A quando «questa storia» nelle scuole?
Nicola Zitara
1. La storiografia ci presenta la Banca di
Sconto di Genova come l'ottava maraviglia del mondo, ma alla partenza
essa non ha niente di prodigioso. E' una minuscola banca d'emissione realizzata
su un modello marsigliese. Quanto, poi, alla sua consistenza patrimoniale, essa
era alquanto modesta se confrontata con altre istituzioni creditizie del tempo,
quali, ad esempio, il Banco delle Due Sicilie, che in quegli
anni emetteva fedi di credito per quasi duecento milioni (lire sabaude), o la
Cassa di Risparmio di Milano, che registrava 120 milioni depositi (lire
sabaude). Sarà il corso successivo della storia, con l'Italia una e
indivisibile, a conferirle un ruolo centrale nell'economia nazionale, e saranno
le sue mene, propriamente intrallazzistiche, a bloccare sul nascere ogni
tentativo della mercatura meridionale di dotarsi di un sistema creditizio
concorrente con quello toscopadano, cosa che in parole povere avrebbe
significato metterlo in ginocchio. Bisogna anzi dire che in uno Stato fintamente
nazionale, nella cui parte alta sono nati prima i capitalisti e poi il capitale,
la fasulla banca nordista, con i suoi inenarrabili brogli, fu la vera levatrice
del sistema italiano, in cui l'efficienza della sezione dominante è impossibile
senza l'inefficienza della sezione coloniale; un fenomeno singolare, che forse
non ha riscontri nel mondo civile e sul quale le storie patrie preferiscono
sorvolare per motivi evidenti.
L'impulso
a creare una banca d'emissione sul modello francese venne da Raffaele De
Ferrari, sedicente duca di Galliera, che si era arricchito a Parigi,
dove gestiva, fra l'altro, l'appalto della nettezza urbana (Sereni**, pag. 162).
Questi viene presentato dalla mitologia capital-patriottica come un uomo
d'affari moderno e persino generoso. In verità, oltre che un capitalista di
successo, il sedicente duca fu anche un gran trafficone. Come tutti gli uomini,
onesti o disonesti che siano, amava la sua città e prima di morire le regalò 20
milioni - a quel tempo una cifra da far impallidire un re - per l'ingrandimento
del porto. Secondo l'autore di un'opera che, fra l'altro, descrive con molta
efficacia la nascita dell'industria genovese, De Ferrari fu il primo presidente
della società proprietaria della Banca di Genova (Gazzo, pag.
26). Secondo altri, per esempio l'autorevole Di Nardi, non appare tra i
fondatori . E' tuttavia facile vedere la sua impronta stampata in controluce
nell'agile, disinvolta e moderna conduzione della banca.
Vivendo altrove, i suoi affari genovesi erano
delegati a persone di cui aveva stima e fiducia. Fra queste vi era Carlo
Bombrini che, secondo alcuni autori, diresse la Banca di Genova sin dal
primo momento. E' costui l'uomo che ci interessa; un personaggio ingombrante,
sulla cui opera gli storici patri preferiscono non approfondire. A unità fatta
sarà uno dei più grossi profittatori del regime liberal-cavourista, il regista e
il primo attore del carnevale bancario messo in scena ancor prima che Cavour
morisse; e anche uno dei più vivaci nemici e affossatori dei fratelli
meridionali; un uomo nefasto, che va considerato come una grande sciagura per il
Sud italiano.
Gli anni intorno al 1845 segnarono
un'inversione nell'andamento dei prezzi. A livello mondiale si stima che, scesi
tra il 1820 e il 1844 di oltre il 30 per cento, risalissero di oltre il 20 per
cento entro 1858. Sotto la spinta della domanda crescente di derrate agricole, i
numerosi Stati in cui era divisa la penisola italiana videro crescere la loro
partecipazione al commercio mondiale. Per tal motivo l'iniziativa di Galliera
ebbe subito un buon successo fra i mercanti genovesi. Erano mesi in cui gli
importatori cittadini andavano accumulando scorte di grano e necessitavano,
quindi, di finanziamenti. Sopravvenuta, però, una breve crisi, per non liquidare
in perdita le partite in magazzino, ebbero bisogno di altri capitali. Presto le
azioni della Banca, del valore nominale di lire mille, arrivarono ad essere
quotate sopra le 1.500 lire. Gli osannatori delle virtù norditaliche affermano
che essa superò la congiuntura sfavorevole senza subire perdite; che, anzi, i
suoi promotori e azionisti lucrarono ottimi dividendi (Di Nardi, pag. 14); una
cosa della quale sarebbe ingenuo dubitare. Ciò suscitò invidia ed emulazione a
Torino.
A quel tempo le due città non si amavano.
Genova non dimenticava il ruolo di capitale finanziaria e marinara che aveva
tenuto nell'economia mondiale; un ricordo divenuto più amaro dopo che il
Congresso di Vienna (1814-1815) l'aveva consegnata, mani e piedi legati, ai
rustici Savoia. D'altra parte la Città viveva ancora di traffici navali e di
commerci, sebbene su una scala non paragonabile a quella dei secoli precedenti.
La cattività sabauda, insieme alla non spenta vitalità e all'esigenza di non
essere politicamente separata da Milano, contribuirono a farne il focolaio forse
più vivace del moto unitario, specialmente della corrente repubblicana. Ma, per
ironia delle cose, furono proprio le ambizioni sabaude a fare di Genova la città
che, assieme a Roma e a Milano, ha tratto maggior profitto dall'unificazione
italiana. Intorno al 1845, i suoi armatori, i padroni dei suoi cantieri, i suoi
mercanti e banchieri, celebri in altri tempi, si sentivano soffocati a causa
della preferenza che l'Impero asburgico accordava a Trieste. La stessa Milano
era costretta a preferire Venezia alla più vicina Genova. Tuttavia, come
Palermo, Napoli, Livorno, anche Genova era piena di mercanti, di case
finanziarie e di fabbricanti stranieri, che ne animavano la vita. La città
contava numerosi opifici, specialmente per la fabbricazione del cotone, della
carta, del sapone e nel settore che oggi diremmo metalmeccanico. E tuttavia
niente che potesse dirsi moderno. In occasione di una riunione degli scienziati
italiani, tenuta al Palazzo Ducale, nel settembre del 1846, un giornale scrisse
che "la lamentela è generale…macchine non ce ne sono e non abbiamo chi le sappia
usare. Quel che si può avere viene dall'Inghilterra, ma si aggiunge tanta è la
spesa che per erigere uno stabilimento si richiedono egregie somme…" (Gazzo,
pag. 50). Le vicende successive dimostrano, però, che se mancavano le macchine
moderne, non mancava la gente informata e non mancavano le professionalità e
quei talenti che pochi anni dopo sapranno assimilare le tecnologie avanzate di
cui si deprecava l'assenza.
