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tra il declino mediterraneo e la rivoluzione liberale
di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso
Sul
finire del XVIII secolo il Mezzogiorno d’Italia, allo stesso modo delle altre
regioni italiane e della maggioranza dei paesi europei, era di fatto e di
diritto un sistema feudale. Della necessità di superare tale stato feudale e del
come, se ne occupò largamente anche un nostro studioso, Gaetano
Filangieri, ne La Scienza della
Legislazione. Nel suo trattato egli
distinse due tipi di feudalità: la feudalità in quanto sistema
istituzionale-politico e la feudalità in quanto complesso di rapporti tra
economia, classi sociali, cultura, morale, comportamento, ecc. L’emancipazione
da questi due tipi di feudalità deve necessariamente seguire tempi e percorsi
diversi.
In
Francia la feudalità “istituzionale” fu abolita nel 1789, in Italia ci si
arrivò in seguito alle invasioni napoleoniche. Le prime regioni a muoversi in
tal senso furono quelle del centro-nord che per prime furono assoggettate a
Napoleone. Seguirono quelle del Mezzogiorno continentale governate da Giuseppe Bonaparte (1806) prima e da Gioacchino
Murat (1811) dopo [1].
In
Sicilia, dove Napoleone non arrivò mai, si giunse comunque all’abolizione della feudalità nel 1812 ad opera però
di un Parlamento di rito feudale. All’atto della Restaurazione, re Ferdinando I confermò l’abolizione della
feudalità [2].
Malgrado tutte
queste buone intenzioni, nel 1860, al momento dell’unità d’Italia, oltre il 40%
delle terre coltivabili apparteneva al clero, circa il 25% era baronale,
altrettanti del demanio e solo il 10% era diviso in piccole proprietà [3].
L’ultima regione italiana ad
abolire il feudalesimo fu la Sardegna dei Savoia, nel 1836.
Questa
trasformazione da società feudale in moderna, come prevedibile, in un primo
momento riguardò solo l’aspetto giuridico-istituzionale; le riforme erano sulla
carta ma la loro trasformazione in un sistema borghese necessitava di una
applicazione continuata e cosciente per poterne cogliere gli effetti nel campo
dell’economia, della cultura, della politica, ecc. La trasformazione della
mentalità sociale richiedeva tempi ben più lunghi ed ogni paese europeo la
affrontò e la risolse in tempi e modi diversi in funzione del substrato sociale,
culturale e religioso di partenza.
Possiamo osservare infatti
che nelle regioni europee che insistevano sulle coste settentrionali
dell’Atlantico e che si erano svincolate dall’influenza del papato, la società
iniziò a mutare in senso “borghese” già fin dalla prima metà del ‘600 allorché,
dopo la scoperta dell’America, la cacciata degli Ebrei dai paesi cattolici e la
riforma luterana, erano divenute il cuore pulsante dei commerci internazionali a
scapito del sud d’Europa ed in particolare del Mezzogiorno d’Italia che rimase
chiuso nel Mediterraneo quasi come in un ghetto. [4]
La
lentezza della transizione nelle Due Sicilie ed in particolare nell’isola di
Sicilia fu influenzata dal ruolo che il Regno ebbe tra le potenze europee.
Ricordiamo poi che tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX l’Europa
affronta la crisi agraria e la rivoluzione industriale: o ci si rinnova o si
perisce! Ed è la stessa rivoluzione industriale che fornisce i mezzi per
trasformare l’agricoltura. In questo frangente a fare la parte del leone sono le
due grandi potenze Gran Bretagna e Francia che grazie alla loro influenza
politica e alla loro potenza militare cercano di conquistare quanti più
possibili mercati e di subordinarli a loro vantaggio. In questo panorama il
Regno borbonico, proprio per la sua dislocazione geografica, non è libero di
avere né una politica estera indipendente né una economia indipendente.
Politicamente l’economia meridionale, pur non essendo una economia coloniale, è
fortemente condizionata dal mercato internazionale che è saldamente controllato
da Francia e Inghilterra.
