Fonte: http://www.internetsv.info/Armenia.html
1.500.000 morti innocenti. Il popolo armeno, di fede cristiana, conobbe lo sterminio totale ad opera dei Giovani Turchi arrivati al potere in Turchia in modo violento. Chi erano, chi guidava i Giovani turchi?
“I Giovani Turchi nel 1908 presero il potere con un colpo di Stato, cui inizialmente gli armeni, sperando nell’avvento di un regime che riconoscesse loro i diritti civili, diedero appoggio. Il sultano non venne spodestato, ma esautorato. La delegazione che depose il sultano, composta da tre personalità appartenenti ai Giovani Turchi, comprendeva l’ebreo Emmanuel Carasso, mentre uno dei leader piú in vista dei Giovani Turchi, Mehmet Taalat Pasha era il gran maestro del Grande Oriente di Turchia, affiliato al Grande Oriente di Francia, amico di Gelfand Israel Lazarevitch, detto Parvus, che finanzierà la rivoluzione bolscevica. (BLONDET M., Cronache dell’Anticristo, Effedieffe edizioni, Milano 1995, 23). In un primo momento gli armeni ottengono teoricamente lo status di cittadini a tutti gli effetti e nell’Armenia vengono formate sei entità vagamente autonome, chiamate villayet. I Giovani Turchi sembrano intenzionati a creare una federazione di tutti i popoli precedentemente inclusi nell’impero, ma la prova delle loro vere intenzioni si ha nel 1909 in Cilicia, dove 30.000 cristiani armeni vengono massacrati. Una delle poche voci che in questo periodo si alzerà in difesa degli armeni e dei curdi sarà quella di Benito Mussolini”
La nazione armena nel corso del XX secolo ha conosciuto il genocidio ad opera dell’impero ottomano e le
deportazioni ad opera del comunismo sovietico. Il suo martirio però – prologo di tutti gli orrori del Novecento
- viene negato sia dal governo turco sia dal mondo post-comunista. Chi continua a volere il suo oblio?
L‘Armenia (Hayastani Hanrapetut’yun) è una repubblica dell’Asia occidentale, ex repubblica dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), situata in Transcaucasia, confinante a nord con la Georgia, a est con l’Azerbaigian, a ovest con la Turchia, a sud con l’Iran e la Repubblica autonoma del Nahicevan. L’Armenia è un paese prevalentemente montuoso, con scarso terreno arabile, la cui superficie complessiva è di 29.800 km². La popolazione si concentra nelle valli, specialmente lungo il fiume Razdan, dove è situata Yerevan, la capitale di un paese martire, un paese che ha visto il genocidio dei suoi abitanti, uno dei piú orribili che la storia abbia mai registrato.
Il genocidio sono in molti a negarlo. Ci sono stragi che non contano e di cui non si trova traccia nei libri di storia: il genocidio degli armeni è una di queste. Ma oltre un milione e mezzo di morti su una popolazione di due milioni, sono una percentuale dell’orrore che non ha pari, in età moderna, per nessun altro popolo. Eppure nonostante questo solo recentemente si è cominciato a parlare di Metz Yeghern (o Metz Jeghern), il Grande male, come gli armeni chiamano il loro Olocausto. Sul suo oblio – come hanno osservato alcuni autori – può aver pesato il rifiuto degli ebrei di mettere il Metz Yeghern a paragone con la Shoah, per il rischio di veder sminuita la loro tragedia, tuttavia il vice-ministro degli Esteri israeliano Iosi Beilli, nel corso della seduta del Parlamento d’Israele del 27 aprile 1994, affermò che lo sterminio degli armeni era stato un vero genocidio; non si contano studi e seminari anche israeliani dove i due eventi non vengono messi in contrapposizione bensí analizzati in parallelo.
Gli inizi
Tutto cominciò con la crisi dell’Impero ottomano e la nascita del nazionalismo turco. Già alla fine dell’Ottocento vi furono stragi e massacri fra la popolazione armena, ma la pulizia etnica venne teorizzata e praticata per la prima volta dai Giovani Turchi che nel 1909 sterminarono circa 30.000 armeni nella regione della Cilicia, sotto lo sguardo indifferente delle potenze europee. All’inizio della Prima guerra mondiale la Turchia venne sconfitta sul fronte caucasico (terra in maggioranza armena) e la vendetta di Istanbul non si fece attendere. Volendo riformare lo Stato su base nazionalista, sull’omogeneità etnica e religiosa, l’obiettivo fu quello di cancellare dalla faccia della terra la comunità armena cristiana attuando una radicale pulizia etnica. Dopo che il partito Ittihad ve Terakki (Unione e Progresso) dei Giovani turchi, con l’aiuto di esperti tedeschi, ebbe pianificato il genocidio e creato una forza paramilitare destinata a metterlo in atto, il 24 aprile 1915 il Metz Yeghern ebbe inizio, coordinato da un direttorio di cui faceva parte anche Mustafa Kemal, piú noto in seguito come Ataturk.
Cominciò cosí il massacro dei notabili con la confisca dei loro beni. Sotto il cielo di Istanbul, l’intera intellighenzia politica ed economica di sangue armeno venne silenziosamente eliminata. Oltre 2.300 armeni vennero arrestati, deportati e uccisi. Gli altri armeni dai 18 ai 60 anni vennero reclutati dall’esercito ottomano, quindi isolati a gruppi di centinaia e massacrati. Si calcola che siano stati circa 350.000 e nessuno di loro si salvò. Nei mesi successivi la struttura paramilitare chiamata Organizzazione Speciale si abbandonò ad eccidi e violenze sulla popolazione civile, infine, radunati i superstiti, quanto rimaneva della comunità fu deportato dall’Anatolia, dove era insediata dal settimo secolo avanti Cristo, nel deserto di Der es Zor, in Mesopotamia, oppure ad Aleppo. Centinaia di migliaia di vecchi, donne e bambini vennero avviati, a piedi, verso i lontani deserti asiatici. Molti morirono durante il viaggio stroncati dalla fame, dalla sete e dalla fatica. Chi riuscí a giungere fino al punto d’arrivo non trovò altro che sabbia, una soluzione finale piú terribile ed efficace delle camere a gas inventate piú tardi dai nazisti: fu il deserto ad inghiottire i corpi delle vittime, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi. Il destino dei sopravvissuti non fu migliore: chi non morí di fame e di sete venne soppresso con metodi brutali, il piú delle volte lapidato per risparmiare le munizioni. Altre centinaia di migliaia di armeni fuggirono in Europa, America, Iran, Iraq, Siria e Libano: fu un nuovo e terribile esodo. Tra il maggio ed il luglio del 1915 verranno sterminati gli armeni delle province orientali di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput. Si salveranno solo i residenti della provincia di Van, che riusciranno a riparare in Russia grazie ad una provvidenziale avanzata dell’esercito zarista.