Torino è invece una media città capitale della
provincia agricola italiana. Si è già annotato che appare più francese che
italiana. Alle le sue spalle non ci sono splendori rinascimentali. L'agricoltura
piemontese conta principalmente su un surplus, la seta greggia, che viene
collocata prevalentemente a Lione. Assieme alla contiguità geografica, è questo
un altro motivo che spinge la classe padronale subalpina a guardare più alle
città francesi, specialmente a Parigi, che alle rinsecchite città padane,
sebbene molto più vicine. Come dappertutto nell'Italia insubrica, dove il
surplus economico è collegato a una monocoltura d'esportazione - la seta -
l'uniformità produttiva, più che unire, allontana economicamente e culturalmente
le realtà locali.
Trapiantata di qua delle Alpi, l'antica
organizzazione feudale savoiarda s'era evoluta verso un'avveduta borghesia
aristocrateggiante di tipo terriero-militare; unico esempio del genere
nell'Italia della decadenza. Però, dopo la Restaurazione, tra i rivoluzionari e
i reazionari - che c'erano in Piemonte come dovunque - va inserendosi un
variegato gruppo di patrioti, chi moderato, chi conservatore, fra cui figurano
Gioberti, Rosmini, Balbo, d'Azeglio, i quali guardano alla Francia come a un
modello da copiare in tutto o in parte.
Fatta di tutt'altra pasta, Genova mal sopporta
il giogo torinese: il suo irredentismo è forte. Per addomesticarlo, nel 1848, i
Savoia si spinsero fino a farla bombardare; una cosa che non deve sorprendere,
in quanto consona allo stile forcaiolo dei loro re e dei loro generali/gendarmi,
come si constaterà in appresso nel Napoletano, a Palermo e dovunque
nell'infelice Sud, disinvoltamente consegnato dal padronato siculo e napoletano
alla dirigenza speculatrice toscopadana.
La Banca di Sconto, Depositi e
Conti Correnti di Genova parte nel 1844 con un capitale di quattro milioni di
lire e va avanti con alquanta prudenza. Sebbene l'atto costitutivo approvato dal
governo sabaudo le permetta di emettere biglietti nel rapporto di tre a uno (di
riserve metalliche), quindi fino a 12 milioni, i biglietti fiduciari
effettivamente messi in circolazione ammontano solo a 1,5 milioni nel 1845, a 4,
2 milioni nel 1846 e a 8,65 milioni nel 1847. Cavour, modernizzatore convinto,
ma non ancora ministro, critica tale prudenza sul suo giornale (Cavour* pag. 302
e sgg.). In sostanza, la Banca di Genova si piglia tre anni di rodaggio per
cominciare a utilizzare la facoltà accordatale di emettere moneta fiduciaria, e
lo fa in modo contenuto, fino a 8 milioni, nel rapporto di 2 a 1. D'altra parte,
il governo di Torino è estremamente prudente in materia monetaria (Bachi**, pag.
902) dopo la brutta esperienza fatta dai piemontesi durante le lunghe guerre
napoleoniche, allorché la moneta cartacea aveva sofferto una spaventosa
svalutazione. E' quindi immaginabile che fosse poco incline a offrire larghi
spazi ai biglietti bancari. Per giunta il Piemonte agricolo mostra d'avere
circolante a sufficienza per la commercializzazione dei suoi prodotti, e solo al
momento della campagna dei bozzoli si avverte qualche scarsità di numerario
(Bachi**, ibidem) - si può immaginare - gonfiata ad arte dalle case bancarie
cittadine.
La svolta creditizia andò a premere non tanto
sulla produzione agricola, quanto sul giro commerciale e sulla fantasia di chi
aveva delle idee, ma non il capitale necessario per realizzarle. Nel 1848, la
circolazione metallica complessiva del regno sardo, secondo una valutazione di
Cavour, si aggirava intorno ai 120-150 milioni, secondo altri sarebbe stata di
200 milioni circa (Romeo*, vol. II, p.174). Rispetto a questa cifra, la
circolazione cartacea rappresentava una percentuale del quattro per cento circa.
Le emissioni della banca genovese s'impennano, fino a raggiungere il rapporto di
5 a 1 (di riserve) solo nel 1848, allorché il governo piemontese si preparava
alla guerra con l'Austria. In cambio di un prestito allo Stato di 20 milioni, la
Banca di Genova viene autorizzata a non convertire le banconote in circolazione:
circa 31 milioni, di cui 20 milioni emessi per decreto regio, senza alcuna
copertura. E' il cosiddetto corso forzoso. L'espressione non significa soltanto
che la Banca non era tenuta a convertire i biglietti, ma anche che chi aveva
contratto un debito poteva pagarlo con cartamoneta ed esserne liberato. Nella
pratica le cose non andarono così semplicemente. A livello della gente comune,
la moneta metallica rimase l'unica a essere usata. La banconota penetrò, invece,
a un livello più alto, quello degli operatori economici. Ho già ricordato che da
almeno cinquecento anni la circolazione cartolare del dare e dell'avere
attraverso lettere di credito, cambiali, tratte, mere scritture contabili,
permetteva ai banchieri e ai grossi mercanti di fare, nei rapporti reciproci, un
uso parecchio modesto del metallo coniato. Ai banchieri, ai mercanti, agli
industriali servivano invece due cose: che la fiducia si istituzionalizzasse
(rimando al passo di Pellegrino Rossi, prima riprodotto) e che i rapporti
fiduciari coinvolgessero anche chi stava su un gradino più basso. Ancora oggi
esiste una categoria di piccoli e medi imprenditori, che ruota intorno ai grossi
come le falene intorno alla lampada. Alla Fiat l'hanno definita l'indotto. Ma
non sempre si tratta di satelliti che ricevono luce e calore da un solo, grande
pianeta. A volte sono operatori indipendenti, la cui mediazione consente ai
maggiori imprenditori di entrare in relazione (indiretta) con la produzione
reale e con il consumo reale .
