venerdì 12 aprile 2019

Mafia e Politica Michele Pantaleone


di Stefano Richichi

Se da ragazzi un insegnante ci avesse raccontato assieme di mafia e di Roma antica, probabilmente non avremmo capito molto – e saremmo a quel punto rimasti stupiti. Se poi, da adulti qualcuno oggi ci parlasse di una continuità storica fra certe strutture sociali in Sicilia, certamente lo guarderemmo sempre stupiti, ma avremmo qualcosa in più su cui riflettere.
Michele Pantaleone (1911-2002), geometra di Villalba divenuto vicesindaco, scrittore e politico per familiarità con gli ideali del padre, repubblicano e avvocato, fu la prima voce a tentare di dirimere e di esprimere compiutamente il viluppo d’interessi e di storia attorno al quale, nei secoli, si sviluppò il fenomeno mafia. Era il 1962: e se il mondo ascoltava allora il primo singolo dei Beatles e si appassionava alle imprese orbitali di John Glenn o alle prime avventure di James Bond, la Sicilia di cui trattava il Nostro era un universo remoto, una memoria profonda e avita. Lo stesso paese di tradizioni e invasori, voci e mestieri, ginestre e sangue del medico di Montemaggiore Simone Gatto; di Gesualdo Bufalino, estroso professore alle magistrali di Vittoria; e delle lunghe mattine di Leonardo Sciascia a Racalmuto passate fra i ragazzi, alle elementari già stanchi. I retaggi di consuetudini feudali, un immobilismo storico quasi ineludibile – la cui espressione etnografica l’aveva ben fornita Giuseppe Pitré – parevano vincerla ancora sul futuro: eterne e aspre vicende di dispute per la terra, assieme a lutti e a sofferte vittorie di un sindacalismo e di una repubblica italiana ai ferri corti con eterocliti poteri esterni, rivelavano un costante e problematico binomio “Mafia e politica” (questo è infatti il titolo del primo libro di Pantaleone, caso letterario uscito per i tipi della Einaudi appunto in quei dì).
Sebbene il luogo e il punto di partenza cronologico dell’intero volume appaiano essere un accadimento preciso e circostanziato – il fuoco aperto a Villalba dagli uomini di don Calò Vizzini il 16 settembre 1944, durante un’adunanza del Blocco del Popolo, contro Gino Cardamone, Girolamo Li Causi e lo stesso Michele Pantaleone – l’analisi delle cause storiche e sociologiche della «onorata società» si fa presto ben ampia e complessa, cogliendone inaudite quinte e diversi tempi dell’azione. Già infatti con le frequentazioni e poi con le colonizzazioni compiute sull’Isola da Fenici, Greci, Cartaginesi e Romani, quegli insediamenti costieri prevedevano una certa forma di penetrazione economica verso i territori dell’interno: a notabili fra i coloni o a personaggi di spicco locali si affidavano vasti fondi lì da condurre, in cambio di una percentuale sul raccolto. Il tipo di coltivazione scelta, per lo più cereali, era di quelle che non richiedesse un continuo controllo, ma solo azioni stagionali facilmente programmabili: aratura, semina e raccolto. Pochi erano i braccianti liberi impiegati, il lavoro nei campi era affidato soprattutto a manodopera servile. Di questa poi non se ne manteneva un gran numero per tutto l’anno, ma si preferiva all’occorrenza far giungere dall’insediamento litoraneo quella che occorresse per le occasionali necessità: gli schiavi-braccianti, presi a stagione, potevano effettuare ogni giorno faticose marce dal più vicino centro urbano fino agli ampi poderi dell’entroterra, a meno che nelle fattorie (man mano strutturatesi in ville rustiche) non si preparassero per loro temporanei ricoveri. Il complesso degli edifici destinati nel contado allo sfruttamento estensivo di unità fondiarie, progressivamente più ampie sino a divenire veri e propri “latifondi”, si organizzò in strutture e servizi sempre più articolati, che comprendevano magazzini ed edifici per la lavorazione del raccolto, caseggiati per il corpo di guardia, fortificazioni perimetrali. Tale assetto di entità produttive rurali autosufficienti si mantenne per parecchi secoli: la breve dominazione dei Goti in Sicilia e quelle più durature dei Bizantini e degli Arabi cambiarono poco – solo la signoria normanna trasformò intorno al 1000 l’antica villa rustica in un’unità prediale feudale, con il sistema gerarchico del vassallaggio e della servitù della gleba.[1]