Dopo la caduta di Napoleone
ad esempio, l’Inghilterra, che aveva fatto della Sicilia una sua base militare,
la smilitarizzò ma mantenne con essa un rapporto economico privilegiato con la
stipula, nel 1816 [5], di un apposito trattato di commercio
rinegoziato nel 1845. Per attenuare questa condizione di dipendenza economica il
governo di Napoli sottoscrisse anche trattati con la Francia, la Spagna, il nord
Africa e la Russia. Più che i trattati, contavano però gli effettivi legami
siculo-inglesi rappresentati dalla cospicua presenza di commercianti e
imprenditori inglesi che godevano di un doppio status: quello di cittadini
inglesi e quello di cittadini siciliani beneficiati dal governo locale di
particolari agevolazioni fiscali e doganali. Si era venuto a creare una sorta di
Stato nello Stato. Famiglie come gli Ingham, i Woodhouse, i Whitaker si
stabilirono definitivamente in Sicilia, divennero siculo-inglesi e con le loro
immense fortune realizzarono nei fatti la supremazia britannica nell’economia
siciliana [6]. Questa situazione si ripercuoteva anche
all’interno del Regno stesso.
È in questa situazione ad
esempio che possiamo inquadrare i viaggi di Vincenzo Di Bartolo [7].
Tutto cominciò nel 1838 quando gli Ingham, grandi produttori di Marsala che
operavano in Sicilia, gli fornirono un brigantino, l’Elisa, di appena 248
tonnellate, con il quale salpò da Palermo il 28 0ttobre con 12 marinai. Era
fornito di una cambusa viva, portavano con loro maiali e galline e partirono per
Sumatra via Boston. Perché Sumatra? Per il pepe, il pepe nero. Merce
preziosissima ai tempi. Fu di ritorno il 14 dicembre del 1839 e aveva le stive
talmente colme di spezie che i marinai dovettero fare il tutto viaggio di
ritorno sopra coperta perché le esalazioni delle spezie erano talmente intense
da non consentire di respirare. L’avvenimento ebbe una tale risonanza da
convincere il re Ferdinando II di Borbone ad investirlo di particolari
privilegi: fu conferita infatti a Di Bartolo la medaglia d’oro al merito civile
e la nomina ad Alfiere di Vascello della Regia Marina Borbonica. La nomina ad
Alfiere di Vascello era anche un bel regalo perché gli dava franchigia doganale
per il carico dei bastimenti al suo comando. Come dire una bella evasione
fiscale autorizzata dal re che fece la fortuna del Di Bartolo ma soprattutto
degli Ingham. Costoro infatti, qualche mese dopo, nel 1840 gli armarono un altro
bastimento, ben più grande del primo e lo inviarono in Brasile con un carico di
vino, olio, noci, mandorle che vendettero a Rio e poi a Sumatra dove fecero il
carico di spezie. I viaggi furono sei, avventurosi e non scevri di pericolo. Ma
Di Bartolo, non perse mai né un uomo d’equipaggio né un carico di merce. La cosa
è dimostrata dal fatto che i Lloyds inglesi gli ridussero i premi assicurativi.
Tutto questo però fu praticamente ad esclusivo beneficio degli Ingham che non
reinvestirono mai i loro guadagni nell’isola ma in Inghilterra e in America. In
questo consisteva la sudditanza economica dalla quale evidentemente era
difficile sfuggire.
La parte continentale e la
parte isolana avevano due economie diverse. Nel napoletano, già a partire dalla
fine del secolo XVIII erano sorte numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha
dedicato a tale sviluppo numerose pagine, come da elenco in calce. Qui basti ricordare: l’industria
metalmeccanica e siderurgica (circa 100 opifici metalmeccanici di cui 21 con più
di 100 addetti e l’eccellenza costituita dallo stabilimento di Stato di
Pietrarsa, nel 1860 la più grande industria d’Italia) [8]; la
Cantieristica navale (il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800
operai, l’Arsenale di Napoli con annesso bacino in muratura); l’industria
tessile, capillarmente diffusa in tutto il Regno; le circa duecento cartiere; i
pastifici alimentari; le fabbriche di cristalli e ceramiche, tra cui la rinomata
Capodimonte.