L'oro innalzava a padrone chi lo aveva in mano.
Idealmente, il banchiere stava sotto il redditiere, titolare del deposito. Il
passaggio dal numerario alla cartamoneta capovolgeva la padronanza. La carta
liberava il banchiere dalla dipendenza verso il padronato terriero. La catena
della moneta fiduciaria allargava il suo potere di comando. Con un biglietto che
riscuotesse la fiducia dei piccoli e medi operatori, i grossi avrebbero potuto
moltiplicare il loro giro commerciale. Non solo. Avrebbero scaricato anche una
parte dei costi su chi stava sotto.
Al tempo di Cavour, il giro delle banconote
fiduciarie, estraneo al grosso pubblico, dovette ristagnare nel rapporto tra
imprese maggiori e medi operatori, loro caudatari. E fu sicuramente a questo
livello, non riuscendo la banconota a penetrare più in basso, che il metallo
guadagnò un aggio sulla carta. In parole povere, chi possedeva 100 lire oro era,
a seconda del corso, come se avesse 105, 110, 120 lire.
Dal lato dei grossi imprenditori, la fiducia
mostrò la sua gran virtù. Fin quando la moneta metallica fosse circolata fra la
gente, i finanzieri avrebbero fatto i loro affari con i denari degli altri. Nel
mondo contemporaneo, la cosa corrisponde a un progresso. Ciò spiega come la
Superba, che da più di un secolo viveva in splendid isolation, si riaprì alla
progettazione del futuro (Gazzo, pag. 56).
Un effetto opposto, la sfiducia, si ebbe nel
settore del piccolo commercio che prese a rallentare in modo preoccupante,
sicché, nel 1851, il governo decise di revocare il corso forzoso. Nel frattempo
la Banca di Genova aveva messo radici nel suo ambiente. Il corso forzoso aveva
favorito la circolazione dei suoi biglietti. Si trattava di biglietti da 1000,
da 500 e da 250 lire, come dire da sei, da tre e da un milione e mezzo attuali;
cifre di cui la gente comune neppure sentiva parlare a quel tempo, quando un
chilo di pane costava pochi centesimi di lira. E ciò nonostante gli affari della
Banca furono ottimi, segno chiaro che il mondo degli affari aveva fame di
credito.
Nel poco tempo in cui fu solo genovese, la
Banca compì operazioni attive che stettero mediamente sui quaranta milioni
annui, più il prestito di 20 milioni allo Stato, che al tasso del 2 per cento le
rese le lire quattrocentomila segnalate in tabella per l'anno 1849. Poco per una
grande città portuale in quella fase di espansione del commercio marittimo.
Pochissimo a confronto con le operazioni attive che il Banco delle Due Sicilie
effettuava negli stessi anni .
Pochini sembrano anche gli utili dichiarati
dalla Banca di Genova. Trenta milioni, prestati al tasso del 5 per cento , danno
un milione e mezzo di utile lordo, partendo dal quale, per quanto pesanti
possono essere i costi, è ben difficile scendere fino a 90 mila lire. Meno della
metà di quel che incassava la famiglia Cavour vendendo il riso prodotto nella
sola tenuta di Leri. Pautassi (pag. 316) indica cifre diverse da quelle sopra
segnate . Evidentemente Bombrini teneva una contabilità in nero. Non sembri
avventato il sospetto: chi ha occhiutamente curiosato fra le sue cifre - per
esempio la Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul corso Forzoso - ha toccato
con mano che il vino di quella botte dava allo spunto.
Il moderno capitalismo genovese nasce già
scaltrito in una materia, il falso in bilancio, che sarà, poi, nell'Italia
toscopadana, una delle arti più consone al genio della stirpe. Il falso si
rileva con un ragionamento a contrario. Le trattative condotte da Carlo
Bombrini, per conto della Banca genovese, e da Camillo di Cavour per conto della
Banca torinese, durarono ben due anni a causa del fatto che i padroni genovesi
pretendevano una valutazione di lire 1.400 per ogni azione conferita. Ora, se ci
prendiamo la briga di spargere 90.000 lire di utili su 4000 azioni da lire mille
(totale 4 milioni di lire), avremo che ogni azione frutta un dividendo di lire
22,5, su mille versate o da versare, comunque messe a rischio; in sostanza
l'investimento avrebbe dato un profitto del 2,25 per cento. Una cosa credibile
solo nel paese degli asinelli. Capita qualche volta che io creda agli storici
italiani, ciò nonostante nessuno di loro riuscirà mai a convincermi che a Genova
i capitalisti fossero tanto fessi. E che ancor più fessi fossero i capitalisti
torinesi - e fra loro Cavour - che accettarono di conferire alle azioni della
Banca genovesi un premio di lire 250 (Marchetti, pag. 34). Un'azione, valutata
il 25 per cento in più, solo qualche anno dopo l'emissione, prefigura un
dividendo di almeno il 10 per cento, e non del due per cento, come si pretende.
Peraltro, anche tale percentuale va elevata perché, non essendo stata versata
che una quota del capitale azionario, le lire impegnate non erano mille, ma solo
500.
Sulle prime, il prestito chiesto dallo Stato
alla Banca di Genova spaventò i soci e l'opinione benpensante della Città; ci
volle qualche tempo perché gli uni e l'altra si rendessero conto che il governo
sabaudo, non sapendo affrontare da sé la situazione finanziaria creata dalla
guerra, regalava ben venti milioni, sottratti alla gente, a chi s'era deciso ad
arrischiare forse un decimo di tale cifra, in sostanza il capitale già versato.