In età moderna, la feudalità spontanea del latifondo, trascorsa poi in quella istituzionalizzata e nobiliare medievale, ebbe fine ufficiale col 1812: fine ufficiale e non concreta, visto che le intenzioni con cui re Ferdinando affermava
Che non vi saranno più feudi, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come in allodii, conservando però nelle rispettive famiglie l’ordine di successione, che attualmente si gode. Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali; e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi, a cui finora sono stati soggetti per tali diritti feudali. Si aboliranno le investiture, relevi, devoluzioni al fisco, ed ogni altro peso inerente ai feudi, conservando però ogni famiglia i titoli e le onorificenze.[2]             
elimineranno – divenute costituzione[3] – sì di nome i principi secondo i quali molti erano costretti a una vita pari a quella di glebae servi, ma di fatto non quel quadro politico, economico e sociale che nel tempo li generò. Se però nuovi e auspicati rapporti di affittanza non si concretizzarono, la scomparsa delle milizie che sorvegliavano i fondi fece nascere altre figure, grazie alle quali il grande proprietario terriero poteva lo stesso controllare e gestire ora i propri beni: gabellotti, soprastanti, campieri. Costoro o provvedevano a coltivare essi stessi le terre ricevute in conduzione o le subaffittavano a contadini, con pretese e violenze inaudite – erano infatti marmaglie, infima copia di quei corpi armati che, in qualche maniera pur irreggimentati e controllati nel passato, da tempi immemorabili garantivano un’apparenza di ordine nei poderi. Inutilmente sollevazioni popolari nel 1820 e 1848 tentarono di mutare simili antichi assetti, prima coloniali e poi feudalistici, calati infine in uno stato come quello borbonico che si voleva, solo a parole, moderno. La cricca dei nuovi aggressivi gestori fondiari aveva infatti connivenze con i nobili da cui aveva ricevuto incarico; spesso finiva addirittura lei a esercitare in campagna una qualche forma di giustizia spiccia, più emotiva e rapida, tradizionale e sommaria, di quella che un tribunale statale e cittadino avrebbero potuto forse lì garantire, in tempi però sensibilmente più lunghi.
Del 1838 è volontà borbonica il far sciogliere, per motivi di ordine pubblico, le «compagnie d’armi» di gabellotti e bravi locali – salvo poi venirci a patti e permetterle quale ulteriore mezzo di controllo (seppur non statale) sul territorio dieci anni dopo, nell’annus mirabilis delle rivoluzioni. Una delle prime attestazioni, in documenti ufficiali, di modi associativi di quel che si definisce oggi «mafia», risale proprio a quel periodo; Pietro Ulloa, procuratore di Trapani, in una relazione al Ministero della Giustizia di Ferdinando II con queste parole inviava il proprio rapporto
Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunioni, senza altro legame che quello di dipendere da un capo, che qui è un presidente, là un arciprete. Il popolo è venuto a convenzione coi rei; come accadono furti escono dei mediatori ad offrire transazioni per il ricuperamento degli oggetti rubati.[4]                                                   
Essere affidatario della gestione di un grande appezzamento nobiliare e poterlo condurre senza troppi scrupoli a danno dei sub-fittavoli significava riuscire ad arricchirsi senza molte difficoltà: tragiche ne furono le conseguenze! Si innescò infatti così un processo con il quale i gabellieri in breve arrivarono ad accumulare ingenti capitali e, poi, poterono investirli acquistando, con le buone o con le cattive, i possedimenti di quegli stessi «patruni» che li avevano lasciati loro amministrare.
