetto coniata a tavolino, si etichettava il Regno del Sud come la «negazione di Dio, eretta a sistema di governo».
Nella prima (datata 7 aprile, ma pubblicata l’11 luglio 1851) il
Gladstone riferiva di una visita – in realtà mai avvenuta – presso le
carceri napoletane e così concludeva: «II governo borbonico rappresenta
l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta
persecuzione delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta in guisa da
colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della
magistratura, come udii spessissime volte ripetere; la negazione di Dio,
la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di
governo».([7])
L’Inghilterra
gridò, così, al mondo intero il proprio sdegno per le disumane
condizioni in cui, asseritamente, venivano tenuti i prigionieri politici
napoletani e queste notizie rimbalzarono da una cancelleria all’altra,
trovando ampie casse di risonanza sui giornali di Torino e nella stessa
Napoli, negli esterofili ambienti degli oppositori.
Non
dimentichiamo però che, in quegli stessi anni, il sistema carcerario
della “civilissima“ Inghilterra faceva fremere di orrore la penna dello
scrittore Charles Dickens (l’autore di «Oliver Twist» e «David
Copperfield»); mentre, in Francia, la penna di Victor Hugo ci svelava
gli squallori della Parigi de «I Miserabili».
E
lo stesso Cavour, che aveva visitato una prigione inglese, commentò nel
suo Diario: «La prigione è orribile… nella quale sono rinchiusi, come
bestie feroci, 360 individui. Niente può dare idea del misero stato in
cui si trovano. Stanno rinchiusi in 60 dentro una sola camera, respirano
aria mefitica e si coricano su delle miserabili stuoie di giunco. Fanno
pena a vederli. Sono ammucchiati uno sugli altri senza nessuno ordine
né distinzione… la disciplina è severa. I detenuti sono sottoposti alla
legge del silenzio assoluto. Non possono parlare in nessun momento e per
nessuna circostanza. Le punizioni sono il pane e acqua, i ferri e la
cella oscura. Siamo discesi in uno di questi buchi. In verità non ho
visto niente di più tetro in vita mia».([8])
Ovviamente
a nulla valsero le smentite del governo borbonico che richiese l’invio
senza preavvisi di commissioni, anche di giornalisti, per verificare de visu
la realtà. Poi, a "giochi fatti", cioè dopo l'annessione piemontese,
sarà lo stesso deputato inglese ad ammettere candidamente la menzogna;
ed, a supporto di ciò, riportiamo quanto Domenico Razzano, nel 1914,
scrisse in proposito: «Come è noto a chi vuole sapere la verità ed
ignoto a chi non vuole saperla, Gladstone, venuto a Napoli nell’inverno
1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto
partito liberale; i quali non mancarono di glorificarlo per le sue
famose lettere con la Negazione di Dio, che tanto aiutarono la
loro rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera secchia
d’acqua gelata sui suoi glorificatori; confessò che aveva scritto per
incarico di lord Palmerston con la buona occasione che egli tornava da
Napoli, che egli non era stato in nessun carcere e in nessun ergastolo,
che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevan detto i nostri
rivoluzionari».([9])
Le
famigerate lettere, quindi, erano stare scritte solamente per creare un
clima ostile, in tutta l’Europa, nei confronti della monarchia
borbonica di Napoli, colpevole di aver provocato, nel lontano 1836, la
famosa «questione degli zolfi siciliani» e di aver realizzato una forte
concorrenza, alla stessa perfida Albione, con la marina mercantile del
Regno delle Due Sicilie (prima in Italia e seconda in Europa dopo
quella, appunto, del Regno Unito), soprattutto in vista dell’imminente apertura del canale di Suez; il tutto in danno degli interessi economici e commerciali inglesi.