Le testimonianze e gli archivi hanno confermato l’esistenza di venticinque campi ai quali se ne devono aggiungere cinque di transito. Essi non assomigliavano ai campi di concentramento nazisti, sovietici o cinesi: non vi erano torri di vedetta, filo spinato, cani, baracche o massiccia presenza di soldati. La loro funzione non era quella di isolare, punire, rieducare, né di sfruttare la manodopera, appartenevano piuttosto ad un genere nuovo, che mirava a far languire sul posto i detenuti per giorni o settimane prima di costringerli a marciare nuovamente verso altre destinazioni, finché le colonne non si riducevano a pochi superstiti. I campi di transito o i centri dove si mandavano a morire i deportati erano semplici spazi aperti, lontani dai centri abitati, dove mancavano misure di stretta sorveglianza e di repressione, perché i detenuti erano troppo deboli per ribellarsi. In ogni caso non c’era alcuna possibilità di sopravvivenza per chiunque tentasse di fuggire attraverso il deserto. Le colonne erano sorvegliate da guardie, reclutate soprattutto in Siria, mentre i guardiani dei campi venivano scelti tra gli armeni piú poveri e disposti a tutto pur di scampare alla stessa sorte.
La disorganizzazione evidente della ferocia ottomana, le misure di sorveglianza minime e la mancanza di infrastrutture contrastano con la cura metodica e programmatica che i comunisti russi ed asiatici, al pari dei nazisti, misero nell’organizzare i loro campi. Tutto concorre a dimostrare che l’unica funzione dei campi turchi era quella di anticamere della morte. Ma la specificità di questo genocidio risiede senza dubbio nelle lunghe marce imposte ai deportati attraverso l’Impero, spostamenti in massa privi di una meta reale e di una qualsiasi speranza. Il genocidio si compí cosí in un lasso di tempo relativamente breve, dall’aprile 1915 al giugno 1916. In poco piú di un anno circa 1.200.000 persone vennero uccise dagli ottomani. I sopravvissuti scamparono soltanto grazie a circostanze fortuite o fuggendo all’estero.
Il genocidio degli armeni
Singolare la testimonianza del Console generale d’Italia a Trabzon, Giovanni Gorrini, che sulle pagine de Il Messaggero (Roma) del 25 agosto 1915 scrisse:
«Degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati, infatti, deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati [...] dal 24 giugno, giorno della pubblicazione dell’infame decreto, fino al 23 luglio, giorno della mia partenza da Trebisonda, io non avevo dormito: non avevo mangiato piú, ero in preda ai nervi, alla nausea, tanto era lo strazio di dover assistere ad una esecuzione in massa di creature inermi, innocenti. Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti del comitato Unione e Progresso; i pianti, le lacrime, la desolazione, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza musulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie musulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel mar Nero o nel fiume Dére Méndere, sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere».
L’ambasciatore americano di origine ebraica Henry Morgenthau nel suo libro di memorie scrive:
«Alla partenza, questi disgraziati assomigliavano ancora a degli esseri umani, ma dopo qualche giorno, quando la polvere della strada aveva imbiancato le facce e i vestiti, e il fango si era indurito sulle gambe e sui piedi, distrutti dalla fatica e annichiliti dalla brutalità dei loro “protettori”, avevano l’aria di animali strani e sconosciuti. Durante circa sei mesi, dall’aprile all’ottobre del 1915, quasi tutte le grandi vie dell’Asia Minore erano intasate da queste orde di esiliati. Si poteva vederle affollare le valli, o scalare i fianchi di quasi tutte le montagne, marciando e marciando sempre senza sapere dove, se non che ogni sentiero conduceva alla morte. Villaggi dopo villaggi, città dopo città, furono spogliati della loro popolazione armena, in condizioni simili. Durante questi sei mesi, da quanto si può sapere, circa 1.200.000 persone furono indirizzate verso il deserto della Siria. “Pregate per noi”, dicevano, abbandonando i focolari che 2.500 anni prima avevano fondato i loro avi. “Non torneremo mai piú su queste terre, ma noi ci ritroveremo un giorno. Pregate per noi!”. Avevano appena abbandonato il suolo natale che i supplizi cominciavano; le strade che dovevano seguire non erano che dei sentieri per muli dove procedeva la processione, trasformata in una ressa informe e confusa. Le donne erano separate dai bambini, i mariti dalle mogli. I vecchi restavano indietro esausti, i piedi doloranti. I conduttori dei carri trainati dai buoi, dopo avere estorto ai loro clienti gli ultimi quattrini, li gettavano a terra, loro e i loro beni, facevano dietro front e se ne tornavano ai villaggi, alla ricerca di nuove vittime. Cosí, in breve tempo, tutti, giovani e vecchi, si ritrovavano costretti a marciare a piedi; e i gendarmi che erano stati inviati, per cosí dire, per proteggere gli esiliati, si trasformavano in veri carnefici. Li seguivano, baionetta in canna, pungolando chiunque facesse cenno di rallentare l’andatura. Coloro i quali cercavano di arrestarsi per riprendere fiato, o che cadevano sulla strada morti di fatica, erano brutalizzati e costretti a raggiungere al piú presto la massa ondeggiante. Maltrattavano anche le donne incinte e se qualcuna, e ciò avveniva spesso, si accovacciava ai lati della strada per partorire, l’obbligavano ad alzarsi immediatamente e a raggiungere la carovana. Inoltre, durante tutto il viaggio, bisognava incessantemente difendersi dagli attacchi dei musulmani. Distaccamenti di gendarmi in testa alle carovane partivano per annunciare alle tribú curde che le loro vittime si avvicinavano e ai paesani turchi che il loro desiderio finalmente si realizzava. Lo stesso governo aveva aperto le prigioni e rilasciato i criminali, a condizione che si comportassero da buoni maomettani all’arrivo degli armeni. Cosí ogni carovana doveva difendere la propria esistenza contro piú categorie di nemici: i gendarmi di scorta, i paesani dei villaggi turchi, le tribú curde e le bande di cetè o briganti. Senza dimenticare che gli uomini che avrebbero potuto proteggere questi sfortunati erano stati tutti uccisi o erano stati arruolati come lavoratori, e che i malcapitati deportati erano stati sistematicamente spogliati delle armi. A qualche ora di marcia dal punto di partenza, i curdi accorrevano dall’alto delle loro montagne, si precipitavano sulle ragazze giovani e, spogliandole, stupravano le piú belle, come pure i bambini che piacevano loro, e rapinavano senza pietà tutta la carovana, rubando il denaro e le provvigioni, abbandonando cosí gli sfortunati alla fame e allo sgomento» (trad. propria, per il testo inglese originale vedasi MORGENTHAU H., Ambassador Morghentau’s Story, Sterndale Classics, London, 2003).