Questi nuovi proprietari terrieri si rivelarono però interessati maggiormente al mantenimento dei beni procuratisi che a uno sviluppo di quel sistema di rendite – e la situazione di fatto si fossilizzò, malgrado la sopravvenuta acquisizione del Regno delle due Sicilie da parte dello stato sabaudo. Fino all’età fascista, invero, non subentrarono grandi scossoni per l’«onorata società» ed elementi di una centralizzazione gestionale del territorio furono limitati a pochi centri cittadini. Di contro, vi fu un progressivo espandersi delle zone di influenza della mafia e questa si espresse in forme inedite, specializzatesi a seconda gli eterogenei contesti della nuova azione: in ambienti agli inizi minori e urbani (se non nell’immediato circondario palermitano), si accostarono all’antica mafia «di feudo»  via via quella «di mercato», «di porto», «dei guardiani» e «dei giardini». L’incarico, affidato nel 1924 da Benito Mussolini al prefetto Mori, di eradicare questi poteri non statali si accompagnò a una decisa opera di risanamento sociale: ma ciò significò non una vera e propria riorganizzazione del sistema produttivo locale quanto un massiccio intervento di polizia, che solo parzialmente e temporaneamente poté modificare il tessuto stesso della comunità. Se infatti fu semplice far arrestare i livelli più bassi di «cosa nostra» sull’isola, cioè la manovalanza, altrettanto non avvenne per i suoi quadri superiori. Alcuni capi intraprendenti fuggirono negli USA, dove si serrarono e vennero a costituire le file del gangsterismo; altri trovarono, così da restare impuniti, collusioni politiche locali se non perfino nel parlamento sabaudo (il sistema di voto per collegi uninominali permetteva che i capi-area dell’«onorata società» potessero fornire bacini elettorali a “volenterosi” candidati siciliani, pronti un domani a dimostrare loro riconoscenza); vi furono perfino importanti «uomini d’onore», la cosiddetta «cupola», che sovvenzionarono la marcia su Roma e che poi entrarono nell’originario organigramma del PNF, da cui non fu possibile indi allontanarli.    
Perfino lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 14 luglio 1943 venne realizzato col preliminare appoggio delle leve mafiose trapiantate in America – queste, avvicinate dall’OSS (Office of Strategic Services, antenato della CIA), stabilirono contatti con i lontani compaesani Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, in modo che Charles Poletti, il capo delle truppe americane d’occupazione in Italia, potesse contare al proprio arrivo su appoggi sicuri e supporto logistico, propaganda e bande paramilitari organizzate appunto da «uomini d’onore». Il racconto quasi surreale dei due voli effettuati da aerei da caccia americani su Villalba, perché paracadutassero a “don Calò” un panno e un fazzoletto di seta giallo oro con ricamata la L nera di Lucky Luciano, segnale per l’inizio di un piano tanto misterioso quanto concordato, fu invece il prologo per una inusitata liaison "servizi segreti USA → gangsters italo-americani → mafia siciliana". Essa improntò, con conseguenze enormi e tuttora irrefrenabili, l’economia e la società postbellica italiana e mondiale: l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory), per avere uno sguardo compiacente verso chi li aiutò, permise e forse fraintese l’entità del processo che allora iniziava a svilupparsi. La borsa nera, gestita entro grandi canali diretti da «cosa nostra», creava le premesse acché a breve si svolgessero ben più lucrosi e ampi traffici, quelli della manodopera illegale e della droga. Simili commerci si sarebbero sviluppati silenziosamente e con l’uso di mille artifici via via nuovi (intere flotte di navi-fantasma; confetti ripieni di stupefacenti anziché di anice, pistacchi o mandorle; arance di cera, opportunamente farcite di narcotici), ma richiedevano che, a uno sguardo esterno, nessun pericolo sociale sembrasse esistere in Sicilia. Fu quindi l’«onorata società» stessa a controllare le forze che avrebbero potuto turbare uno status quo di apparente povertà ma ordine: microcriminalità e banditismo furono tenuti a bada coi metodi convincenti che le «cosche» conoscevano – e anche ogni altra possibilità di turbative sociali venne attentamente osservata, se non al bisogno "consigliata".