Le aziende godevano dei
vantaggi, ma subivano anche gli svantaggi, del protezionismo statale,
specialmente con Ferdinando II teso all’autarchia. Il contesto
in cui agivano era quello dell’economia dirigista borbonica, con la sua blanda
pressione fiscale e, quindi, con investimenti altrettanto blandi.
La
differenze tra Sicilia e parte continentale erano tuttavia più apparenti che
reali perché l’asse portante della società sia nel continente che nell’isola era
rurale e in questo non ci sarebbe stato niente di male, se non fosse stato che
la terra rimaneva saldamente in mano all’aristocrazia che, specie in Sicilia e
nelle zone montane della parte continentale del Regno, ben si guardava
dall’ammodernare le colture e continuava a sfruttare in maniera obsoleta il
latifondo, con predominio della cerealicoltura e del pascolo, con scarso
sviluppo del mercato interno. Inoltre è bene ricordare che il grano nella prima
metà dell’ottocento aveva perso gran parte del suo valore strategico.
L’espansione delle aree coltivate in Europa e la parallela evoluzione dei
trasporti via mare fecero si che nel Mediterraneo ormai si commerciasse anche il
grano russo e il grano turco a prezzi concorrenziali. È da notare come si
mantenne praticamente invariato il tessuto urbano: mentre nel nord Italia e nel
resto d’Europa si disgregavano i borghi medievali e si costituivano fattorie e
aziende agricole, nel Mezzogiorno il sistema di coltivazione rimase in gran
parte immutato e poche furono le zone che si adattarono ai nuovi modelli e
introdussero nuove colture. Per fare un esempio la patata ed il mais che tanta
importanza ebbero per lo sviluppo dell’Europa perché rispondevano all’espansione
della esigenze alimentari determinate dalla rivoluzione industriale furono
scarsamente considerate. Non tutto ovviamente era rimasto immobile, notevole
sviluppo ebbero le colture della vite e degli agrumi e dell’olivo. Ma anche qui,
dispiace dirlo, i maggiori produttori portavano cognomi stranieri: Ingham,
Whitaker, Woodhouse, Wood, ecc. Solo un nome italiano spicca tra questi, quello
dei Florio.
Si
esportavano soprattutto materie prime non lavorate, quali zolfo e sale marino e
prodotti agricoli pregiati quali olio, agrumi, manna, liquirizia, seta grezza e
vino. Di contro eravamo costretti ad importare prodotti finiti quali tessuti,
cuoio, medicine, ecc destinati quasi totalmente a soddisfare necessità
individuali. Il segno tangibile della nostra subalternità ai mercati esteri è
dato dalla modalità di produzione e del commercio degli zolfi. L’industria degli
zolfi in Sicilia nasce nel 1808, quando il governo diede i consensi per lo
sfruttamento del sottosuolo. La necessità di estrarre in gran quantità lo zolfo
era dettata dalla nascita della moderna industria chimica europea e la Sicilia
aveva il monopolio naturale dello zolfo. L’apertura delle miniere, avviata al
tempo dell’occupazione inglese durante le guerre napoleoniche fece vivere alla
Sicilia una sua particolare rivoluzione industriale che cresceva al crescere
dell’industria inglese e francese. In Sicilia l’attività mineraria fu tuttavia
caratterizzata da uno sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli
operai lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i braccianti
che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle miniere. Questo ci fa capire
quanto drammatiche fossero le condizioni dei lavoratori della terra. In miniera
avevano per lo meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dalla agricoltura
fu significativo e influì non poco nella diminuzione della produzione
cerealicola dei latifondi. Nonostante si fosse venuto a creare un “proletariato
industriale” enorme per quei tempi (le prime statistiche, risalenti al 1860,
registrano la presenza nelle miniere di un’occupazione operaia di circa 16.000
unità) le connotazioni dello “sfruttamento” delle zolfare era prettamente
coloniale. Tutto il prodotto era destinato all’estero allo stato grezzo e
la commercializzazione era prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per