Per
lo storico Raleigh Trevelyan, furono importanti anche alcune
motivazioni ideologico-religiose e di politica internazionale, oltre che
economico-commerciali. In Inghilterra, infatti, la religione di Stato
era quella anglicana e gli abitanti del Regno Unito di tale fede non
sopportavano gli eccessi cattolici dei sovrani di Napoli così fedeli al
Papa. Costoro, poi, non avevano dimenticato la repressione, al limite
della persecuzione, che – fra il 1825 e il 1832 – era stata ordinata in
Sicilia contro le logge massoniche dell’isola. Ma oltre a questo,
ragioni più profonde per intervenire stavano nella dimensione politica
che l’Europa dell’800, lentamente e con qualche contraddizione, andava
assumendo. La Gran Bretagna voleva giocare un ruolo di primo piano nelle
questioni internazionali e vedeva con sospetto l’amicizia troppo forte
che legava Francia e Piemonte. Contemporaneamente, i diplomatici inglesi
segnalavano con preoccupata apprensione l’avvicinamento del Regno delle
Due Sicilie all’Impero russo, che cercava uno sbocco marittimo sul
Mediterraneo. Aiutare il Piemonte a prendersi il Sud dell’Italia avrebbe
avuto, per Londra, due risultati positivi. Innanzi tutto si sarebbe
accreditata a Torino come alleata affidabile almeno quanto i francesi,
togliendo loro un’egemonia psicologica e politica su quello staterello
governato dai Savoia. Poi avrebbero levato di mezzo un Regno che poteva
offrire i suoi porti ai concorrenti dell’Europa dell’Est. Le coste
meridionali d’Italia, in vista dell’apertura del canale di Suez,
sarebbero diventate un punto di riferimento importante delle rotte via
mare e, quindi, un attracco strategico per i commerci. Infine, gli
inglesi sentivano la necessità di garantire le immense proprietà
immobiliari e finanziarie che avevano acquistato e investito in Sicilia.
Per parecchi anni i possidenti britannici erano stati al sicuro e
avevano addirittura acquisito un ruolo egemonico ma, da qualche tempo, i
re di Napoli non sembravano così attenti agli interessi dei loro
ospiti. Non era conveniente spostare i finanziamenti altrove: meglio
cambiare i governanti.([10])
Tuttavia,
nemmeno la ritrattazione dello stesso Gladstone ebbe alcun effetto di
recupero. La lettera e la frase in essa contenuta continuano ad essere
il leit motiv che descrive lo Stato e la giustizia borbonici fino
ai giorni nostri; tanto è vero che, sui libri di storia in uso nelle
scuole italiane, si persevera, cocciutamente ed ottusamente, nel
riportare tuttora come verità la calunnia gladstoniana della «negazione di Dio».
Non
si dimentichi che, nel medesimo periodo storico, la Francia inviava
oltre 10 mila prigionieri politici in Algeria e alla Cayenna; che negli
Stati Uniti c’era ancora lo schiavismo.
Nello
stesso 1851 lord George John Vernon stilò un terrificante rapporto
sulle prigioni piemontesi, che venne però tenuto nascosto.([11])
Nel 1854 vennero rese note le cifre spaventose sul tasso di mortalità
nel carcere di Alessandria. Per affollamento e sporcizia, il sistema carcerario piemontese era fra i peggiori e più antiquati della Penisola.([12])
Perché tutto questo non scandalizzò mister Gladstone?!?!?
In realtà, la situazione nelle carceri napoletane non era peggiore di quella del resto d’Europa e, sotto alcuni aspetti, era senza dubbio più umana.
L’8 aprile 1857, dal carcere di Montesarchio, Carlo Poerio così
scrive ad un suo zio: «Ho ricevuto la vostra lettera del 1 di questo
mese, che mi è giunta non so dire quanto gradita. Sono lietissimo di
sentire che la vostra preziosa salute vada sempre di bene in meglio e posso assicurarvi che è lo stesso di me. Oggi abbiamo avuto una magnifica giornata di primavera e ho avuto la consolazione di passeggiare a mio piacere…
Vi ho scritto per la posta d’inviarmi, col corriere di Pasqua, de’
frutti, de’ piselli, de’ carciofi e del burro, come di costume. Vostro
affezionatissimo nipote».([13])
Il tono gioioso della lettera, l’accenno a passeggiate, a biglietti
spediti e ricevuti, a frutta fresca, non offre certo l’impressione di
una detenzione tanto spietata da essere la «negazione di Dio»; ciò a
differenza delle testimonianze inerenti, invece, le prigionie nelle
carceri piemontesi ed inglesi.
Luigi
Settembrini, nel periodo in cui fu detenuto nel penitenziario borbonico
di Santo Stefano, «traduceva le opere di Luciano, riceveva chicche e
confetti che andava dividendo con i figli e la consorte del direttore
del carcere, per tenerselo buono, in salottieri inviti pomeridiani».([14]) Molti
inglesi, peraltro, si stupivano nel vedere le floride condizioni
fisiche degli esuli delle Due Sicilie che arrivavano in Gran Bretagna,
alcuni dei quali erano addirittura “sovrappeso”. Altro che negazione di
Dio!!!
Infatti,
qualche anno dopo il ministro degli Esteri inglese, James Howard Harris
(lord Malmesbury), si fermò a riflettere nelle sue memorie sul «caso
Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston e Gladstone, a suo avviso,
avevano «commesso l'errore di mettere in discussione i diritti sovrani
di uno Stato dispotico senza considerare che anche un regime assoluto
possedeva le identiche prerogative di una repubblica, o della stessa
Inghilterra, di difendersi contro gli avversari che lo volevano
rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico era afflitto
dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali Poerio si
dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a mio parere,
inventate di sana pianta... Nessun individuo, trattato in maniera tanto
disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in soli tre mesi e
apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una salubre villeggiatura».
