lunedì 30 gennaio 2012
Finanza e politica bancaria durante il Fascismo
di: Valentino Quintana
In tempi di mestissima crisi finanziaria, dove il signoraggio regna imperante, dove la nazione non ha alcun tipo di sovranità monetaria, è d’uopo ricordare le ferme ed energiche dichiarazioni di Benito Mussolini ai dirigenti delle banche popolari del 26 marzo 1942.
Queste ultime non furono certo motivate da ragioni occasionali, bensì conformi a quella politica finanziaria che il Fascismo inaugurò all’indomani del suo avvento al potere.
Esso trovava il suo fondamento nella mobilitazione di tutte le forme produttive della Nazione mediante il prelievo fiscale.
Il prelievo, effettuato sul reddito nazionale, non era più una semplice sottrazione di potere di acquisto, sottratto ai privati per attribuirlo alla Tesoreria e destinarlo ai fini di pubblico interesse; ma si trattava di un’asportazione che accompagnava e stimolava lo sforzo produttivo dei singoli, senza privarli di alcuna ricchezza, che non fosse stata, a sua volta, creata mercé il tempestivo intervento dello Stato.
Fra la formazione del reddito, lo sforzo lavorativo e il prelievo fiscale si attuava un’armonica, continua e logica coordinazione, che annullava la concezione statica del “gravame” come peso o carico.
Vi si sostituiva la realtà in movimento, identificante il prelievo come ricchezza da esso creata.
Da questa concezione emergeva che la finanza fascista non era soltanto il mezzo tecnico onde si fronteggiava il fabbisogno della tesoreria, ma era anche un poderoso strumento di giustizia sociale.
Il mercantilismo fascista quindi, si poteva realizzare mercé l’intimo coordinamento dei molteplici interventi statali nel mercato nazionale.
L’azione svolta dal Fascismo si può suddividere in cinque periodi.
Il primo periodo va dall’ottobre 1922 al luglio 1925.
Il secondo periodo, concernente la sistemazione dei mercati finanziari e monetari già predisposti nella precedente fase, va fino al luglio 1928.
Il terzo periodo riguarda la preparazione finanziaria e fiscale, va fino al gennaio 1935.
Il quinto periodo orienta la finanza sul piano imperiale.
Nel primo periodo la gestione finanziaria realizza la giustizia sociale mediante l’acceleramento e la disciplina delle forze individuali, operanti sul mercato organizzato secondo i modi della concorrenza.
Si pongono in essere tutte le forze di accumulazione che dovranno consentire, nella seconda fase, una vasta manovra monetaria, finanziaria ed economica, che sarebbe stato il presupposto della futura azione dello Stato.
Il grande risanamento operato dal Fascismo durante questa fase è dato da queste cifre: disavanzo esercizio 1921 – 1922 (anteriore all’avvento al potere del Fascismo): milioni 15.760 (di lire); disavanzo esercizio 1922 – 1923 gestito per nove mesi dal Regime: milioni 3028; avanzo esercizio 1924 – 1925: milioni 417. In circa trenta mesi di governo si ebbe, dunque, un miglioramento di circa 16 miliardi annui nella gestione del bilancio aziendale italiano.
Il secondo periodo è la realizzazione concreta delle possibilità di intervento economico, rese virtuali dalla considerevole massa di potenza di spesa che la Tesoreria aveva accumulato mediante la ricostruzione finanziaria conseguita nel primo periodo della gestione.
Bisogna rilevare, a questo proposito, che l’avanzo considerevole di circa 2,5 miliardi di lire, conseguito nell’esercizio 1925 – 1926, non fu destinato a rimborso del debito pubblico come la finanza tradizionale avrebbe consigliato, ma venne attribuito, nella sua maggior parte, al potenziamento di attività economiche nazionali, mediante spese produttive autonome o integranti l’attività economica privata.