Dopo la sconfitta della Turchia nella Prima guerra mondiale le pressioni dei vincitori per processare i responsabili dell’immenso massacro, unite alla forzata nascita di una Repubblica d’Armenia e di un Kurdistan indipendenti (Trattato di Sèvres, 10 agosto 1920), favorirono paradossalmente solo il completamento dello sterminio. Dopo la caduta dei Giovani Turchi il potere finí nelle mani di Mustafà Kemal Atatürk, deciso ad imporre il nazionalismo e a completare l’opera dei predecessori nei confronti degli armeni. Kemal seppe sfruttare con astuzia la diffidenza tra la nuova Russia bolscevica e gli Alleati occidentali. Nell’indifferenza generale, con assoluto disprezzo delle disposizioni del Trattato di Sèvres, Kemal ordinò alle proprie truppe, agli ordini del generale Karabekir, di invadere l’Armenia e, con l’aiuto della rediviva Organizzazione Speciale, di attuare la fase finale del genocidio. Gli armeni rimasti in territorio turco, che tra il 1920 ed il 1922, con l’attacco alla Cilicia armena ed il massacro di Smirne, vennero definitivamente sterminati. Dopo questi ultimi crimini quasi nessun armeno rimase vivo in Turchia (tranne pochissimi che si erano convertiti all’Islam). Kemal Atatürk al termine della guerra di liberazione turca (1920-1922) ottenne poi la revisione delle condizioni imposte alla Turchia con il trattato di Losanna (24 luglio 1923) che annullò gli accordi di Sèvres. Se durante i lavori per il Trattato di Sevrès venne perfino riconosciuta l’indipendenza al popolo armeno e la sua sovranità su gran parte dei territori dell’Armenia storica, il successivo Trattato di Losanna (1923) annullò quelle decisioni, negando al popolo armeno persino il riconoscimento della sua stessa esistenza. Le atrocità commesse dai turchi nei loro confronti portarono gli alleati ad introdurre il concetto di «crimes against humanity», in seguito usato durante il processo di Norimberga. Ma il processo che si celebrò per il genocidio armeno ebbe ben altra risonanza e ben altri risultati, rispetto a ciò che sarebbe avvenuto a Norimberga.
Il genocidio degli armeni
I processi e le vendette
La disfatta ottomana nella Grande guerra spinse i principali responsabili del genocidio armeno ad abbandonare il paese e, nella maggior parte dei casi, a fuggire in Germania. Nel 1919 a Costantinopoli fu intentato un processo a loro carico svoltosi sotto la direzione di Damad Ferid Pasha. Le condanne non sortirono praticamente alcun effetto poiché nei confronti dei condannati non furono mai presentate richieste d’estradizione, inoltre molti verdetti della corte vennero annullati. I procedimenti tuttavia non furono del tutto vani in quanto permisero di raccogliere numerose testimonianze utili per conoscere il reale svolgimento dei fatti. Furono appurate le responsabilità per i massacri di Yozgat che ebbero come responsabile il vice governatore Kemal. Nel processo di Trabzon si ammise la responsabilità del governatore e si descrisse il modo in cui erano avvenuti gli annegamenti di donne e bambini. Nel processo per il massacro nella città di Karput venne giudicato in contumacia Behaeddin Chakir e venne descritto dettagliatamente il ruolo dell’Organizzazione Speciale. A seguito però della riluttanza delle autorità ad eseguire le sentenze da loro stesse emesse, il partito armeno Dashnag creò un’organizzazione al fine di punire i principali responsabili del genocidio.
Taalat Pasha, ministro dell’Interno e successivamente primo ministro, venne ucciso a Berlino il 15 marzo del 1921 dall’armeno Solomon Tehlirian, successivamente assolto dalla locale Corte Criminale. I giudici riconobbero che le colpe di cui Taalat si era reso responsabile erano di una efferatezza indescrivibile. Djemal Pasha, ministro della Marina e dirigente dei Giovani Turchi; Said Halim Pasha, primo ministro; Behaeddin Chakir, responsabile dell’Organizzazione Speciale per lo sterminio degli armeni; Givanshir, responsabile del massacro degli armeni di Bakú e Gemal Azmí, prefetto di Trabzon, furono tutti uccisi da giustizieri armeni che pubblicarono poi le loro memorie, dalle quali venne ricavato anche un libro – scritto in francese – dal titolo “Operazione Nemesi”. Enver Pasha, ministro della Guerra, assieme a Taalat e Djemal, membro del triumvirato a capo della Turchia negli anni dello sterminio, messosi a capo di ribelli antisovietici nell’Asia Centrale, fu ucciso nel 1922 nel corso di un conflitto a fuoco con un reparto dell’Armata Rossa.
Alcuni dei responsabili del genocidio armeno, negli anni successivi, tramarono contro Kemal Ataturk, padre politico dell’attuale Turchia, che li fece processare, condannare a morte ed impiccare nel 1926. Morirono cosí Halis Turgut, comandante dell’Organizzazione Speciale per lo sterminio degli armeni nella regione di Sebaste; Ahmed Shükrü, ex ministro della Pubblica Istruzione; Ismail Gianpolat, successore di Taalat quale ministro dell’Interno; il dottor Nazim, membro della Direzione Centrale del partito Unione e Progresso e principale ideatore dello sterminio; Yenibahceli Nayil, capo dell’Organizzazione Speciale nella regione di Trabzon; Filipelí Hilmí, capo dell’Organizzazione Speciale nella regione di Erzerum. Altri criminali, considerati testimoni scomodi, vennero uccisi dietro mandato dello stesso partito dei Giovani Turchi. Fra di essi ci furono il colonnello Cerkez Ahmed, responsabile per le regioni di Van e Diarbekir; il colonnello Yakub Gemal e Amero, capo di un gruppo di banditi curdi, insieme ad un altro curdo, Mirza Bey, che si vantava di aver ucciso 70.000 armeni nella provincia di Erzerum.