lo più inglesi che si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando il
pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema però accontentava tutti e cioè i
proprietari delle miniere, che erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti,
a cui era affidato lo “sfruttamento” cioè la gestione dei singoli
giacimenti e gli operatori commerciali che agivano sul mercato estero. Da questa
situazione scaturiva una cultura di rapina e sfruttamento nei confronti degli
operai. I metodi di estrazione, per risparmiare, rimasero in uno stato quasi
primitivo, tipico delle industrie coloniali. Con il beneplacito al solito dei
baroni e dei gabelloti. Una tale corsa alla produzione a basso costo portò
spesso a crisi di sovrapproduzione e la situazione era diventata talmente poco
sopportabile per uno Stato che aspirava a diventare moderno che il governo
borbonico, nel 1838, cercò di arginare questo stato di cose offrendo un accordo
vantaggioso alla società francese Taix-Aycard: i ministri di Ferdinando II
offrirono ai francesi il monopolio del commercio degli zolfi, con un limite
massimo di produzione annua, in cambio della costruzione di una moderna
raffineria e di un impianto industriale per la produzione di acido solforico e
soda solforata e l’impegno di addestrare manodopera locale. L’idea era di
allentare la morsa del predominio economico inglese e permettere lo sviluppo di
un’industria chimica siciliana. Un tale accordo avrebbe dovuto essere accettato
con grande entusiasmo e invece “il cartello” costituito dagli inglesi, dai
proprietari delle miniere e dai gabelloti lo osteggiarono fortemente: questi
ultimi videro nell’iniziativa del governo soltanto una diminuzione del loro
profitto individuale e non i vantaggi generali ed a lungo termine per il Regno.
Contemporaneamente all’accordo con la Taix-Ajcard furono promulgate le leggi per
lo scioglimento delle promiscuità e la censuazione dei beni ecclesiastici. Ciò
colpì indistintamente sia gli interessi liberali che quelli delle economie più
arretrate e parassitarie e quindi non ci fu una intesa tra governo e forze
borghesi in vista di uno sviluppo economico autonomo. Nel contrasto con la Gran
Bretagna il governo rimase isolato e finì col trovarsi tra due fuochi. Da una
parte gli inglesi che minacciavano il ricorso alle armi, dall’altra i
fuoriusciti siciliani [9]. La
diplomazia borbonica cercò aiuto all’Austria e alla Francia e fece anche delle
pubbliche proteste contro gli Inglesi disponendo l’embargo per le navi inglesi.
Ferdinando si trasferì in Sicilia per meglio gestire la questione ma non ebbe
nessun aiuto sul piano internazionale e l’appoggio locale non fu adeguato. Alla
fine fu praticamente costretto a revocare l’accordo con la Taix-Aycard. Al danno
si aggiunse la beffa perché il governo dovette risarcire sia i francesi che gli
inglesi.
Dobbiamo tuttavia osservare
che fin dagli anni ’30 dell’800 si era sviluppato un vivace dibattito tra
protezionisti e liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo sviluppo
economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di associazione che
avrebbe consentito di aumentare non solo il capitale in denaro ma anche di
macchine, di strumenti, di materie grezze e soprattutto di operai e dirigenti
specializzati. Non dimentichiamo infatti che le nostre università vantavano
cattedre di teologia, di filosofia, di economia, di lingue orientali, di
astronomia ma mancavano di cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia
inerente la gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere
quell’”arte” che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare operai
qualificati.
Alla
base del mancato decollo dell’economia isolana, come bene scriveva Lucchesi
Palli (Effemeridi scientifiche e letterarie, 1834), c’era soprattutto la mancata
crescita del mercato finanziario “La Sicilia non sarà
mai né perfetta agricola, né commerciale, né manifatturiera, se pria
un’immissione di nuovi capitali circolanti non ne vivifichi il suo stato.”