E per sovrappiù regalava anche una specie di rendita a chi metteva di suo
nient'altro che le spese tipografiche. Certo nessuno meglio dei genovesi aveva
sperimentato l'inaffidabilità di re e imperatori, ma le condizioni economiche
dello Stato piemontese, sebbene appesantite dalle spese di guerra, non
lasciavano prefigurare un crac. D'altra parte, se i cittadini sabaudi non
conoscevano la storia delle banche di emissione francesi e inglesi, sicuramente
la conoscevano i padroni della Banca di Genova, e la storia insegnava che in
nessun caso di crac bancario del passato gli azionisti avevano pagato più della
quota azionaria , avendo sempre preferito lasciare tale onore al pubblico.
Come accennato, il corso forzoso dei biglietti
dalla Banca di Genova portò a un incremento della circolazione monetaria di
circa il 10 per cento. Ma ciò assume un senso solo in relazione ai movimenti
della retrostante speculazione.
2. La Banca d'emissione di Torino nacque per
merito di Cavour non ancora ministro, il quale seppe volerla politicamente e
realizzarla rischiando di tasca propria. Infatti investì nell'operazione 160 o
180 mila franchi, suoi e di alcuni suoi amici, lucrando, nel breve volgere di un
anno, circa 40 mila franchi (tra il 25 e il 20 per cento dell'investimento).
Prima che le trattative fra i fondatori si avviassero concretamente, pare che
Cavour fosse chiamato a vincere le resistenze dei vecchi banchieri torinesi, che
non volevano novità in casa loro, meno che mai un potere capace di
sovrastarle.
L'idea di creare a Torino una banca d'emissione
portò alla luce del sole anche il conflitto latente tra i produttori e i
finanzieri. In passato, i produttori e gli esportatori di seta avevano ottenuto
dallo Stato prestiti a buone condizioni. L'erario sabaudo aveva delle eccedenze
di liquidità e, come è ancora costume in tutti gli Stati, aiutava un settore
portante delle le esportazioni nazionali. Venuto meno, dopo la sconfitta di
Novara, l'aiuto del pubblico erario, i setaioli aspiravano ad avere una
partecipazione nella costituenda banca. Oltre tutto erano gli operatori più
interessati al credito, in quanto tra l'avvio della produzione e la
realizzazione del valore passavano lunghi mesi, dovendo essi, secondo la pratica
commerciale del tempo, prima acquistare la materia prima (le uova della
farfalla, la foglia dei gelsi, il combustibile etc.), qiundi anticipare i
salari, poi collocare la merce e alla fine attendere che il cliente
pagasse.
I grossi finanziari e i banchieri, però, non
volevano che la pecora che essi tosavano si mischiasse con i pastori. Pare che
Cavour prendesse le difese dei setaioli, ma se lo fece, dovette tuttavia darsi
per vinto. Alla società per azioni, che si costituì per dar vita alla Banca di
Torino, parteciparono solo dieci persone e case bancarie, autoselezionatesi tra
gli operatori più ricchi. Fra i dieci anche Cavour . La presidenza toccò al
banchiere Giovanni Nigra, fratello del ministro delle finanze.
Già prima che si andasse dal notaio, il governo
chiese anche alla nuova banca un prestito di 20 milioni, offrendo in cambio la
facoltà di emettere biglietti per un importo pari. I soci non si mostrarono
alieni dal lucrare sulle difficoltà che la guerra perduta creava allo Stato. A
questo punto, però, i milioni in circolazione sarebbero diventati 20+20+12+12 =
64. Ciò apparve preoccupante a Cavour, il quale temette che un eccesso di carta
in circolazione avrebbe incrinato la pubblica fiducia, con la prospettiva d'una
caduta del corso dei titoli e forse anche di un'inflazione (Marchetti, pp. 25 e
29; Di Nardi, p. 19); una preoccupazione conforme al rango patrimoniale del
conte, che egli esternò sul suo giornale. Ma i suoi articoli non spaventarono
chi allora era al governo , cosicché, tra il 1849 e il 1850, la circolazione
cartacea toccò i 51 milioni.
L'esistenza della Banca di Torino fu breve. Ad
opera del duo Bombrini- Cavour si arrivò faticosamente alla fusione con il
prototipo genovese. Rosario Romeo* (II, pag. 352) osserva che i due s'intesero
subito. Al colto aristocratico i mercanti piacevano, e a ancor più gli
speculatori. Egli stesso lo era stato. Il disegno politico che concepiva adesso,
da ministro, era vasto. Bombrini lo capì. Capì anche che non poteva non
secondarlo, sebbene il rischio non fosse di poco conto: la guerra all'Austria.
La Francia e l'Inghilterra, le due grandi potenze navali, che esercitavano una
pesante egemonia in tutto il mondo affarizzato, non accettavano che l'Italia
rimanesse quella che la Restaurazione aveva stabilito. E neppure i lombardi, i
liguri, gli emiliani, lo accettavano Tuttavia Bombrini non fu un patriota, meno
che mai il patriota che gli storici ci raccontano, ben sapendo di raccontare
fandonie. In appresso, morto Cavour, l'Italia una e indivisibile precipita in
un'indicibile confusione, a causa di un'eredità politica ambigua e dannosa,
fatta di ambizioni campate in aria e di concrete ingordigie municipali. In tale
clima, il vero volto del banchiere genovese si mostra senza orpelli. E' il volto
di un ladro, di un profittatore del regime inaugurato dallo stesso Cavour.
Vedremo in appresso in quali occasioni e con quali atti ed espedienti ricatta i
governi e il parlamento. Che questo lupo fosse prima una pecora, è ben difficile
credere. Quel che si può dire è che la storiografia italiana in nessun caso è
altrettanto falsa, quanto a proposito di tale fosco personaggio.
