di Stefano Richichi
Se da ragazzi un insegnante ci avesse raccontato
assieme di mafia e di Roma antica, probabilmente non avremmo capito molto – e
saremmo a quel punto rimasti stupiti. Se poi, da adulti qualcuno oggi ci
parlasse di una continuità storica fra certe strutture sociali in Sicilia,
certamente lo guarderemmo sempre stupiti, ma avremmo qualcosa in più su cui
riflettere.
Michele Pantaleone (1911-2002), geometra di Villalba
divenuto vicesindaco, scrittore e politico per familiarità con gli ideali del
padre, repubblicano e avvocato, fu la prima voce a tentare di dirimere e di
esprimere compiutamente il viluppo d’interessi e di storia attorno al quale,
nei secoli, si sviluppò il fenomeno mafia. Era il 1962: e se il mondo ascoltava
allora il primo singolo dei Beatles e si appassionava alle imprese orbitali di
John Glenn o alle prime avventure di James Bond, la Sicilia di cui trattava il
Nostro era un universo remoto, una memoria profonda e avita. Lo stesso paese di
tradizioni e invasori, voci e mestieri, ginestre e sangue del medico di
Montemaggiore Simone Gatto; di Gesualdo Bufalino, estroso professore alle
magistrali di Vittoria; e delle lunghe mattine di Leonardo Sciascia a Racalmuto
passate fra i ragazzi, alle elementari già stanchi. I retaggi di consuetudini
feudali, un immobilismo storico quasi ineludibile – la cui espressione
etnografica l’aveva ben fornita Giuseppe Pitré – parevano vincerla ancora sul
futuro: eterne e aspre vicende di dispute per la terra, assieme a lutti e a
sofferte vittorie di un sindacalismo e di una repubblica italiana ai ferri
corti con eterocliti poteri esterni,
rivelavano un costante e problematico binomio “Mafia e politica” (questo è
infatti il titolo del primo libro di Pantaleone, caso letterario uscito per i
tipi della Einaudi appunto in quei dì).
Sebbene il luogo e il punto di partenza cronologico
dell’intero volume appaiano essere un accadimento preciso e circostanziato – il
fuoco aperto a Villalba dagli uomini di don Calò Vizzini il 16 settembre 1944,
durante un’adunanza del Blocco del Popolo,
contro Gino Cardamone, Girolamo Li Causi e lo stesso Michele Pantaleone –
l’analisi delle cause storiche e sociologiche della «onorata società» si fa
presto ben ampia e complessa, cogliendone inaudite quinte e diversi tempi
dell’azione. Già infatti con le frequentazioni e poi con le colonizzazioni
compiute sull’Isola da Fenici, Greci, Cartaginesi e Romani, quegli insediamenti
costieri prevedevano una certa forma di penetrazione economica verso i
territori dell’interno: a notabili fra i coloni o a personaggi di spicco locali
si affidavano vasti fondi lì da condurre, in cambio di una percentuale sul
raccolto. Il tipo di coltivazione scelta, per lo più cereali, era di quelle che
non richiedesse un continuo controllo, ma solo azioni stagionali facilmente
programmabili: aratura, semina e raccolto. Pochi erano i braccianti liberi
impiegati, il lavoro nei campi era affidato soprattutto a manodopera servile.
Di questa poi non se ne manteneva un gran numero per tutto l’anno, ma si
preferiva all’occorrenza far giungere dall’insediamento litoraneo quella che
occorresse per le occasionali necessità: gli schiavi-braccianti, presi a
stagione, potevano effettuare ogni giorno faticose marce dal più vicino centro
urbano fino agli ampi poderi dell’entroterra, a meno che nelle fattorie (man
mano strutturatesi in ville rustiche) non si preparassero per loro temporanei
ricoveri. Il complesso degli edifici destinati nel contado allo sfruttamento
estensivo di unità fondiarie, progressivamente più ampie sino a divenire veri e
propri “latifondi”, si organizzò in strutture e servizi sempre più articolati,
che comprendevano magazzini ed edifici per la lavorazione del raccolto,
caseggiati per il corpo di guardia, fortificazioni perimetrali. Tale assetto di
entità produttive rurali autosufficienti si mantenne per parecchi secoli: la
breve dominazione dei Goti in Sicilia e quelle più durature dei Bizantini e
degli Arabi cambiarono poco – solo la signoria normanna trasformò intorno al
1000 l’antica villa rustica in
un’unità prediale feudale, con il sistema gerarchico del vassallaggio e della
servitù della gleba.[1]
In età moderna, la feudalità spontanea del
latifondo, trascorsa poi in quella istituzionalizzata e nobiliare medievale,
ebbe fine ufficiale col 1812: fine ufficiale e non concreta, visto che le
intenzioni con cui re Ferdinando affermava
Che non vi saranno più feudi, e tutte le
terre si possederanno in Sicilia come in allodii, conservando però nelle
rispettive famiglie l’ordine di successione, che attualmente si gode.
Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali; e quindi i baroni saranno esenti
da tutti i pesi, a cui finora sono stati soggetti per tali diritti feudali. Si
aboliranno le investiture, relevi, devoluzioni al
fisco, ed ogni altro peso inerente ai feudi, conservando però ogni famiglia i
titoli e le onorificenze.[2]
elimineranno – divenute costituzione[3]
– sì di nome i principi secondo i quali molti erano costretti a una vita pari a
quella di glebae servi, ma di fatto non quel quadro politico, economico e sociale
che nel tempo li generò. Se però nuovi e auspicati rapporti di affittanza non
si concretizzarono, la scomparsa delle milizie che sorvegliavano i fondi fece
nascere altre figure, grazie alle quali il grande proprietario terriero poteva
lo stesso controllare e gestire ora i propri beni: gabellotti, soprastanti,
campieri. Costoro o provvedevano a coltivare essi stessi le terre ricevute in
conduzione o le subaffittavano a contadini, con pretese e violenze inaudite –
erano infatti marmaglie, infima copia di quei corpi armati che, in qualche
maniera pur irreggimentati e controllati nel passato, da tempi immemorabili
garantivano un’apparenza di ordine nei poderi. Inutilmente sollevazioni
popolari nel 1820 e 1848 tentarono di mutare simili antichi assetti, prima
coloniali e poi feudalistici, calati infine in uno stato come quello borbonico
che si voleva, solo a parole, moderno. La cricca dei nuovi aggressivi gestori
fondiari aveva infatti connivenze con i nobili da cui aveva ricevuto incarico;
spesso finiva addirittura lei a esercitare in campagna una qualche forma di
giustizia spiccia, più emotiva e rapida, tradizionale e sommaria, di quella che
un tribunale statale e cittadino avrebbero potuto forse lì garantire, in tempi
però sensibilmente più lunghi.
Del 1838 è volontà borbonica il far sciogliere, per
motivi di ordine pubblico, le «compagnie d’armi» di gabellotti e bravi locali –
salvo poi venirci a patti e permetterle quale ulteriore mezzo di controllo
(seppur non statale) sul territorio dieci anni dopo, nell’annus mirabilis delle rivoluzioni. Una delle prime attestazioni, in
documenti ufficiali, di modi associativi di quel che si definisce oggi «mafia»,
risale proprio a quel periodo; Pietro Ulloa, procuratore di Trapani, in una
relazione al Ministero della Giustizia di Ferdinando II con queste parole
inviava il proprio rapporto
Vi ha in molti paesi delle fratellanze,
specie di sette che diconsi partiti, senza riunioni,
senza altro legame che quello di dipendere da un capo, che qui è un presidente,
là un arciprete. Il popolo è venuto a convenzione coi rei; come accadono furti
escono dei mediatori ad offrire transazioni per il ricuperamento degli oggetti
rubati.[4]
Essere affidatario della gestione di un grande
appezzamento nobiliare e poterlo condurre senza troppi scrupoli a danno dei
sub-fittavoli significava riuscire ad arricchirsi senza molte difficoltà:
tragiche ne furono le conseguenze! Si innescò infatti così un processo con il quale
i gabellieri in breve arrivarono ad accumulare ingenti capitali e, poi,
poterono investirli acquistando, con le buone o con le cattive, i possedimenti
di quegli stessi «patruni» che li avevano lasciati loro amministrare.