Altri, per vari motivi, furono eliminati senza processo. Cosí accadde a Yahya Kaptan, che fece annegare migliaia di armeni al largo di Trabzon, e fu ucciso in quella stessa città da parte di ignoti sicari nel 1922. Un altro, Topal Osman, dopo la fine della Prima guerra mondiale, si uní ai seguaci di Kemal ed organizzò il massacro dei greci e dei superstiti armeni di Trabzon. Divenuto capo delle guardie del corpo di Kemal fu poi ucciso nel 1923 da alcuni soldati che lo volevano arrestare perché colpevole dell’assassinio di un deputato turco. Delí Halit, funzionario dell’Organizzazione Speciale, fu ucciso nel 1925 durante uno scontro avvenuto nel parlamento turco. Tra gli altri criminali ve ne furono alcuni che si tolsero la vita suicidandosi, fra loro il dottor Reshid, già prefetto di Diarbekir, fu tra i piú feroci aguzzini degli armeni: si suicidò nel 1919. Mahmud Kemil, generale dell’esercito, si uccise nel 1922. Kara Kemal, supervisore di tutte le decisioni segrete del partito dei Giovani Turchi, venne accusato di tramare contro Kemal e si suicidò subito dopo l’arresto. Vi furono infine delle morti almeno all’apparenza accidentali. Il generale Nurí Pasha, fratello di Enver, si rese responsabile dello sterminio degli armeni della Transcaucasia. Al termine della Prima guerra mondiale, congedatosi dall’esercito, si dedicò al commercio e successivamente aprí una fabbrica di armi e munizioni dove trovò la morte nel 1949 in seguito ad una violenta esplosione. Mehmed Memduh, prefetto di Erzican, di Bitlis, Baghdad e Mossul, morí per un incidente d’auto a Smirne. Hashim Beg, che ebbe una parte attiva nello sterminio degli armeni di Malatya, fu invece colpito da apoplessia in seguito all’uccisione del figlio da parte di un curdo e morí nel 1917.
Genocidio: la tragica realtà di un neologismo
Il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni ’40 del Novecento dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin (1900-1959), che pensò a questa parola proprio in seguito all’impressione avuta nell’apprendere dello sterminio degli armeni. Il vocabolo proviene dalla radice greca genos (famiglia, tribú o razza) e dal latino occidere (uccidere). Lemkin introdusse il termine nell’opera Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress (Carnegie Endowment for International Peace, Washington, D.C. 1944). Dopo l’Olocausto Lemkin incoraggiò la promulgazione di leggi internazionali che definirono e proibirono il genocidio, raggiungendo il suo obiettivo nel 1951, quando la Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio entrò in vigore. Il crimine contro gli armeni fu condannato dai governi alleati già nel 1915, dal Senato degli Stati Uniti, nel 1916 e nel 1920 e dal Tribunale Militare turco nel 1919.
In seguito però venne steso un velo di silenzio sullo sterminio degli armeni che cadde cosí nel dimenticatoio. In epoca piú recente, nonostante le pressioni esercitate da parte della Turchia, varie istituzioni nazionali ed internazionali hanno riconosciuto e condannato il genocidio. Nel 1984 è stata la volta del Tribunale Permanente dei Popoli che nel corso della sessione dedicata a questo argomento, dal 13 al 16 aprile 1984, ha riconosciuto fra l’altro che “lo sterminio delle popolazioni armene con la deportazione ed il massacro costituisce un crimine imprescrittibile di genocidio ai sensi della convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”. Il Tribunale permanente dei popoli (comprendente storici di tutto il mondo) intitolò il suo rapporto Crimine del silenzio. Il genocidio degli Armeni (edizioni Flammarion, Parigi, 1984). Lo sterminio venne segnalato nel 2001 anche dal prof. Israel Charny, ebreo, direttore della Enciclopedia del Genocidio (testo pubblicato in lingua inglese a cura del Holocaust and Genocide Institute, Jerusalem, Israel, Israel W. Charny Ed., ABC-CLIO Inc. 1999).
Nel 1985 la “Sottocommissione per la lotta contro le misure discriminatorie e per la protezione delle minoranze” della Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, nella seduta del 29 agosto riconobbe, fra gli altri, anche il genocidio armeno. Anche il Parlamento Europeo, nella seduta del 18 giugno 1987, riconoscendo il genocidio armeno e condannando l’atteggiamento della Turchia, ha invitato gli stati membri della Comunità Europea a dedicare un giorno alla memoria dei genocidi armeno ed ebreo. Oltre a ciò, proprio in considerazione dell’attuale atteggiamento turco nei confronti del genocidio armeno, il Parlamento Europeo ha posto quale condizione previa all’unione della Turchia alla Comunità Europea il riconoscimento, da parte turca, dello sterminio degli armeni.
In epoca piú recente, il 14 aprile 1995, la Duma, il parlamento russo, ha riconosciuto all’unanimità il genocidio armeno. Lo stesso anno il genocidio fu riconosciuto dai parlamenti di Bulgaria e di Cipro. Nel 1996 esso venne riconosciuto da parte del parlamento della Grecia e l’anno successivo da quello del Libano. Nel 1998 furono i senati del Belgio e dell’Argentina a riconoscerlo. Infine il 29 maggio 1998 fu riconosciuto all’unanimità da parte dell’Assemblea Nazionale francese, nonostante la forte opposizione della Turchia. Il 29 marzo 2000 inoltre il genocidio armeno è stato formalmente riconosciuto anche dal parlamento svedese. Solo il 17 novembre 2000 la Camera dei deputati italiana ha riconosciuto ufficialmente quel genocidio, approvando, dopo anni di lunghe insistenze, un documento presentato già nel 1998 e sottoscritto da 165 deputati di vari partiti che chiese formalmente alla Turchia di riconoscere il genocidio degli armeni e di ristabilire relazioni diplomatiche e commerciali con la repubblica armena, abolendo l’embargo attuato contro di essa.
«Il genocidio degli armeni che ha dato inizio al secolo è stato il prologo agli orrori che sarebbero seguiti» – ha detto Giovanni Paolo II – facendo un chiaro riferimento ai campi di sterminio nazisti, nel corso della sua visita in Armenia, nel settembre del 2001, quando volle rendere omaggio alle vittime del genocidio, sostando in preghiera nel mausoleo di Tzitzernakaberd a Yerevan (Comunicato congiunto di Papa Giovanni Paolo II e del Catholicos Karekin II – Roma, 9 novembre 2000). In quell’occasione elevò all’onore degli altari l’arcivescovo Ignazio Maloyan (7 ottobre 2001), vittima egli stesso del genocidio, rilevando come il mondo possa purtroppo conoscere “aberrazioni tanto disumane”. Aberrazioni che ancora oggi il governo turco – a dispetto delle sue ambizioni europeiste – continua a minimizzare quando non addirittura a negare.