La nuova società prese il nome di Banca
Nazionale degli Stati Sardi, con una sede a Genova e un'altra a Torino, la quale
fu alquanto attiva, in quanto, tra il governo e la nuova banca si realizzò una
forte contiguità, quasi una confusione. La Banca divenne il braccio finanziario
di Cavour, oltre che l'unica banca autorizzata all'emissione. Nacque "una
fraternità, non sempre opportuna e nitida, fra il Tesoro e la banca, la prima
pagina nella dolorosa ampia storia di anormalità nel nostro regime monetario"
(Bachi, pag. 56. Grassetto del redattore).
In verità, la commistione non fu voluta da
Bombrini, ma da Cavour. Il contesto è oltremodo chiaro. Raffaele De Ferrari
avvia la banca per rianimare i commerci marittimi della sua amata città,
prospettandosi anche dei buoni affari personali; un doppio risultato che
s'inquadra perfettamente nella logica dei meccanismi capitalistici. Avviata la
Banca di Genova, anche Torino vuole una banca. Ma tolto Cavour, i torinesi non
sono ancora mentalmente attrezzati per gestire una banca d'emissione. Cavour
capisce che bisogna agganciasi ai genovesi. Mentre si tratta la fusione tra una
realtà già attiva e una ancora da calare in terra, scoppia la prima guerra
cosiddetta d'indipendenza. I ministri di Carlo Alberto perdono la testa e non si
rendono conto di possedere le risorse necessarie per portare avanti le
operazioni militari, cosicché, con il volto burbero del padrone armato di
sciabola, vanno ad accattare venti milioni presso i sudditi genovesi. Si può
facilmente immaginare la scena: "Tu, Bombrini, non ci rimetterai niente di tasca
tua, saranno i genovesi a pagare, dando oro e argento in cambio di carta".
Contro i cantastorie dell'Italia unita, un
punto va ribadito: il governo di Torino appioppa ai genovesi, e non ad altri, un
donativo d'oro monetato. Genova vorrebbe resistere. Cavour, non ancora ministro,
ma già leader sabaudo della corrente riformatrice, incontra Bombrini, gli
impartisce una convincente lezione di storia economica e bancaria, e se ne fa un
alleato. La Banca di Genova si adatta a sbarcare a Torino, ma lo fa solo dopo
che i magnati taurini le rifondono la metà dei milioni prestati allo Stato.
Qualche tempo dopo Cavour diventa ministro, e nel 1852 presidente del consiglio
dei ministri.
Come è noto, con Cavour il progetto di mettere
il Piemonte alla guida del movimento risorgimentale, che era di Carlo Alberto e
che Vittorio Emanuele ereditava, subisce un'evoluzione. Sul re non si discute,
tanto più che ha dietro di sé un esercito e che si è impegnato a farlo
combattere, ma il fine vero del risorgimento, che emerge chiaramente con la
conquista d'Italia, non è l'espansionismo sabaudo. E' l'emancipazione della
borghesia toscopadana degli affari, che il predominio austriaco tagliava fuori
dal moto borghese promosso dall'Inghilterra e dalla Francia. E' il governo del
paese, attraverso la formula costituzionale e parlamentare . Cosicché per il
leader della borghesia speculatrice nazionale, l'indipendenza nazionale, il
governo dello Stato e degli affari del padronato emergente s'intrecciano così
indissolubilmente che l'unità nazionale si trasformerà in un autentico disastro
per le classi popolari, comprese quelle padane.
Restringendo il discorso ai problemi monetari e
del credito, persino per la storiografia unitaria è incontroverso che Cavour usa
la banca d'emissione per risucchiare oro dalla circolazione, sebbene non avesse
reso esplicito il progetto al parlamento da cui traeva la sua forza politica.
"Si trattava…di rastrellare il risparmio, di convogliarlo verso il pubblico
erario, facendo tuttavia in modo che il mercato non soffrisse del prelievo, ma
anzi se ne giovasse…"(Pautassi, pag. 335).
"Fra le misure atte a irrobustire la finanza e
l'economia piemontese Cavour includeva anche il rafforzamento della Banca
Nazionale. Il 24 maggio 1851 presentò infatti un disegno di legge che
autorizzava la Banca a raddoppiare il suo capitale da 8 a 16 milioni (cosa che
sarebbe servita a dare impulso all'emissione per altri 24 milioni, ndr), e che
conferiva ai suoi biglietti il corso legale (cioè un potere liberatorio nei
pagamenti, ndr), imponendole in pari tempo l'obbligo di istituire due succursali
a Nizza e a Vercelli e di assumere le funzioni di cassiere dello Stato" (Romeo*
II, pag. 505).
In pratica il compito della Nazionale era
quello d'incassare numerario dai debitori dello Stato e di pagare con biglietti
i creditori. Cavour non ottenne il richiesto corso legale e incontrò una fiera
resistenza da parte della sua stessa maggioranza anche sulle altre proposte. La
partigianeria di Rosario Romeo mi alleggerisce il lavoro, liberandomi dall'onere
di ulteriori argomentazioni. Per Cavour "il corso legale era solo una
concessione necessaria per indurre la Banca all'aumento del capitale (che poi
portò non a 16 ma a 32 milioni, ndr) e per mettere in tal modo mezzi più estesi
al servizio del commercio, e, in caso di necessità, a disposizione dello Stato
[…] Si trattava insomma di una misura volta a mobilitare il risparmio del paese
[…] Cavour era piuttosto dell'opinione che Peel (l'autore del Banking Act del
1844, ndr) avesse ecceduto nel senso della 'centralizzazione bancaria',
conferendo alla banca centrale una eccessiva preminenza. Il problema della
regolazione dei flussi monetari restava ai suoi occhi di minore rilievo rispetto
a quelli fondamentali del sostegno al commercio e al Tesoro" (ibidem, p.
506).
Secondo gli storiografi, i senatori non
capirono il valore del progetto. Al contrario i resoconti parlamentari mostrano
che essi - ancora acerbi quanto all'immoralità sostanziale che presiedeva al
funzionamento del sistema capitalistico - avvertirono lo stridore dell'idea
cavouriana; la quale era poi questa: la Banca Nazionale acquistava lo status di
banca pubblica, senza però essere tenuta a sottostare al governo, al parlamento
e tanto meno a una coerente disciplina in materia monetaria.