Questi nuovi proprietari terrieri si rivelarono però
interessati maggiormente al mantenimento dei beni procuratisi che a uno
sviluppo di quel sistema di rendite – e la situazione di fatto si fossilizzò,
malgrado la sopravvenuta acquisizione del Regno delle due Sicilie da parte
dello stato sabaudo. Fino all’età fascista, invero, non subentrarono grandi
scossoni per l’«onorata società» ed elementi di una centralizzazione gestionale
del territorio furono limitati a pochi centri cittadini. Di contro, vi fu un
progressivo espandersi delle zone di influenza della mafia e questa si espresse
in forme inedite, specializzatesi a seconda gli eterogenei contesti della nuova
azione: in ambienti agli inizi minori e urbani (se non nell’immediato
circondario palermitano), si accostarono all’antica mafia «di feudo» via via quella «di mercato», «di porto», «dei
guardiani» e «dei giardini». L’incarico, affidato nel 1924 da Benito Mussolini
al prefetto Mori, di eradicare questi poteri non
statali si accompagnò a una decisa opera di risanamento sociale: ma ciò
significò non una vera e propria riorganizzazione del sistema produttivo locale
quanto un massiccio intervento di polizia, che solo parzialmente e
temporaneamente poté modificare il tessuto stesso della comunità. Se infatti fu
semplice far arrestare i livelli più bassi di «cosa nostra» sull’isola,
cioè la manovalanza, altrettanto non avvenne per i suoi quadri superiori.
Alcuni capi intraprendenti fuggirono negli USA, dove si serrarono e vennero a
costituire le file del gangsterismo; altri trovarono, così da restare impuniti,
collusioni politiche locali se non perfino nel parlamento sabaudo (il sistema
di voto per collegi uninominali permetteva che i capi-area dell’«onorata
società» potessero fornire bacini elettorali a “volenterosi” candidati
siciliani, pronti un domani a dimostrare loro riconoscenza); vi furono perfino
importanti «uomini d’onore», la cosiddetta «cupola», che sovvenzionarono la
marcia su Roma e che poi entrarono nell’originario organigramma del PNF, da cui
non fu possibile indi allontanarli.
Perfino lo sbarco degli Alleati in
Sicilia del 14 luglio 1943 venne realizzato col preliminare appoggio delle leve
mafiose trapiantate in America – queste, avvicinate dall’OSS (Office of Strategic Services, antenato
della CIA), stabilirono contatti con i lontani compaesani Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, in modo che Charles
Poletti, il capo delle truppe americane d’occupazione in Italia, potesse
contare al proprio arrivo su appoggi sicuri e supporto logistico, propaganda e
bande paramilitari organizzate appunto da «uomini d’onore». Il racconto quasi
surreale dei due voli effettuati da aerei da caccia americani su Villalba,
perché paracadutassero a “don Calò” un panno e un fazzoletto di seta giallo oro
con ricamata la L nera di Lucky Luciano, segnale per l’inizio di un piano tanto
misterioso quanto concordato, fu invece il prologo per una inusitata liaison "servizi segreti USA
→ gangsters italo-americani
→ mafia siciliana". Essa improntò, con conseguenze enormi e tuttora
irrefrenabili, l’economia e la società postbellica italiana e mondiale: l’AMGOT
(Allied Military Government of Occupied Territory), per avere uno
sguardo compiacente verso chi li aiutò, permise e forse fraintese l’entità del
processo che allora iniziava a svilupparsi. La borsa nera, gestita entro grandi
canali diretti da «cosa nostra», creava le premesse acché a breve si
svolgessero ben più lucrosi e ampi traffici, quelli della manodopera illegale e
della droga. Simili commerci si sarebbero sviluppati silenziosamente e con l’uso
di mille artifici via via nuovi (intere flotte di navi-fantasma; confetti
ripieni di stupefacenti anziché di anice, pistacchi o mandorle; arance di cera,
opportunamente farcite di narcotici), ma richiedevano che, a uno sguardo
esterno, nessun pericolo sociale sembrasse esistere in Sicilia. Fu quindi
l’«onorata società» stessa a controllare le forze che avrebbero potuto turbare
uno status quo di apparente povertà
ma ordine: microcriminalità e banditismo furono tenuti a bada coi metodi
convincenti che le «cosche» conoscevano – e anche ogni altra possibilità di
turbative sociali venne attentamente osservata, se non al bisogno
"consigliata".