Non si reinvestivano i capitali nell’isola, come abbiamo già avuto modo di
osservare, e non solo per gli interessi della finanza internazionale (in prima
fila i Rothschild) ma soprattutto per la mancanza di una cultura in tal senso
degli operatori siciliani. Pochi furono quelli che si scostarono da questo
andazzo: Vincenzo Florio e Camillo Camposanto ad esempio si adoprarono per la
nascita di stabilimenti per la lavorazione ed il commercio dei tabacchi. I
Florio in particolare, diedero inizio alla loro spettacolare ascesa,
intervenendo a 360° nell’economia isolana, nell’industria del vino,
nell’estrazione e commercializzazione degli zolfi , nella produzione chimica ,
nella navigazione e nella cantieristica navale, nelle tonnare, ecc. Erano la
dimostrazione che in Sicilia si poteva crescere. Bastava semplicemente investire
capitali e formare mano d’opera qualificata impedendo il mero sfruttamento del
territorio e della nostra forza lavoro da parte di operatori stranieri.
Nell’attività degli zolfi dimostrarono come fare impresa, costituirono infatti
società per azioni con i proprietari delle miniere anziché contentarsi del
solito rapporto di gabella e anche nelle altre società si unirono ad altri
validi operatori, come i Riso, i Bordonaro o gli stessi Ingham, formando società
finanziarie con sede in Sicilia . Ad esempio, per ovviare alla carenza dei
trasporti per il commercio e non affidare le merci a società estere, venne
costituita, nel 1840 la società dei battelli a vapore con un capitale di 35.000
onze diviso in 350 azioni che l’anno successivo fu in grado di assorbire la
Fonderia oretea che doveva essere una azienda di supporto a quella di
navigazione. La fonderia fu ampliata e fornita di apparecchiature moderne adatte
a costruire caldaie e motori per nave e creando posti di lavoro.
Malgrado queste iniziative
che si sviluppavano contemporaneamente anche nell’area del messinese e del
catanese l’industria siciliana non riusciva a decollare. Anche se erano presenti
realtà aziendali in vari campi, le imprese erano in massima parte troppo
piccole, al massimo 5-10 dipendenti, a carattere artigiano e familiare in grado
di soddisfare soltanto le esigenze del mercato locale, al massimo provinciale o
interprovinciale e raramente regionale[10].
Meno che nel settore minerario e in quello vinicolo non esistevano aziende in
grado trovare sbocco nel mercato estero o in quello napoletano. Praticamente noi
esportavamo quasi esclusivamente derrate agricole pregiate e vino di alta
qualità (il Marsala), destinati però al consumo di lusso, sale marino e zolfo in
massima parte sotto forma di materie prime non lavorate e quindi senza
“indotto”. Da granaio d’Europa la Sicilia si era trasformata nella zolfara e
nella saliera d’Europa. Prima serviva a sfamare le truppe che dominavano il
continente e poi servì ad alimentare le industrie che la soggiogavano
economicamente. Per tutto il periodo preunitario il numero delle società per
azioni si mantenne limitatissimo ed erano praticamente assenti gli istituti
finanziari, come le casse di risparmio o le banche di emissione, deposito e
sconto. Il settore finanziario era completamente trascurato, a nessuno venne mai
in mente di fondare una banca o di modificare le Tavole di Palermo e di
Messina [11]
che avevano ancora una struttura strettamente feudale, bastevole solo a
garantire le operazioni ordinarie dell’erario pubblico. Il primo tentativo di
fondare un Banco di Sicilia in senso moderno fu ad opera del lombardo Giuseppe
De Weltz e del napoletano Francesco Fuoco [12]. Ma non ebbero successo anzi furono
criticati pesantemente persino da studiosi come Nicolò Palmeri. Neanche dopo le
rivolte del ’48 riuscì a passare una proposta in tal senso. Erano proprio teste
di coccio! E mentre in Europa si sviluppava un fitto intreccio capillare di
banche, la borghesia siciliana mostrava tutta la sua arretratezza culturale in
campo dell’economia e rimaneva subordinata alla concezione cattolica
dell’economia da sempre ostile allo sviluppo del moderno credito bancario. Non
tutte le colpe del mancato sviluppo moderno dell’economia del Mezzogiorno ed in
particolare i Sicilia sono, ovviamente, della Chiesa controriformista ma è certo
che essa ha avuto una notevole influenza negativa ed i suoi veti furono da noi
osservati più che altrove in Italia. Anche negli anni successivi, quando ormai
non era più possibile contrastare lo sviluppo del sistema bancario, il credito
rimase in buona parte sotto il controllo della Chiesa il che portò, oltre alla
diffusa pratica dello strozzinaggio, alla pratica caritativa ed assistenziale
del credito gestito dalla chiesa con i Monti di pietà e i Monti
frumentari [13],
e dalle forze ad essa collegate in maniera spesso spregiudicata e strumentale.