Questa diversione delle tradizioni, praticata in un atto di importanza notevole come quello indicato, pone in evidenza la diversa concezione e le differenti finalità sociali, che la finanza Fascista persegue rispetto alla gestione liberalistica della tesoreria.
In questo periodo va ricordata, per il suo grande significato morale e sociale, la riforma monetaria e la rivalutazione della lira (moneta nazionale, non d’occupazione). La rivalutazione della potenza di acquisto interna ed internazionale della valuta italiana, fu di circa il 30% il che significò: potenziamento della capacità di acquisto dei salari; aumento dei consumi delle classi meno abbienti; risanamento finanziario ed economico delle aziende, imposto attraverso una rigida revisione delle loro impostazioni di carattere finanziario e tecnico.
Il terzo periodo è contrassegnato dalle esigenze relative alla preparazione finanziaria della crisi mondiale.
Gli errori del capitalismo internazionalista, accumulati ed aggravati dalle ingiustizie create dalla guerra mondiale, avevano creato una superstruttura creditizia, che doveva controllare col sistema di cui era l’espressione.
La crisi del capitalismo, che sembrava, fino ad allora, una malattia del sistema (ciò che si vuol negare oggigiorno), si era risolta in una assoluta e grave crisi del sistema stesso che doveva fatalmente, essere travolto e trasformato.
Nell’attesa che tale profondo mutamento si effettuasse, la finanza Fascista provvide a creare le strutture fiscali e finanziarie necessarie al governo delle nuove forze dominanti.
Al fine di predisporre la riforma della finanza locale, fu iniziata una vasta politica di lavori pubblici; fu creata la struttura tecnico – economica necessaria al finanziamento di essi; fu elaborata e attuata la grande legge sulla bonifica integrale che riportava l’uomo alla terra e provvedeva alla redenzione, alla pacificazione sociale e mediante la creazione di un gran numero di piccole aziende familiari, ai coltivatori diretti.
Durante questo periodo, che fu contraddistinto da una totale assenza della Tesoreria dal mercato finanziario, in quanto il debito pubblico rimase praticamente invariato sulla cifra dei 90 miliardi di lire (si noti la differenza rispetto ai tempi odierni, n.d.r.), il bilancio dello Stato provvide con le sole sue forze ordinarie e ricorrenti a fronteggiare le spese pubbliche.
Il che significò l’obbligo, e l’esempio, imposto ad ogni azienda privata, ad ogni bilancio individuale, al pareggiare i propri conti soltanto con mezzi ordinari (!), evitando l’indebitamento, che era stato una delle cause più gravi della crisi risolutiva dell’epoca.
Il quarto periodo è caratterizzato dalla creazione delle attrezzature finanziarie, economiche e tecniche, necessarie alla nuova gestione della finanza pubblica, definitivamente orientata verso l’intervento diretto e responsabile dello Stato.
Fu fondato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, (distrutto in tempi moderni da Romano Prodi) come organo tecnico per la gestione di varie aziende, già finanziate dalle banche private, e che la crisi creditizia aveva accollato all’erario.
Fu organizzata la finanza dell’ordinamento corporativo mediante il potenziamento dell’iniziativa individuale sotto il controllo del tenore di vita dell’operaio, allo scopo di assicurare ad ogni lavoratore un livello di consumi ed uno statuto salariale adeguato alla propria famiglia e al suo sostentamento, con rispetto e tutela del grado di civiltà raggiunto mai sino a quel momento dalla nazione italiana.
La grande operazione economica compiuta in questa fase dalla finanza Fascista fu la conversione del consolidato 5% per oltre 63 miliardi di lire in capitale, in rendita redimibile al 3,50% allo scopo di predisporre la graduale riduzione del debito pubblico, mediante rimborso del capitale e limitazione conseguente delle spese per la sua gestione.
Il criterio logico dominante in quel periodo della congiuntura mondiale, era che il risanamento finanziario ed economico del Paese fosse condizionato dalla gestione, rigida e controllata, dalla Tesoreria, conseguita mediante una continua e severa comprensione delle spese pubbliche, prime fra queste, quelle per il debito statale.