«Il genocidio degli armeni che ha dato inizio al secolo è stato
il prologo agli orrori che sarebbero seguiti» (Giovanni Paolo II)
Sviluppi politici recenti
È singolare come – nella discussione che si è aperta sull’ingresso della Turchia nella UE – non sia stato fatto alcun accenno al genocidio. Ankara rifiutò e rifiuta ogni responsabilità. La prospettiva di un allargamento dell’Unione europea oltre il Bosforo, fino a comprendere i discendenti dell’ex impero ottomano, ha suscitato – e continua a suscitare – discussioni e polemiche molto accese. L’esame d’ammissione venne cosí rinviato e l’UE si riservò di decidere se la Turchia nel frattempo avrebbe colmato il suo “deficit democratico”, passando al setaccio le riforme avviate o promesse dal governo di Ankara su temi umanitari come l’abolizione della tortura, la modifica del regime carcerario e il rispetto delle minoranze etniche. La Commissione europea nel suo Rapporto del 9 ottobre 2002 ne fece un lungo elenco. Balzò agli occhi tuttavia una vistosa lacuna: fra le condizioni per l’ingresso della Turchia nella UE non comparve il riconoscimento del genocidio armeno. Nessuno vi accennò durante il vertice di Copenaghen: una singolare amnesia colpí dunque i giudici e gli avvocatori difensori della causa turca?
Il motivo è semplice: parlare del genocidio armeno non è politically correct, significa evocare un problema che complica il dibattito sull’Olocausto, imbarazza l’Europa ed irrita profondamente la Turchia. A differenza dei tedeschi che continuano a interrogarsi sulla “Schuldfrage” per i crimini del nazismo, i turchi non riconoscono il genocidio armeno preferendo parlare di… «una tragedia che ha accomunato turchi e armeni in circostanze di guerra, provocando sofferenze reciproche e migliaia di vittime da entrambe le parti». La Turchia respinge la definizione di “genocidio” e dichiara che in quegli anni di armeni ne morirono “solo” 300.000, meno di quanti furono i turchi uccisi in scontri popolari tra turchi e armeni. A distanza di novanta anni, il gergo ufficiale di Ankara parla ancora del “sözde ermeni soykirim”, il “cosiddetto genocidio armeno”.
Una menzogna colossale coperta da una piccola verità: la tragedia avvenne effettivamente durante la Grande Guerra ma ciò non toglie che si sia trattato di un vero e proprio genocidio che, secondo la definizione dell’ONU, è il crimine commesso da chiunque partecipi alla distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso e l’Armenia, una fra le piú antiche nazioni cristiane, subí un vero e proprio martirio collettivo. La sua tragedia è stata raccontata in molti saggi e romanzi, tra i quali: Lo stato criminale di Yves Ternon; La masseria delle allodole di Atonia Arslan; la Breve storia del genocidio armeno di Claude Mutafian; Diario di un viaggio in Armenia di Alice Tachdjian Polgrossi, le testimonianze fotografiche dell’ufficiale tedesco di sanità Armin T. Wegner e i libri di Pietro Kuciukian, infine I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel.
Il libro di Franz Werfel, che ha riscosso grande successo, descrive l’unico episodio notevole di resistenza da parte degli armeni al tempo del loro Olocausto. “Mussa Dagh” significa la montagna di Mosè e dal 21 luglio al 12 settembre del 1915 su quel monte a nord del Libano si arroccarono circa cinquemila armeni che ribellandosi al governo ottomano intendevano sfuggire alla deportazione. Furono assediati, attaccati, bombardati, ma non cedettero. Allo stremo delle forze riuscirono poi ad attirare l’attenzione di una squadra navale anglo-francese che incrociava nel golfo di Alessandretta e accorse in loro aiuto. Furono cosí tratti in salvo e trasferiti a Porto Said, in Egitto. Gli appelli di Papa Benedetto XV per salvare il popolo armeno caddero nel vuoto, mentre i turchi proseguivano nella loro “guerra santa”.
Eppure lo sterminio degli armeni continua spesso a restare “un genocidio dimenticato” o negato. Gli Stati Uniti per lungo tempo non amavano sentirne parlare: il 21 ottobre 2000, un documento del Congresso che prevedeva il riconoscimento del genocidio, venne ritirato su pressione dell’allora presidente Clinton. La Turchia, infatti, era ed è l’alleato fedele degli USA, un avamposto militare nel mondo islamico, ed è anche l’unico Paese mussulmano amico d’Israele. Cosí, spesso, ogni volta che qualcuno prova a ricordare il primo genocidio del secolo XX, scatta un’interdizione politico-mediatico-culturale. Nonostante ciò, e nonostante le obiezioni dell’Amministrazione Bush, il 15 settembre 2005 la Commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti statunitense propose una risoluzione nella quale si definiva quale genocidio il massacro degli armeni in Turchia, avvenuto fra il 1915 ed il 1923: il momento della verità e della giustizia non è ancora giunto. Ogni volta che negli Stati Uniti si ripropone la questione del genocidio armeno si rinnovano le rimostranze della Turchia. Un disappunto che implicitamente attesta una continuità storico-ideologica rispetto agli autori dell’eccidio che inchioda la Turchia alle sue gravissime responsabilità: una complicità storica che costituisce non solo una pesante incognita per il futuro, ma anche una grave macchia nel passato e nel presente, ben difficile da cancellare.