Dopo i seri interventi di Carlo Alberto a
favore dell'agricoltura - e nonostante la guerra perduta - l'economia piemontese
andava piuttosto bene. Inoltre il liberismo cavouriano e la facilità del credito
rianimarono le esportazioni agricole. Gli esportatori e i contrabbandieri
piemontesi si spingevano in Lombardia per acquistarvi seta, che riesportavano in
Francia. Era quindi difficile per i membri del parlamento - anche per quelli di
loro che avevano affari all'estero - capire perché Cavour volesse disordinare
tutto, dare slancio alla spregiudicatezza e all'immoralità negli affari
attraverso un eccesso di spesa pubblica e la conseguente inflazione
monetaria.
Tra 1848 e il 1858 il Regno sabaudo registrò
una sensibile inflazione dei prezzi espressi in valori cartacei. Quando si parla
di Cavour e del Piemonte, la parola inflazione non si può pronunziare, come al
tempo del Duce non si poteva sputare per terra, nonostante che i fazzoletti
fossero scarsi in tasca alle persone. Neanche Romeo ha il coraggio di scrivere
la parola inflazione. Utilizzando però le cifre che egli fornisce sul rapporto
tra quantità e valore delle importazioni e delle esportazioni (Romeo* III, p.
372), si ricava che in un solo anno la svalutazione della lira piemontese toccò
una cifra compresa tra il 17 e il 18 per cento. Le reazioni furono allarmate. Il
15 maggio 1858, alla camera il deputato Roberti di Castelvero poté affermare che
lo Stato sabaudo aveva speso negli anni precedenti un miliardo e duecento
milioni; una cifra sonante, anzi da bancarotta per una formazione politica le
cui entrate annuali stavano sui 130 milioni. Lo stesso deputato denunziò il
fatto che la rendita era scesa alla metà, 53 lire, rispetto alle cento nominali
(Romeo, ivi) e l'aggio dell'argento e dell'oro sulle banconote toccava punte
intorno al 10 per cento. Il tutto avvalorato dal confronto tra i salari pagati
dalla fabbrica napoletana di Pietrarsa che, al cambio, stavano fra le lire
2,50/3,00, e i salari pagati dall'Ansaldo di Genova, che stavano intorno alle
lire 5,00. Ai dati dell'onorevole Roberti di Castelvero si può aggiungere che
l'inflazione era confermata dal fatto che intorno all'Ansaldo si registrava (e
si lamentava) una notevole disoccupazione, provocata dalla scarsità di commesse,
mentre le commesse statali e quelle estere - comprese quelle piemontesi -
consentivano alla fabbrica di Pietrarsa di non avere lavoro operaio di
riserva.
L'oro dei suoi concittadini e la volatilità
della banconota bombrinesca servivano a Cavour per mettere in evidenza la
leggerezza dello Stato liberale - la facilità di ottenere profitti; esperienza
da opporre alla pesantezza delle dinastie esistenti in Italia e del paternalismo
asburgico, che ficcavano il naso negli affari di tutti. Ma quello di Cavour era
solamente un bluf, perché la civiltà industriale è fatta di produzione e
produttori, e non di speculatori. E tuttavia un bluf riuscito per chi si mette
dall'angolo visuale degli speculatori toscopadani, come i loro cattedratici
corifei.
Come accennato l'opposizione parlamentare, che
era l'eco della generale opposizione dei piemontesi verso le disinvolte
operazioni finanziarie e monetarie di Cavour, fu vivace e persino vincente sul
punto del corso legale. Tuttavia gli oppositori non seppero offrire alternative
pratiche. Ciò permise al ministro di aggirare l'ostacolo. L'anno prima era stata
votata una legge che autorizzava l'emissione di 18 milioni di obbligazioni dello
Stato. Non si era provveduto, però, a metterle in vendita. Cavour escogitò un
passaggio che poté apparire rivolto a piccola cosa. Ottenne che non si
procedesse attraverso un'asta pubblica, come di regola, ma che i titoli fossero
affidati per la vendita alla Nazionale (Pautassi, pag. 335). Ottenne anche che
la Nazionale fosse autorizzata a finanziare lo Stato fino a quindici milioni e
che istituisse un fondo di due milioni per agevolare l'apertura di banche di
sconto. Ovviamente essa aprì un conto intestato al Tesoro e prese a effettuare i
pagamenti ordinati dal tesoro con le proprie banconote. Era la strada maestra
per immetterle in circolazione e per consentire a Bombrini di assorbire l'oro e
l'argento in circolazione.
Cavour usò strumenti antichi sia nel campo
diplomatico sia in quello militare. Nel campo economico e monetario adottò
invece strumenti moderni, ma non per una moderna politica economica. Il suo fu
un indirizzo antiquato e tale che avrebbe portato i Savoia alla bancarotta, se
la conquista d'Italia non li avesse improvvisamente arricchiti. Nel 1859 i
sudditi sabaudi si ritrovavano uno Stato piegato dai debiti , senza che le
industrie liguri e piemontesi fossero in condizione di varare un piroscafo o di
costruire più di due locomotive all'anno. Ma pare che la fortuna aiuti gli
audaci, e anche i giocatori che bluffano. Difatti, il conto, lo pagheranno le
regioni annesse.
3. Il corso forzoso, decretato da Carlo Alberto
nel 1848 in previsione della guerra con l'Austria, fu revocato nel settembre del
1851. Subito la circolazione cartacea, che era salita a 51 milioni, scese a 35
milioni, non discostandosi da questo livello fino al 1858, allorché fu
nuovamente imposto il corso forzoso. Tale staticità, più che stabilità, mostra
che il biglietto convertibile non ricevette da parte del pubblico quella
trionfale fiducia che la storiografia va scodellando. Certamente il biglietto
non concretizzava una comodità per la gente. I soli alleati della banca
d'emissione erano i grossi mercanti che, accettando un prestito in moneta
fiduciaria, risparmiavano sul tasso d'interesse, meno alto rispetto al prestito
di numerario. D'altra parte lo stesso taglio dei biglietti (lire 1.000, 500 e
250) chiarisce abbondantemente che la banconota della Nazionale sarda non era
destinata all'uso di gente che guadagnava poche lire al giorno.