Se durante l’alto Medioevo (con i Normanni e gli Hoenstaufen) e nel periodo dei
vicereami la presenza di banchieri genovesi, Pisani, Veneziani, ecc era molto
presente sul territorio, durante il regno borbonico prevalse il capitale
commerciale d’oltralpe (svizzero, tedesco, francese, inglese,…) per cui il
capitale si concentrò quasi unicamente nelle piazze di Palermo e Messina,
trascurando le zone interne della Sicilia, quella produttiva e agricola che
rimasero saldamente in mano alla Chiesa.
Non ci
sembra azzardato paragonare la situazione del Regno delle Due Sicilie a quella
dell’Italia di oggi: tante piccole imprese, troppe forse, poche grandi
industrie. Esportazione di merce pregiata, destinata ad un mercato ristretto, e
importazione di beni di largo consumo.
La
popolazione si articolava in tre fasce a distribuzione piramidale, un vertice
costituito dall’aristocrazia terriera che dilapidava i suoi patrimoni
inseguendo lussi e capricci, una borghesia di paglietta, tranne qualche
rara eccezione come i Florio, i Gallo o gli Orlando che investivano
nell’industria metallurgica ma che nel tentativo di imitare il tenore di vita
dei nobili e di entrare nella loro cerchia, diedero il via a quel fenomeno
descritto come “pietrificazione dei profitti”, l’acquisizione cioè di sontuose
dimore urbane e suburbane con relativi parchi, e il popolo infine che
versava in uno stato di generale povertà e nella più nera miseria se ci si
spostava nelle zone interne dell’isola.
Era
proprio il basso tenore di vita della maggior parte della popolazione e la
penuria di denaro circolante che a lungo termine non avrebbe assicurato sbocchi
a qualsiasi attività produttiva, dai manufatti metallurgici, ai tessili, dalle
ceramiche all’editoria.
La
situazione periferica rispetto ai principali mercati inoltre, faceva sentire
tutto il suo peso allora come ancora oggi. La ricchezza del sovrano e delle
classi egemoni non si rifletteva nel resto del paese. Poche isole felici per lo
più concentrate nei centri marittimi più importanti come Messina, Palermo e
Marsala mentre il resto dell’isola versava in condizioni di miseria, di
ignoranza e di arretratezza.
Una
situazione simile troviamo nella parte continentale del Regno dove, con
l’abbattimento dei dazi doganali protezionistici e l’introduzione, il 24
settembre del 1860, della tariffa libero-scambista, la concorrenza dei prodotti
del Nord ed esteri mise in ginocchio l’industria e l'agricoltura. Con l’Unità
d’Italia, ci fu l’aumento istantaneo del prelievo fiscale, accompagnato dal
drenaggio del risparmio capitali, e la progressiva diminuzione delle commesse
statali alle imprese del Sud. La frattura economica Nord-Sud si cominciò così a
delineare già dopo 20 anni d’unità, e “… segnatamente tra la fine degli anni
Ottanta e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale” [14].