Alla luce dei contrasti suscitati dalla questione armena il clima si è fatto rovente, soprattutto fra quegli intellettuali turchi (perché di autori armeni che hanno scritto sull’argomento ce ne sono diversi) decisi a dire la loro in nome di una letteratura all’insegna della verità e dell’impegno civile. È ben noto il caso di Orhan Pamuk, classe 1952, colpevole per Ankara di alcune dichiarazioni oltraggiose per l’identità nazionale, avendo affermato… «che trentamila curdi e un milione di armeni sono stati uccisi dalle nostre parti e quasi nessuno osa parlarne: dunque ci provo io». L’accusa che gli è stata rivolta è di aver violato la censura a norma dell’articolo 301/1 del codice penale secondo cui chi insulta i turchi, la Repubblica, l’Assemblea o l’identità nazionale viene punito con la reclusione fino a 36 anni. Oggi in patria molti lo evitano, qualche zelante burocrate ha ordinato il sequestro e la distruzione dei suoi scritti. Orhan Pamuk è solo uno degli scrittori che hanno osato discutere della Questione armena di fronte all’opinione pubblica: se da un lato il governo Erdogan ha proposto di creare una commissione congiunta per arrivare ad una conclusione sul tema del genocidio, allo stesso tempo ha intensificato il numero dei processi contro pubblicazioni che hanno come tema il genocidio armeno.
Sgradito in patria è altresí lo storico turco Taner Akçam, condannato alla reclusione per lo stesso motivo, cioè per avere dichiarato che lo sterminio degli armeni in Turchia è stato un genocidio. Nel 2000 fu lui a lanciare con il suo libro un nuovo approccio alla “ermeni sorunu” (la Questione armena) “svelando il tabú armeno”, in cui difendeva la legittimità di parlare del genocidio aprendo la via al dialogo. La reazione della stampa locale e degli schieramenti politici turchi fu tiepida per non dire ostile, il libro vendette qualche migliaio di copie, ma fu un invito alla contestazione per tutti gli altri intellettuali.
Un altro esponente del dissenso è Ragip Zarakolu, editore che da anni ha sfidato i rigori della legislazione turca pubblicando testi sul massacro armeno, la questione curda e i diritti umani. Dopo I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, Zarakolu ha iniziato un’intensa attività editoriale che lo ha portato a pubblicare una serie di titoli sgraditissimi ad Ankara: non ultimo il libro di George Jerjian, The Truth Will Set Us Free: Armenians and Turks Reconciled (Gj Communications, 2003), per il quale è stato citato in giudizio dalla seconda corte penale di Sultanhamet, a Istanbul, con l’accusa di violazione del codice penale.
Da segnalare anche l’opera dello storico Hilmar Kaiser, tedesco, il quale ha effettuato delle ricerche sul genocidio in piú di trenta archivi del Medio Oriente, in Europa e negli USA. Aveva lavorato anche negli archivi turchi prima di essere espulso dalle autorità nel 1996 per “motivi politici”. In seguito scoprí nuovi documenti provanti la veridicità dei fatti, anche se diverse collezioni degli archivi ottomani erano e restano inaccessibili.
La Francia – come già detto – è stata una delle poche nazioni a riconoscere pienamente il genocidio degli armeni e per questo ha subito pesanti ritorsioni commerciali da parte del governo turco. Un comportamento sul quale, ancora una volta, è calato l’imbarazzante silenzio della comunità internazionale. “Il Grande Male”, come gli armeni hanno chiamato il loro orrendo Olocausto, sembra debba restare nascosto, sembra debba sparire agli occhi del mondo. L’Europa, che ha già troppe vertenze aperte con gli Stati Uniti ed Israele, a Copenaghen non ha avuto il coraggio di tornare sulla questione. Forse se ne parlerà quando l’Armenia chiederà d’entrare nella UE?
Una storia di fedeltà e di sofferenza
La tradizione fa risalire il primo annuncio del Vangelo in Armenia agli apostoli Taddeo e Bartolomeo, tuttavia sarà solo a seguito dell’apostolato di san Gregorio l’Illuminatore, che nel 301 battezzò il re Tiridate III e la sua corte, che il cristianesimo divenne la religione dominante. Questa scelta, insieme alla sua posizione geografica, sono state per il popolo che l’abitava causa di molte persecuzioni e guerre. Ma l’Armenia rimase sempre fedele. Con il declino dell’Impero romano, gli armeni finirono sotto l’influenza bizantina, poi sotto quella persiana e dal VII secolo sotto quella araba, conservando però sempre una marcata identità cristiana e nazionale. Durante il medioevo gli armeni riuscirono a ricostituire per brevi periodi dei regni autonomi, ma dal XVI secolo in poi gran parte del loro territorio venne conquistato dai turchi ottomani. In quanto sudditi gli armeni dovettero accettare la “Sharia”, cioè alla legge coranica, tuttavia non godevano dei diritti civili riconosciuti ai musulmani, ossia, non avevano titolo al possesso della terra, dovevano versare allo Stato un’imposta fondiaria e la loro parola non costituiva testimonianza valida nei tribunali mussulmani.
Nonostante ciò, come altre popolazioni cristiane dell’impero (greci, bulgari, rumeni, assiro-caldei, serbi e macedoni) e al pari degli ebrei, la loro identità non era messa in discussione dai sultani turchi. A partire dal XVIII secolo la formidabile compagine dell’Impero ottomano entrò in crisi. Nel 1876 salí al potere il sultano Abdul Hamid e solo due anni dopo i russi inflissero una grave sconfitta agli eserciti ottomani proprio nelle regioni del Caucaso, abitate dagli armeni. Nel successivo Congresso di Berlino (1878), la proposta di costituire una nazione armena fallí per l’opposizione del primo ministro inglese, di origine israelita, Benjamin Disraeli. Lo zar ottenne solo che nei trattati internazionali venisse inserita una clausola che permetteva alla Russia di esercitare un diritto di «protezione» nei riguardi degli armeni, in quanto cristiani. Se, nonostante fosse cristiana, la nazione armena era fino ad allora considerata la «millet-y-sadyka», «la comunità piú fedele», da allora crebbero, invece e a torto, i sospetti di collaborazionismo con la Russia, mentre iniziavano a manifestarsi segni di risveglio del sentimento nazionale armeno, oltre alla rivendicazione – soprattutto da parte della classe media – di quei diritti civili fino ad allora negati. Interprete di questo movimento fu anche il patriarcato armeno di Costantinopoli, che rappresentava la causa armena sulla scena internazionale.
Il sultano Abdul Hamid, temendo una ulteriore perdita di territori e sfruttando il pretesto di alcuni attentati provocati da nazionalisti armeni, diede il via, tra il 1894 e il 1896, a una serie di massacri, fatti eseguire dagli Hamidiés (battaglioni curdi appositamente costituiti dal sultano). Le vittime furono circa 300.000. Numerose furono anche le conversioni forzate all’Islam che però non ebbero seguito. A causa delle persecuzioni ebbe inizio una forte ondata migratoria. Fu solo l’inizio di una serie di massacri che durerà da allora per trent’anni sotto tre diversi regimi turchi.