Nonostante che i pagamenti del Tesoro
avvenissero attraverso la Banca Nazionale - con la conseguenza che i biglietti
venivano praticamente imposti a chi riceveva danaro dallo Stato - la pubblica
sfiducia induceva i prenditori di cartamoneta a non aspettare molto per andare
in banca a farsela cambiare. La cosa fu resa ancor più pesante dal fatto che in
Piemonte avevano corso sia l'oro che l'argento, in un rapporto legale correlato
al valore intrinseco di trent'anni prima, che era di circa 1 a 15 . Ciò espose
le finanze piemontesi a difficoltà notevoli. Accadde, infatti, che nel corso
degli anni cinquanta arrivò in Europa l'oro delle nuove miniere canadesi e
australiane. Il valore commerciale dell'oro in termini d'argento si abbassò,
cosicché chi prendeva monete d'argento al prezzo ufficiale guadagnava la
differenza con il prezzo commerciale del metallo (in linea di massima una lira
ogni quindici lire). Le monete d'argento, che erano di taglio minore,
cominciarono a essere trattenute e la loro circolazione si rarefece. Tuttavia il
governo non modificò il valore intrinseco delle monete. Quattro monete da 5 lire
in argento rimasero pari a una moneta da 20 lire in oro. Gli speculatori si
fecero avanti e presero a dare un qualche premio al fine di rastrellare
l'argento. Il quale veniva, poi, spedito in Francia, certamente dai privati più
ricchi e dagli speculatori, per acquistare oro. Portato in Piemonte, l'oro
otteneva altro argento. In tal modo, tonnellate d'argento partirono dal Piemonte
verso la Francia e quintali d'oro vennero acquistati in Francia per il cambio
con l'argento.
La particolare vicenda rende difficile una
equilibrata valutazione del gradimento che la banconota bombrinesca riceveva in
Liguria e in Piemonte. E' invece attestato che Bombrini continuò ad importare
oro contro la contraria opinione degli azionisti della sua Banca. Certo non ho
altra prova che la logica comune, ma nessuno mi toglie dalla testa che il
massimo speculatore del differenziale tra i coni d'oro e quelli d'argento fu
proprio Bombrini. Non hanno altra ragionevole spiegazione le enormi importazioni
d'oro da parte della Banca Nazionale, né il fatto risaputo e attestato che
nell'effettuare il baratto (così era detta comunemente la conversione della
carta in numerario) la Banca non dette mai moneta d'argento (Atti II, pag.
202).
Durante la crisi ciclica caduta a metà degli
Anni Cinquanta, il governo concesse a Bombrini di abbassare la riserva metallica
al 5 per 1, per i primi 30 milioni di emissioni, restando in vigore il rapporto
di 3 a 1 oltre i 50 milioni. Nonostante la più favorevole disciplina, la
Nazionale tenne più riserve del richiesto. Solo nel 1857-8 esse scesero sotto il
minimo preteso dalla legge. Per far fronte alla richiesta di cambio, la Banca
parve svenarsi. Nel corso di alcuni anni importò metalli in misura
notevolissima, del tutto maggiore della circolazione media dei biglietti.
Evidentemente a Bombrini conveniva mostrasi pronto a convertire i suoi biglietti
in ogni momento. D'altra parte, dare oro e incettare argento costituiva
un'operazione alquanto proficua. Ovviamente le importazioni d'oro non venivano
pagate con altro oro e neppure in biglietti, ma riscontando presso i banchieri
parigini le cambiali dei suoi clienti, cosa che comportava la perdita di una
parte del lucro e una grave soggezione alla finanza straniera. In mancanza di
quanto sopra, la Nazionale sarebbe stata costretta a cedere sé stessa, come
accade - nei romanzi - alle fanciulle in pericolo, per salvare la pelle.
Le tabelle statistiche in merito (che inviamo a
chi le richiede, ndr) sono gonfie di dati. Conosciamo le importazioni di
metallo, anno per anno. Siccome la circolazione si mantiene stazionaria, la
maggiore importazione che si registra a partire dal 1855 si spiega o con il
fatto che chi ha ricevuto in pagamento della carta si affretta allo sportello
della Banca per barattarla con numerario e molto probabilmente con il fatto che
Bombrini specula sull'argento, o ancora con entrambe le cose. Conosciamo la
somma tra le riserve tenute dalla Banca Nazionale a copertura delle emissioni e
le importazioni di metallo. Non occorre altro per evidenziare il completo
fallimento dell'impresa bancaria a livello tecnico. Essa deve tenere più oro di
quanto abbia biglietti in circolazione. In Inghilterra un'azienda del genere
l'avrebbero buttata nel Tamigi, senza pensarci su due volte. Accanto alle
precedenti, l'incongruenza ha ancora un'altra possibile spiegazione: Bombrini
gioca la sue carte puntando tutto su Cavour e sulla guerra che la Francia
inevitabilmente dovrà fare all'Austria, se Napoleone III vuole restare in
arcioni.
Conosciamo i dati forniti dallo stesso Bombrini
circa il vorticoso baratto delle banconote presso gli sportelli della banca
d'emissione. Da quel che accadde in Piemonte tra il 1851 e il 1858 il lettore
può farsi già un'idea di quel che sarebbe accaduto da lì a poco nell'Italia una,
in mano a gente come Cavour e Bombrini.