«Giusto o sbagliato che fosse», concludeva Malmesbury, «Ferdinando II,
soprannominato "re bomba", aveva una tale cattiva reputazione che tutto
era lecito contro di lui, però, se si esclude questo sentimento
largamente diffuso nell'opinione pubblica britannica, una spedizione
armata diretta contro il suo regno costituiva una misura assolutamente
illegittima».([15])
E,
per concludere, riteniamo illuminante ascoltare ancora il già citato
professor Domenico Razzano (uno dei tanti storici onesti, ma
puntualmente ignorati dalla storiografia ufficiale) il quale ebbe ad
affermare che «tutta la rivoluzione italiana [leggasi: risorgimento,
n.d.r.] fu orientata così: travisare in male quanto era possibile del molto buono esistente nel Mezzogiorno,
e ciò che non era possibile assoggettare a denigrazione tacerlo come
non esistente; ingigantire il poco cattivo che vi era, presentandolo
elevato alla massima potenza: trattare con metodo nettamente inverso il
poco buono e il molto cattivo del Piemonte; e quello che non era
possibile occultare del molto cattivo del Piemonte tradurlo in libera
traduzione a carico del Mezzogiorno...».([16]) Ubaldo Sterlicchio
[1]
Elena Bianchini Braglia, “Risorgimento: le radici della vergogna.
Psicanalisi dell’Italia”, Centro Studi sul Risorgimento e sugli Stati
Preunitari - Terra e Identità, Modena, 2009, pag. 210.
[2] Angela Pellicciari, “I panni sporchi dei Mille”, Ed. Liberal, Roma, 2003, pag. 146.
[3] Gigi Di Fiore, Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del risorgimento”, Ed. Rizzoli, Milano, 2007, pagg. 58-59.
[4] Pino Aprile, “Terroni”, Ed. Piemme, Milano, 2010, pag. 94.
[5] Dalla lectio
dedicata a Marco Minghetti, tenuta dall’economista liberale Vito Tanzi
(ex direttore del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo Monetario
Internazionale dal 1981 al 2000; consulente della Banca Mondiale, nonché
sottosegretario all’Economia dal 2001 al 2003) il 25 ottobre 2011
presso la Fondazione CRT di Torino su “150 anni di finanza pubblica in
Italia”; cfr. Il Giornale del 26 ottobre 2011.
[6] Giuseppe Ressa, “La calunnia come arma politica”, in http://www.ilportaledelsud.org/, aprile 2009.
[7] Carlo Alianello, “La conquista del Sud”, Ed. Rusconi, Milano, 1982, pag. 8.
[8] Cesare Bertoletti, ”Il Risorgimento visto dall’altra sponda”, Ed. Berisio, Napoli, 1967, pag. 303.
[9]
Domenico Razzano, “La biografia che Luigi Settembrini scrisse di
Ferdinando II”, Tipografia dell’Italia Marinara (via Roma 289, Napoli,
1914), riedito da Ed. Ripostes, Battipaglia - SA - 2010, pag. 26.
[10] Lorenzo Del Boca, “Maledetti Savoia”, Ed. Piemme, Casale Monferrato (AL), 1998, pagg. 62-63.
[11]
Denis Mack Smith, “Cavour. Il grande tessitore dell’Unità d’Italia”,
Ed. Bompiani, Milano, 2001, pag. 144; in Gilberto Oneto, “La strana
unità”, Ed. Il Cerchio, Rimini, 2010, pag. 158.
[12]
Romano Bracalini, “L’Italia prima dell’unità 1815-1860”, Ed. Rizzoli,
Milano, 2001, pag. 55; in Gilberto Oneto, op.cit., pag. 158.
[13]
Patrick Keyes O’ Clery, “La rivoluzione italiana. Così fu fatta l’unità
della nazione”, traduzione italiana Ed. Ares, Milano, 2000, pag. 374.
[14] Carlo Alianello, “La conquista del Sud”, op.cit., pag. 26.
[15]
Paolo Mieli, “L’errore dei Borbone fu inimicarsi Londra. L’ostilità
inglese destabilizzò il Regno di Napoli”, Corriere della Sera, martedì
10 gennaio 2012.
[16] Domenico Razzano, op. cit., pagg. 32 e seguenti.
http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=4234&Itemid=99
http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=4234&Itemid=99
Nessun commento:
Posta un commento