La fine del secondo conflitto mondiale portava con sé, assieme alla democrazia e alla nascita di una repubblica in Italia, tutta una serie di aspettative generali cui attendere e di rivendicazioni sociali cui dare risposta. E se tali voci erano già udibili nell’Italia centro-settentrionale, risultavano alte in quella meridionale – per farsi addirittura stentoree in Sicilia. I contadini dell’Isola, ad esempio, spingevano acché venissero applicate le disposizioni fasciste del 13 febbraio 1933 e del 2 gennaio 1940 circa l’assegnazione in fitto di particole di feudi incolti o mal tenuti; il movimento separatista di Andrea Finocchiaro Aprile, contraddittoriamente, sì annoverava rivoluzionari socialisti e comunisti, giovani secessionisti di Catania e personaggi che poi sarebbero finiti nell’EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia), ma possedeva pure un’ala economicamente e socialmente del tutto conservatrice, nella quale confluivano i cristallizzati interessi delle vecchie baronie (Lucio Tasca Bordonaro e il suo L’elogio del latifondo), della mafia tradizionale di feudo (Calogero Vizzini) e di quella palermitana dei giardini. Gli stessi sindacati, del resto, pur cercando di rappresentare al meglio le giuste esigenze dei braccianti senza terra, degli operai con precaria occupazione, dei minatori di solfatare chiuse e di ferrovieri alle prese con una rete di trasporti finita distrutta dalla guerra, dovevano comunque badare a evitare che quel malcontento potesse risolversi in drammatiche lotte antistatali o che venisse sfruttato da chicchessia per i propri fini: non solo «cosa nostra» avrebbe potuto reclutare lì nuovi uomini, ma infiltrazioni inusitate e torbidi intrecci fra servizi segreti e forze partitiche, fra banditismo e notabili lì si sarebbero potuti proliferare. La strage di Portella delle Ginestre (1° maggio 1947), della quale l’esecutore fu Salvatore Giuliano e la sua banda, aveva infatti mandanti ben innominabili, allora e oggi, se non solo costui dovette pagare con una misteriosa morte un’intricata e oscura storia di collusioni con uomini politici e forze dello stato, onorate amicizie e concordati tradimenti, voti elettorali e affari illeciti, ma l’identica sua sorte la ebbero tanto compagni di battaglie (fra loro Gaspare Pisciotta, avvelenato nella sua cella di massima sicurezza all’Ucciardone) quanto deputati e funzionari pubblici (l’onorevole Cusumano Geloso e l’ex ispettore Verdiani). La loro colpa? Poter essere a conoscenza dei retroscena dell’accaduto.
Malgrado i decreti Gullo-Segni (1944-1946) che vietavano di concedere terreni ad altri subaffittuari per lavorarli; e malgrado la deliberazione dell’Assemblea Regionale Siciliana (27.XII.1950) circa una riforma agraria che cancellasse proprietà maggiori di 200 ettari e che costringesse chi non avesse ammodernati o coltivati i propri fondi a dismetterli, la scomparsa dei latifondi e il successo della lotta dei contadini, dopo le affrettate iniziali occupazioni di campagne attorno a Caltanissetta, né risolsero le difficili condizioni dei braccianti né cancellarono le influenze di «cosa nostra» sull’economia. Questa infatti diversificò i rami delle proprie attività e si fece imprenditoriale – basti pensare a Luciano Liggio che dall’abigeato passò a organizzare, nella Conca d’Oro e Mezzo-Monreale fino a Palermo, l’intera catena produttiva del commercio illegale della carne, prima di industriarsi a ottenere appalti dal Consorzio di Bonifica dell’Alto e Medio Belice. Da allora in poi la "nuova mafia", forma di potere più insidiosa e sfuggente della "vecchia", signora invece su «trazzeri i carritteri, tierra i favi», si fece largo. Assunse il controllo di lucrosi traffici (droghe, sigarette, armi, contrabbando, emigrazione clandestina) e cercò di farsi assegnare gli appalti di importanti lavori pubblici (bonifiche, forniture, servizi): un’organizzazione tanto vasta doveva la sua efficienza sia a una capillare diffusione e spregiudicatezza che ad appoggi o collusioni con l'amministrazione pubblica, correnti partitiche, forze parlamentari e servizi segreti nazionali ed esteri. La via internazionale del traffico di stupefacenti trovò in Sicilia la base logistica più adatta e sicura per importare «cinniri»[5] dal Vicino Oriente e, via Francia, instradarla verso il nord Europa o gli USA. I tentativi di interromperla si risolsero quasi sempre in fallimenti, tanto per gli ormai consolidati legami transoceanici dei pur rimpatriati undesiderables Frank Coppola, Antonio Schillaci, Nicola Gentile e Joseph de Luca, quanto per l’accondiscendenza di una parte dell’apparato statale italiano – se non per assurde sovrapposizioni fra i corpi di sicurezza della nostra repubblica (si pensi alla creazione del CFRB, il Comando Forze Repressione Banditismo, e a quanto riportato nell’apparato del processo di Viterbo, 1950).