Le potenze europee, paralizzate dal timore di compromettere il fragile equilibrio internazionale, già caldissimo per via della questione balcanica, non intervennero contro l’impero ottomano. Ma, come già sappiamo, un nemico ancor piú temibile del sultano avrebbe segnato la vita del popolo armeno: i “Giovani Turchi” ed il loro partito “Unione e Progresso”. I giovani Turchi si ispiravano anche nel nome agli ideali della società segreta mazziniana Giovine Italia. Nel suo libro Cronache dell’Anticristo Maurizio Blondet ricorda come «il Risorgimento italiano non è soltanto un movimento di riscatto nazionale, ma anche e soprattutto un grandioso movimento sociale, che entra nel quadro di un piú vasto movimento europeo; e per gli ebrei, Risorgimento non significava solo l’unità d’Italia, ma anche e soprattutto emancipazione. Tutti gli ebrei partecipano a questa lotta; fanno parte di società segrete». (BLONDET M., Cronache dell’Anticristo, Effedieffe edizioni, 1995, 26-31). Nella nascita dei Giovani Turchi l’elemento ebraico svolse un ruolo determinante. I Dunmeh, che in turco significa apostati, erano ebrei convertiti all’Islam, seguaci di Shabbatai Zevi. Essi, che erano già molto influenti, cominciarono a rivestire ruoli importanti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito e divennero giudici e membri del Consiglio di Stato. Furono loro l’anima progressista, relativista e modernizzatrice dell’intellighenzija turca, loro che proclamarono per la prima volta l’idea di repubblica e di riformismo. Citando Scholem, Blondet ricorda che «i dunmeh hanno esercitato un ruolo importante nel Comitato Unione e Progresso, l’organizzazione dei Giovani Turchi che ebbe origine a Salonicco, il centro culturale dei sabbatei. Le ‘idee riformatrici’ si propagarono soprattutto nell’esercito ottomano» (BLONDET M., Cronache dell’Anticristo, Effedieffe edizioni, Milano 1995, 23).
Il panturchismo dei Giovani Turchi ritenne che l’impero potesse risorgere solo attraverso l’esaltazione del sentimento nazionale ed etnico. L’idea, che si accompagnava al ritorno del mito di Turan, leggendario capostipite dell’etnia turca, era quella di ricomporre sotto di esso tutti i popoli che si riconoscevano nella lingua, nella religione e nella razza turca: uzbeki, tagiki, kazaki e azeri. Ma a frapporsi fra i turchi e le etnie che si riconoscevano in Turan, c’eri sono, oltre ai curdi, gli armeni. Nella propaganda dei Giovani Turchi, erano soprattutto gli armeni l’ostacolo, perché erano cristiani e quindi implicitamente alleati delle potenze europee, oltreché a rischio di secessione, come insegnavano gli avvenimenti, che avevano visto la nascita della Bulgaria e della Serbia, distaccatesi definitivamente dal dominio ottomano durante le guerre balcaniche di inizio secolo.
I Giovani Turchi nel 1908 presero il potere con un colpo di Stato, cui inizialmente gli armeni, sperando nell’avvento di un regime che riconoscesse loro i diritti civili, diedero appoggio. Il sultano non venne spodestato, ma esautorato. La delegazione che depose il sultano, composta da tre personalità appartenenti ai Giovani Turchi, comprendeva l’ebreo Emmanuel Carasso, mentre uno dei leader piú in vista dei Giovani Turchi, Mehmet Taalat Pasha era il gran maestro del Grande Oriente di Turchia, affiliato al Grande Oriente di Francia, amico di Gelfand Israel Lazarevitch, detto Parvus, che finanzierà la rivoluzione bolscevica. (BLONDET M., Cronache dell’Anticristo, Effedieffe edizioni, Milano 1995, 23). In un primo momento gli armeni ottengono teoricamente lo status di cittadini a tutti gli effetti e nell’Armenia vengono formate sei entità vagamente autonome, chiamate villayet. I Giovani Turchi sembrano intenzionati a creare una federazione di tutti i popoli precedentemente inclusi nell’impero, ma la prova delle loro vere intenzioni si ha nel 1909 in Cilicia, dove 30.000 cristiani armeni vengono massacrati. Una delle poche voci che in questo periodo si alzerà in difesa degli armeni e dei curdi sarà quella di Benito Mussolini, allora giornalista e socialista rivoluzionario. Al convegno di Tessalonica del 1910 il ministro degli Interni Taalat delinea il principio di omogeneizzazione della Turchia favorendo l’approvazione di una legge che in caso di guerra consentirà la deportazione di intere popolazioni. Nel 1913, esautorando quasi completamente il sultanato, i Giovani Turchi daranno vita ad una dittatura militare guidata da Djemal, Enver Pascià e da Taalat Pasha, futuri ministri della Marina, della Guerra e dell’Interno. Infine il ministro Enver Pasha costituí la Teskilati Mahsusa, un’organizzazione guidata da due medici, Nazim e Beheaddine Chakir, che ufficialmente risulterà creata per compiere azioni di guerriglia in caso di conflitto, nella realtà vera e propria organizzazione dedita allo sterminio e alla pulizia etnica.
Nel febbraio del 1914 la Russia costrinse la Turchia a firmare un trattato che imponeva il controllo di ispettori stranieri sulle province armene, a tutela della minoranza cristiana. Il clima internazionale era rovente, lo scoppio della Grande Guerra imminente. Quando il conflitto ebbe inizio i partiti armeni cercarono invano di opporsi. L’impero turco si era schierato con gli imperi centrali. La Terza Armata turca, impreparata e male equipaggiata, venne mandata allo sbaraglio in condizioni climatiche ostili a Sarikamish, dove il 15 gennaio 1915 viene sbaragliata dalle forze russe. I russi penetrano in territorio turco sotto la guida di quattro legioni formate da armeni, sudditi dello zar, ma senza che gli armeni di Turchia siano complici di tale strategia. Ciononostante, l’esercito turco indicò tra i responsabili della disfatta proprio gli armeni e l’accusa di tradimento fu la molla che fece scattare un piano di sterminio premeditato da tempo e favorito dalla situazione internazionale.