La fine del secondo conflitto mondiale
portava con sé, assieme alla democrazia e alla nascita di una repubblica in
Italia, tutta una serie di aspettative generali cui attendere e di
rivendicazioni sociali cui dare risposta. E se tali voci erano già udibili
nell’Italia centro-settentrionale, risultavano alte in quella meridionale – per
farsi addirittura stentoree in Sicilia. I contadini dell’Isola, ad esempio,
spingevano acché venissero applicate le disposizioni fasciste del 13 febbraio
1933 e del 2 gennaio 1940 circa l’assegnazione in fitto di particole di feudi
incolti o mal tenuti; il movimento separatista di Andrea Finocchiaro Aprile,
contraddittoriamente, sì annoverava rivoluzionari socialisti e comunisti,
giovani secessionisti di Catania e personaggi che poi sarebbero finiti
nell’EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia), ma possedeva
pure un’ala economicamente e socialmente del tutto conservatrice, nella quale
confluivano i cristallizzati interessi delle vecchie baronie (Lucio Tasca
Bordonaro e il suo L’elogio del latifondo),
della mafia tradizionale di feudo (Calogero Vizzini) e di quella palermitana dei
giardini. Gli stessi sindacati, del resto, pur cercando di rappresentare al
meglio le giuste esigenze dei braccianti senza terra, degli operai con precaria
occupazione, dei minatori di solfatare chiuse e di ferrovieri alle prese con
una rete di trasporti finita distrutta dalla guerra, dovevano comunque badare a
evitare che quel malcontento potesse risolversi in drammatiche lotte
antistatali o che venisse sfruttato da chicchessia per i propri fini: non solo
«cosa nostra» avrebbe potuto reclutare lì nuovi uomini, ma infiltrazioni
inusitate e torbidi intrecci fra servizi segreti e forze partitiche, fra
banditismo e notabili lì si sarebbero potuti proliferare. La strage di Portella
delle Ginestre (1° maggio 1947), della quale l’esecutore fu Salvatore Giuliano
e la sua banda, aveva infatti mandanti ben innominabili, allora e oggi, se non
solo costui dovette pagare con una misteriosa morte un’intricata e oscura
storia di collusioni con uomini politici e forze dello stato, onorate amicizie
e concordati tradimenti, voti elettorali e affari illeciti, ma l’identica sua
sorte la ebbero tanto compagni di battaglie (fra loro Gaspare Pisciotta,
avvelenato nella sua cella di massima sicurezza all’Ucciardone) quanto deputati
e funzionari pubblici (l’onorevole Cusumano Geloso e l’ex ispettore Verdiani). La loro colpa? Poter essere a conoscenza dei
retroscena dell’accaduto.
Malgrado i decreti Gullo-Segni
(1944-1946) che vietavano di concedere terreni ad altri subaffittuari per
lavorarli; e malgrado la deliberazione dell’Assemblea Regionale Siciliana
(27.XII.1950) circa una riforma agraria che cancellasse proprietà maggiori di
200 ettari e che costringesse chi non avesse ammodernati o coltivati i propri
fondi a dismetterli, la scomparsa dei latifondi e il successo della lotta dei
contadini, dopo le affrettate iniziali occupazioni di campagne attorno a
Caltanissetta, né risolsero le difficili condizioni dei braccianti né
cancellarono le influenze di «cosa nostra» sull’economia. Questa infatti
diversificò i rami delle proprie attività e si fece imprenditoriale – basti
pensare a Luciano Liggio che dall’abigeato passò a organizzare, nella Conca
d’Oro e Mezzo-Monreale fino a Palermo, l’intera
catena produttiva del commercio illegale della carne, prima di industriarsi a
ottenere appalti dal Consorzio di Bonifica dell’Alto e Medio Belice. Da allora
in poi la "nuova mafia", forma di potere più insidiosa e sfuggente
della "vecchia", signora invece su «trazzeri
i carritteri, tierra i favi», si fece largo. Assunse il controllo di lucrosi traffici
(droghe, sigarette, armi, contrabbando, emigrazione clandestina) e cercò di
farsi assegnare gli appalti di importanti lavori pubblici (bonifiche,
forniture, servizi): un’organizzazione tanto vasta doveva la sua efficienza sia
a una capillare diffusione e spregiudicatezza che ad appoggi o collusioni con
l'amministrazione pubblica, correnti partitiche, forze parlamentari e servizi
segreti nazionali ed esteri. La via internazionale del traffico di stupefacenti
trovò in Sicilia la base logistica più adatta e sicura per importare «cinniri»[5] dal Vicino Oriente e, via
Francia, instradarla verso il nord Europa o gli USA. I tentativi di
interromperla si risolsero quasi sempre in fallimenti, tanto per gli ormai
consolidati legami transoceanici dei pur rimpatriati undesiderables Frank Coppola, Antonio Schillaci, Nicola Gentile e
Joseph de Luca, quanto per l’accondiscendenza di una parte dell’apparato
statale italiano – se non per assurde sovrapposizioni fra i corpi di sicurezza
della nostra repubblica (si pensi alla creazione del CFRB, il Comando Forze
Repressione Banditismo, e a quanto riportato nell’apparato del processo di
Viterbo, 1950).