Il quinto periodo è rappresentato dalla preparazione e dallo sfruttamento di tutta l’economia e di tutta la finanza italiana sul piano dell’Impero, in vista della funzione oceanica assunta dall’Italia dell’epoca.
E’ chiaro, che il secondo conflitto mondiale abbia accelerato ed intensificato questo processo, mettendo a disposizione dello Stato le risorse necessarie per resistere e combattere.
Era altrettanto evidente che la saldezza economica e finanziaria potesse essere insidiata da un nemico terribile: l’inflazione.
In questo fenomeno, non v’è nulla di fatale né di inevitabile.
Anche in questo caso, la volontà può regolare le cose a seconda di fini determinati.
In regime liberale, nell’assenza di una volontà direttiva, che l’inflazione può imporsi per la cosiddetta forza delle cose, ma non in un regime autoritario e totalitario, quando sia deciso ad impedire ad ogni costo il disastroso fenomeno della progressiva svalutazione della moneta.
Come sempre, il fenomeno dell’inflazione muove sempre da presupposti di ordine morale, dalla preoccupazione, dalla sfiducia, dalla smania dei facili guadagni, dal desiderio di “coprirsi”, di mettersi al riparo dai rischi più o meno immaginari.
Di qui un’attività economico – finanziaria fittizia, improvvisata, alla quale non corrisponde nessuna produzione reale e che vale unicamente a determinare un rapido rialzo dei prezzi.
Si formano, così, delle situazioni artificiose, che per reggersi debbono ricorrere al credito, cioè al risparmio nazionale.
E a questo punto che lo Stato può far sentire la sua volontà, sia regolando il credito attraverso il riscontro presso la Banca di emissione, sia contenendo entro i limiti stabiliti la circolazione.
Tutto ciò, con uno Stato sovrano ed indipendente.
Comunque sia, tutto questo non basta.
La severità dello Stato, che non deve avere pietà per le situazioni artificiose, causate sempre da speculazioni illecite o sbagliate, deve essere assecondata dalla disciplina dei cittadini, a qualsiasi ordine appartengano: industriali, agricoltori, commercianti, consumatori, che hanno il dovere e l’interesse di astenersi da quelle attività economico – finanziarie che valgono unicamente a determinare il progressivo rialzo dei prezzi, quel circolo vizioso a cui si è riferito così efficacemente il 26 marzo 1942 il Capo del Governo Italiano. Occorreva, secondo Mussolini “un deciso, violentissimo, se sarà necessario, colpo di arresto, contro una tendenza esiziale.
Non un metro di più sulla via della rovina, sulla via della perdizione.
Sono in giuoco il risparmio nazionale cioè la consistenza stessa dell’economia italiana, gli stipendi, i salari, le pensioni. Tutto”.
Lo Stato Fascista prometteva nessuna tolleranza dello Stato in fatto di speculazioni o di arbitrari arricchimenti.
In un discorso del 20 marzo 1942, all’Istituto di Cultura Fascista, il ministro Thaon di Revel parlò chiaramente: “occorre instillare nella convinzione di ognuno che tali forme di arricchimento anche se momentaneamente tollerate, verranno in definitiva eliminate e che nessuna conseguenza di natura monetaria potrà costituire una ragione di favore per alcuni investimenti patrimoniali a reddito variabile, in danno di quelli a reddito fisso. Imposte, a natura compensatrice, su reddito e su capitale, aventi come elemento di discriminazione la fonte variabile o fissa del reddito stesso, saranno certamente applicate dal Governo Fascista alla chiusura della congiuntura bellica presente”.
Sappiamo tutti, purtroppo, che non andò così.
La difesa della moneta, cioè del risparmio, non consentiva eccezioni o transigenze, per il Fascismo.
Anche per questi motivi, l’Italia Fascista ha perduto la sua guerra.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=12507
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