Approfittando della rivoluzione in corso in Russia, gli armeni che erano riparati sotto il controllo dell’impero zarista, il 28 maggio 1918 dichiararono la propria indipendenza e dopo la conquista di alcuni territori nell’Armenia turca, venne proclamata la repubblica armena, che nel 1920 sarà però sovietizzata. Nel 1922 l’Armenia si uní all’Azerbaigian e alla Georgia a formare la Federazione transcaucasica, una delle quattro originarie repubbliche dell’URSS. Nel 1936 fu istituita una Repubblica Socialista Sovietica Armena autonoma. Sarà solo nel settembre del 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che l’Armenia potrà dichiarare la propria indipendenza, divenendo l’attuale repubblica d’Armenia. Levon Ter-Petrosyan, capo del Movimento nazionale armeno, ne divenne presidente. Nel 1992 tra Armenia e Azerbaigian esplose un conflitto per il possesso del Nagorno-Karabah, enclave armena in Azerbaigian, assegnata all’Armenia nel 1989 dal Soviet supremo sovietico. La tensione politica nel paese andò progressivamente aumentando già nel primo anno di indipendenza. Le difficoltà causate dal terremoto del 1988, dalla guerra con l’Azerbaigian e il conseguente blocco economico da questo adottato, fecero crescere l’opposizione alla politica del governo. Il partito di maggioranza, il Movimento nazionale armeno, promotore di un programma moderato di riforma economica e di delimitazione territoriale, incontrò l’opposizione da parte di un’ampia schiera di forze politiche e in particolare del partito Dashnak (Federazione rivoluzionaria armena), che era stato la forza di governo nel breve periodo di indipendenza del paese tra il 1918 e il 1922. Il Dashnak, che esercitava un forte controllo sulle forze armate nel Nagorno-Karabah, rifiutò il programma di riforme economiche, sostenendo l’adozione di una politica piú dura nei confronti dell’Azerbaigian e piú stretti legami con la Russia.
Nel 1992 l’Armenia fu ammessa nell’ONU. Nel 1993 le forze militari armene sconfissero ripetutamente l’esercito dell’Azerbaigian, occupando il territorio che separa l’Armenia dall’enclave del Nagorno-Karabah. Nel 1994 entrò in vigore un cessate il fuoco, seguito dall’avvio di negoziati di pace, subito però sospesi. Malgrado i numerosi problemi che affliggono il paese (il conflitto con l’Azerbaigian, il blocco economico, la dipendenza energetica e alimentare), la riforma politica ed economica intrapresa agli inizi degli anni Novanta consentí al paese di ottenere discreti risultati, soprattutto nei settori agricolo e industriale. Nel 1995 si svolsero le elezioni politiche, che diedero la maggioranza al partito del presidente, e fu adottata una nuova Costituzione.
Il riconoscimento del genocidio armeno, anche da parte della Turchia, è un atto di grande importanza. L’umanità non può dimenticare il primo genocidio del Novecento, con un milione e mezzo di cristiani armeni sterminati in quanto tali. Adolf Hitler, ispirato da quella immane tragedia, in un noto discorso del 22 agosto 1939 affermò che si poteva invadere la Polonia e massacrarne il popolo senza preoccuparsi delle conseguenze: «Chi mai si ricorda oggi – disse – dei massacri degli Armeni?». Esigere nel presente un riconoscimento del passato, significa anche preoccuparsi del futuro. Il futuro del popolo armeno, il futuro di tutti. È urgente che accanto al 27 gennaio, memoria della Shoa, vi sia una memoria di tutti gli orrori che il secolo XX ha prodotto contro la creatura umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio.
Brevi appunti bibliografici sul genocidio armeno
Elise, Storia di Vardan e dei martiri armeni, a cura di Riccardo Pane, Città nuova editore, Roma, 2005.
Il Paradigma nazista dell’annientamento – La Shoah e gli altri stermini, a cura di A. Chiappano e Fabio Minazzi, Giuntina editore, 2006.
Pietre sul cuore. Diario di Varvar, una bambina scampata al genocidio degli armeni, cur. Tachdjian Polgrossi A., Ed. Sperling Paperback, 2006.
Si può sempre dire un sí o un no: i giusti contro i genocidi degli armeni e degli ebrei, Editore CLEUP, 2001.
AKCAM TANER, Nazionalismo turco e genocidio armeno, Guerini e Associati, Milano 2005.
ARSLAN A. – PISANELLO L., Hushèr la memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Ed. Guerini e Associati, 2001.
AMABILE FL. – TOSATTI M., Mussa Dagh, gli eroi traditi, Guerini e Associati, Milano 2005.
BLONDET M., Cronache dell’Anticristo, Effedieffe edizioni, Milano 1995.
CHALIAND GÉRARD, L’imputato non è colpevole, Argo Editrice, Lecce 2006.
CHIERICI M., La strage degli Armeni – Giorni di sangue sul Mussa Dagh, in Storia Illustrata, vol. XXIII, 143 (1969), 52-59.
EL-GHOSSEIN FAYEZ, Il Beduino misericordioso. Testimonianze di un arabo musulmano sullo sterminio degli armeni, trad. di Vasken Pambakian, Ed. Guerini e Associati, Milano 2005.
ELISE, Storia di Vardan e dei martiri armeni, cur. Pane R., Editore Città Nuova, 2005.
FLORES M., Il genocidio degli armeni, Editore Il Mulino 2006.
IMPAGLIAZZO M., Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Ed. Guerini e Associati, 2000.
JERJIAN G., The Truth Will Set Us Free: Armenians and Turks Reconciled, Gj Communications, 2003.
KOTEK J. – RIGOULOT P., Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Mondadori, Milano 2001.
KUCIUKIAN P., Voci nel deserto. Giusti e testimoni per gli armeni, Ed. Guerini e Associati, 2000.
MARSHALL LANG D., Armeni – Un popolo in esilio, Edizioni Calderini, 1989.
MUTAFIAN CL., Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Ed. Guerini e Associati, 2001.
RICCARDI A., Il secolo del martirio, Arnoldo Mondadori Editore, 2000.
SANCTIS S., Armeni – Il genocidio dimenticato, in Storia e dossier, anno XI, 103 (1996), Giunti, Firenze, 71-97.
SHIRAGIAN ARSHAVIR, Condannato a uccidere – memorie di un patriota armeno, Guerini e Associati, 2005.
TERNON Y., Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Ed. Rizzoli, 2003.
TERNON Y., Lo stato criminale, Edizioni Corbaccio, 1997.
WERFEL FR., I quaranta giorni del Mussa Dagh, Corbaccio, Milano 2003.
ZEKIYAN BOGHOS L., L’Armenia e gli armeni. Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una sopravvivenza, Ed. Guerini e Associati, 2000.
http://www.stampalibera.com/?p=39772
Nessun commento:
Posta un commento