La narrazione di Michele Finocchiaro circa le faccende degli «'ntisi»[6], degli «amici di l’amici»[7], dei «sutruti»[8], della «sunnabula»[9] che non demorde a «cuvari»[10] si ferma agli inizi degli anni Sessanta, ma lucidamente propone alcune riflessioni tuttora valide. La lotta contro la mafia deve essere un impegno a lungo termine, ininterrotto – e non limitato all’unica Italia: coinvolga ogni livello sociale, dagli umili ai governanti, rompendo il muro degli interessi o delle paure personali e dell’omertà. In particolar modo, « cosa nostra» teme più la stampa che le pene giudiziarie, visto che profonde campagne di informazione possono cancellarne il buon nome e le affiliazioni, lacerarne l’atavica regola aurea dello «orbu, surdu e taci, campa centu anni 'n paci». Il mito-mafia non può essere ancora la manifestazione di psicologia collettiva di due secoli fa, quando tale organizzazione appariva strumento di un equilibrio alternativo, atto a sostituire un’amministrazione sopra-regionale debole o inesistente. Farsi stato nello Stato, impedire all’ordine nazionale precostituito di esercitare le proprie funzioni sono scuse oggi e mai più adducibili.
Ai mafiosi basta l’alibi della parvenza di funzione romantica o legale o politica che spesso viene loro attribuita per giustificare tutto un costume di illegalità e violenza. Qualunque benevola tolleranza fa il gioco della mafia.[11]    
Un’educazione morale e sociale nazionale è indispensabile invece perché la Sicilia sia resa ai siciliani – e l’Italia a ogni suo cittadino: delle piccole origini contadine nulla è rimasto per questo fenomeno dalle mille proliferazioni, tutte esclusivamente vólte a sfruttamenti illeciti.      
Oggi la mafia non è più lo strumento di difesa degli interessi degli altri: essa è diventata l’organizzazione per la rapida accumulazione di capitali in un paese di larga miseria come la Sicilia, e, quindi, interessa gruppi di persone che si sono posti sulla via della ricchezza, con metodi illeciti e disonesti.[12]
Fin dal 1962, possibili soluzioni all’onnipresenza della «onorata società» non apparivano però, per Pantaleone, né l’anacronistico ritorno a una centralizzazione statale né una limitazione alla condizione di Regione a Statuto Speciale. Tuttora un graduale ammodernamento dell’architettura economica locale, piuttosto, con realtà produttive eterogenee e innovative (imprenditoria femminile o giovanile, ad esempio), sembra la via primaria e migliore per un cambiamento duraturo: sottrarre ai vecchi bacini mafiosi la nuova forza lavoro, creando al tempo stesso diverse prospettive e moderne maniere di concepire la vita sociale della Sicilia. Il conseguimento di certi fini richiede, adesso come oltre quaranta anni fa, un impegno concertato e generale, mirato e non assistenzialistico, da parte dell’intera collettività italiana: un futuro condiviso, un passato dalle radici ormai forti.
Il risanamento morale e sociale dell’Isola è, sì, un dovere civico degli uomini onesti siciliani, ma è anche un dovere sociale dell’intera classe dirigente nazionale.[13]

Michele Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962.


[1] Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962, pp. 8-10.
[2] Basi della Costituzione, Articolo XI.I
[3] cfr. Costituzione del 1812 – Della Feudalità, Diritti e pesi feudali.
[4] Pantaleone M., op. cit., p. 12.
[5] Id., p. 25: “la cenere”, la droga. Altrimenti detta «cipria». 
[6] Id., p. 24: i mafiosi “ascoltati” dagli altri «picciotti» perché ritenuti importanti.
[7] Id., p. 24: deputato o politico che esercita pressioni per favorire i propri referenti di «cosa nostra» 
[8] Id., p. 23: “persona benestante”, borghese.
[9] Id., p. 23: la legge dello Stato.
[10] Id., p. 25: fari indagini.
[11] Id., p. 237.
[12] Id., p. 238.

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