La narrazione di Michele Finocchiaro
circa le faccende degli «'ntisi»[6], degli «amici di l’amici»[7], dei «sutruti»[8], della «sunnabula»[9] che non demorde a «cuvari»[10] si ferma agli inizi degli
anni Sessanta, ma lucidamente propone alcune riflessioni tuttora valide. La
lotta contro la mafia deve essere un impegno a lungo termine, ininterrotto – e
non limitato all’unica Italia: coinvolga ogni livello sociale, dagli umili ai
governanti, rompendo il muro degli interessi o delle paure personali e
dell’omertà. In particolar modo, « cosa nostra» teme più la stampa che le pene
giudiziarie, visto che profonde campagne di informazione possono cancellarne il
buon nome e le affiliazioni, lacerarne l’atavica regola aurea dello «orbu,
surdu e taci, campa centu anni 'n paci». Il mito-mafia non può essere ancora la
manifestazione di psicologia collettiva di due secoli fa, quando tale
organizzazione appariva strumento di un equilibrio alternativo, atto a
sostituire un’amministrazione sopra-regionale debole o inesistente. Farsi stato
nello Stato, impedire all’ordine nazionale precostituito di esercitare le
proprie funzioni sono scuse oggi e mai più adducibili.
Ai mafiosi basta l’alibi della parvenza
di funzione romantica o legale o politica che spesso viene loro attribuita per
giustificare tutto un costume di illegalità e violenza. Qualunque benevola
tolleranza fa il gioco della mafia.[11]
Un’educazione morale e sociale nazionale
è indispensabile invece perché la Sicilia sia resa ai siciliani – e l’Italia a
ogni suo cittadino: delle piccole origini contadine nulla è rimasto per questo
fenomeno dalle mille proliferazioni, tutte esclusivamente vólte a sfruttamenti
illeciti.
Oggi la mafia non è più lo strumento di
difesa degli interessi degli altri: essa è diventata l’organizzazione per la
rapida accumulazione di capitali in un paese di larga miseria come la Sicilia,
e, quindi, interessa gruppi di persone che si sono posti sulla via della
ricchezza, con metodi illeciti e disonesti.[12]
Fin
dal 1962, possibili soluzioni all’onnipresenza della «onorata società» non
apparivano però, per Pantaleone, né l’anacronistico ritorno a una
centralizzazione statale né una limitazione alla condizione di Regione a
Statuto Speciale. Tuttora un graduale ammodernamento dell’architettura
economica locale, piuttosto, con realtà produttive eterogenee e innovative
(imprenditoria femminile o giovanile, ad esempio), sembra la via primaria e
migliore per un cambiamento duraturo: sottrarre ai vecchi bacini mafiosi la
nuova forza lavoro, creando al tempo stesso diverse prospettive e moderne
maniere di concepire la vita sociale della Sicilia. Il conseguimento di certi
fini richiede, adesso come oltre quaranta anni fa, un impegno concertato e
generale, mirato e non assistenzialistico, da parte dell’intera collettività
italiana: un futuro condiviso, un passato dalle radici ormai forti.
Il risanamento morale e sociale dell’Isola
è, sì, un dovere civico degli uomini onesti siciliani, ma è anche un dovere
sociale dell’intera classe dirigente nazionale.[13]
Michele
Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962.
[1] Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962,
pp. 8-10.
[2] Basi della Costituzione, Articolo XI.I
[3] cfr. Costituzione del 1812 – Della Feudalità, Diritti e pesi feudali.
[4] Pantaleone M., op. cit., p. 12.
[5] Id., p. 25: “la cenere”, la droga. Altrimenti detta «cipria».
[6] Id., p. 24: i mafiosi “ascoltati” dagli
altri «picciotti» perché ritenuti importanti.
[7] Id., p. 24: deputato o politico che
esercita pressioni per favorire i propri referenti di «cosa nostra»
[8] Id., p. 23: “persona benestante”, borghese.
[9] Id., p. 23: la legge dello Stato.
[10] Id., p. 25: fari indagini.
[11] Id., p. 237.
[12] Id., p. 238.
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