Emblematica al riguardo è la
lenta ma inesorabile agonia dello stabilimento di Pietrarsa, consegnato dai
Piemontesi ad uno speculatore di dubbia fama, Jacopo Bozza. La situazione si
deteriorò rapidamente, con licenziamenti e riduzioni salariali continue e,
nell’agosto del 1863, lo sciopero delle maestranze fu sedato dall’esercito
piemontese, che sparò sulla folla uccidendo sette operai e ferendone altri
venti. L’officina fu in seguito affidata alle Ferrovie dello Stato, che la
ridussero a inizio ‘900 a deposito (oggi è un museo).
Tale
stato di cose non poteva non provocare malumori, ribellioni, tensioni e
banditismo. Il Regno era troppo fragile e l’invasione dei piemontesi non aveva
fatto altro che dilaniare quel poco di tessuto economico che si era formato,
consentendo l’ascesa di pochissimi speculatori economici, come i Florio che
approfittando del marasma creatosi si impadronirono di quanto gli imprenditori
stranieri andavano abbandonando e di moltissimi “speculatori” politici che si
impadronirono di quante più cariche pubbliche locali e nazionali potevano. Ma
anche per costoro la vita non sarà facile: non mutando le condizioni della
maggior parte del popolo, anzi per certi versi peggiorando, anche le loro
ricchezze erano destinate a sfumare.
Lo
sviluppo del sud si può definire una norma programmatica cioè un obiettivo che
deve essere quotidianamente realizzato, oggi come allora e sarà difficile uscire
da questo “empasse” se il Mediterraneo, USA ed EU permettendo, non torna ad
essere un centro commerciale di primario interesse.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
dicembre 2007
Bibliografia
Note
[1] La feudalità fu abolita con la legge del 2
agosto 1806 e fu abrogata ogni legislazione penale feudale esercitata per secoli
dai baroni e dal clero. Fu confermata però la trasformazione dei baroni da
“possessori” a “proprietari” delle ex terre feudali. Furono conservati gli Usi Civici a favore delle popolazioni
rurali.
[2] Le “regie commissioni partitarie borboniche”
inizialmente recuperarono all’erario migliaia di ettari, fino ad allora
posseduti arbitrariamente dai baroni. Le competenze su queste terre furono
affidate ai sindaci, ai prefetti ed ai giudici dei tribunali ordinari, i quali
però spesso vanificarono l’opera delle commissioni, riaffidando i terreni ai
vecchi feudatari.
[3] Ressa G., Il Sud e l’Unità d’Italia, p.
160.
[4] Da qui il
ritardo nell’adeguarsi alla trasformazione da stato feudale in stato moderno,
anche se in Sicilia i germi del cambiamento iniziarono a germogliare dopo il
trattato di Utrech con la venuta di Vittorio
Amedeo di Savoia e ancor più rapidamente dopo il 1735 quando si venne a
creare il regno di Carlo di Borbone. Il tessuto feudale che
nel sud d’Italia era più forte che altrove, ritardò comunque in maniera evidente
la modernizzazione dello stato. Basta pensare che su 350 comuni siciliani ben
300 erano soggetti al mero e misto imperio. I baroni cioè imponevano e
riscuotevano tributi, nominavano i giudici e gli amministratori locali, avevano
le loro carceri e la loro polizia privata. Dopo il 1812 tutto questo cessò ed è
indubbio che le ripercussioni furono evidenti e si fecero passi avanti nel
rinnovamento della società ma certamente partendo da una situazione svantaggiata
tali cambiamenti sembrarono più lenti rispetto a quelli dei paesi del nord
Europa.
[5] Ricordiamo che proprio in questo anno il
Regno di Sicilia smette di essere regno autonomo per essere assorbito nel Regno
delle Due Sicilie in seguito alle decisioni prese durante il Congresso di
Vienna.
[6] A Marsala operavano anche i Corlett e Lee
Brown mentre Joseph Payne e James Hopps aprirono bagli a Mazara. La presenza
inglese favoriva anche la commercializzazione della pasta di liquirizia per la
quale un altro commerciante inglese impiantava una fabbrica a Mazara del Vallo,
ecc. (Cancila, 1992)
[7] Nato a Ustica nel 1802, Vincenzo Di Bartolo
fu il primo navigatore del regno delle due Sicilie a spingersi (nel 1838) con un
fragile brigantino, fino alle più remote isole indocinesi, portando per la prima
volta in Italia il prezioso carico, interrompendo così il monopolio delle grandi
marinerie. Peccato però che lo portò per conto degli
inglesi.
[8] Nel 1837 Luigi Corsi impiantò la prima
fabbrica di locomotive e mezzi ferroviari e nel 1860 contava 1050 addetti.
All'avvio dello stabilimento di Pietrarsa, erano presenti numerosi ufficiali
inglesi in qualità di consulenti e supervisori, ma in seguito ci si affrancò
completamente da tale subordinazione, anche per il deterioramento dei rapporti
con l'Inghilterra dopo gli avvenimenti del 1848-9, e si può sostenere che quella
di Pietrarsa fu la migliore realizzazione di Ferdinando II e del suo tentativo
autocratico. Accanto a Pietrarsa sorgevano le industrie metalmeccaniche Zino ed
Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy entrambe con 600 addetti. Citiamo anche lo
stabilimento Oomens (macchine agricole e tessili). Molti cognomi stranieri, a
testimoniare la scarsa propensione all’investimento da parte della borghesia
indigena.
[9] I rapporti tra re Ferdinando da un lato e
francesi e inglesi dall’altro faranno assai più tesi durante la guerra di
Crimea, soprattutto quando il regno di Piemonte si unisce agli alleati che
combatterono a fianco dell’impero ottomano contro la Russia. Incidenti di poco
conto furono artatamente gonfiati come fossero di livello internazionale come
accadde quando il capo della polizia di Napoli, Mazza, durante una
rappresentazione a teatro ordinò platealmente a George Fagan di abbandonare il
palco accusandolo di fissarlo col binocolo. Dopo il trattato di Parigi a
Ferdinando fu virtualmente ordinato da lord Clarendon e dal conte Walewski,
ministro degli esteri francese, di promulgare una amnistia. Ferdinando non se ne
diede per inteso e Gran Bretagna e Francia ruppero i rapporti diplomatici. Fu in
questo periodo che Agesilao Milano compì il suo attentato al re (8 dicembre
1857)
[10] Secondo dati ufficiali del 1855, in
provincia di Palermo esistevano in tutto 133 aziende con 2.133 dipendenti, dei
quali 1.212 impiegati in 12 miniere di Lercara e 951 in tutte le altre
fabbriche. In media ogni impresa aveva 8 operai, un terzo dei quali aveva meno
di 16 anni. Simile era la situazione nelle province di Messina e Catania.
Naturalmente non mancavano le aziende di maggiore consistenza come la Fonderia
Oretea che impiegava 200 operai o il cotonificio Ruggieri di Messina con 610
operai (in massima parte manodopera femminile) o la filanda di seta di
proprietà di Jager e C. con 200 operai, anche qui in massima parte donne
e ragazzi. Considerevoli erano pure le industrie vinicole del marsalese dei
Woodhouse, degli Ingham e dei Florio. (in Renda, Storia della Sicilia dal 1860
al 1970, pp 110-111)
[11] Non solo per gli interessi della finanza
internazionale ma soprattutto per la mancanza di una cultura in tal senso degli
operatori siciliani. A Napoli invece fin dal 1808, sotto l’impulso del regime
bonapartista era nato il Banco delle due Sicilie, al quale si aggregarono in
qualità di filiali, le Tavole di Palermo e Messina.
[12] Era Il Fuoco uno dei
maggiori economisti del Mezzogiorno preunitario, autore di una poderosa opera di
teoria e politica bancaria, la Magia del credito
svelata.
[13] Salvo di Matteo e Francesco Pillitteri,
Storia dei monti di Pietà in Sicilia, Palermo, Cassa di Risparmio V:E:
per le province siciliane, 1973.
[14] G. Pescosolido, Unità nazionale e
sviluppo economico, Laterza, 1998,
pag.XI.
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