E sappiamo quanto durava una moneta in
circolazione. Basta un solo sguardo a questi ultimi dati per rendersi conto che
in Piemonte la cartamoneta proprio non va. La vita di una banconota perde 884
giorni di circolazione su 986 dal momento in cui è abolito il primo corso
forzoso al momento in cui è decretato un nuovo corso forzoso. Il tasso di
fiducia, che meglio sarebbe chiamare di sfiducia, fatto pari a 100 all'inizio
del periodo, cade a 10 alla fine del settennio. A stare ai fatti, la Banca
Nazionale è più vicina al fallimento che al successo. La salveranno soltanto gli
eventi politici e la copertura dei bersaglieri. Anche qui vorrei rilevare lo
sfacciato atteggiamento della storiografia, che non solo omette di evidenziare
l'evidenza, ma rivolta la frittella e addebita all'immaturità dei sudditi
sabaudi il fiasco di una singolare banca privata, la quale appioppa alla gente,
in cambio dell'oro, biglietti politicamente benedetti, ma che non hanno corso
legale e che non godono di fiducia alcuna.
Questa è la verità, e non le stupidaggini che
ha scritto in difesa di Bombrini il professor Di Nardi, nella più accorsata
trattazione sulle banche neo - italiane d'emissione
La confusa attività della Banca
Nazionale volta a inghiottire quella forma di risparmio nazionale, che
era la moneta metallica, andò sicuramente a beneficio della speculazione, come
si ricava da un documento posteriore: gli Atti dell'Inchiesta Parlamentare sul
corso forzoso (1867/68). Esso riguarda la ripartizione degli sconti effettuati
dalla Nazionale nell'anno 1860.
Quel dare danari a banche fasulle a Italia
fatta, giustifica ampiamente l'idea che, a maggior ragione, li elargiva senza
alcuna prudenza quando era il presidente del consiglio a incoraggiarlo. Ciò
chiarito, la domanda a cui ci toccherà rispondere è come le banche beneficiarie
impiegassero il ricavato dei risconti.
4. In ogni studio che si rispetti, Cavour viene
presentato come un appassionato e ardito sostenitore del libero commercio. La
sua fede liberista si era formata nell'ammirazione del padronato inglese, che
offriva, non senza un secondo fine, tale specchietto per le allodole
all'ammirazione e all'imitazione degli attardati padroni del resto d'Europa.
Nell'empireo della civiltà britannica, il liberismo commerciale è glorificato
dall'idea di una classe padronale dedita a riorganizzare su basi più attraenti
il suo dominio sulle popolazioni nazionali e su quella mondiale. L'idea aveva
come fondamento pratico un impero governato con rara ferocia e una tale
ingordigia da far impallidire il ricordo del propretore Verre. Siccome i padroni
credono d'essere gli eletti della natura o della volontà divina, o di tutti e
due, il nostro Benzo, asceso a Benso e anche a Conte, dette credito a
all'albionico suggerimento e, divenuto ministro, riuscì a convogliare intorno a
sé il consenso proprietario per fare il disastro chiamato Italia. Fatta
l'Italia, il liberismo venne imposto agli altri italiani per diritto di
conquista. Benché imposto alla nazione tutta, restò, tuttavia, una mera
proclamazione di principio proprio per quelle industrie, come la compagnia di
navigazione Transatlantica, che pur beccandosi più di un milione di aiuti
governativi l'anno non riuscì a sottrarsi al fallimento (Roncagli, pag. 7), o
come l'Ansaldo, allattata prima dalla Banca Nazionale e in appresso e senza
soluzione di continuità dalla Banca d'Italia vita natural durante. Il sistema
degli aiuti sottobanco fece i suoi primi passi sotto il grande ministro. Dopo la
sua morte si estese a tutto l'area toscopadana, con la copertura attiva e
fattiva della Banca Nazionale del Regno e delle banche sue caudatarie, e in
appresso sotto le ali della Banca cosiddetta d'Italia.
Per quanto un liberismo protezionista possa
apparire una contraddizione in termini, una cosa teoricamente ridicola, Cavour
riuscì a realizzarlo come codicillo dell'espansionismo sabaudo e poi ad imporlo
come reale discriminazione all'interno della nazione.
Mai un sistema economico nazionale ha potuto
percorrere la strada dell'industrializzazione senza sottoporsi a un periodo
d'avviamento, durante il quale i costi del rodaggio sono scaricati sui
consumatori nazionali. Di regola ciò avviene attraverso l'adozione di tariffe
protettive che colpiscono le merci estere in entrata. Era quanto chiedeva,
appellandosi al governo di Carlo Alberto, l'industriale Taylor, che aveva
fondato a Genova, con i soldi dello Stato, la futura Ansaldo: "Noi siamo lontani
dal sollecitare il Regio Governo ad accordarci permanentemente una siffatta
protezione. La domandiamo solo per i primi anni dello Stabilimento, perché siamo
persuasi che senza di essa non sarà possibile che si sviluppi in questi Regi
Stati il ramo dell'industria che proponiamo di introdurre considerandolo ormai
indispensabile" (Gazzo, pag. 77). Creare un'industria significa scontare il
rodaggio. Valerio Castronuovo (cit. pag. 190) riporta le parole di un
imprenditore tessile, risalenti al 1830. "Il principio dello stabilimento di una
manifattura in un paese, ove non esistette mai, è stato difficile…".
L'alternativa al protezionismo è il fallimento delle nuove aziende.
Esiste, tuttavia, una scorciatoia, un modo per
aggirare la difficoltà. Esso è rappresentato dal sostegno statale all'industria
nascente. Cavour, si afferma, temperò il suo liberismo; in effetti adottò un
doppio indirizzo, liberista e insieme protezionista. Che fu poi il credo di
quella borghesia padana degli intrallazzi che governò l'Italia in prima persona
o la fece governare dai suoi servili missi dominici. Si tratta, in buona
sostanza, di un cobdenismo per i fessi napoletani e di un colbertismo con i
soldi dello Stato per gli straitaliani. Sotto Cavour, il governo sabaudo divenne
un potere "assai prodigo, assai costoso. La prodigalità sembrò la via migliore
per contribuire al progresso industriale e commerciale del paese [sabaudo], per
dare impulso allo spirito di associazione ed accrescere la produzione della
ricchezza e il generale benessere (Giuseppe Prato, Annali di economia, citati da
Gazzo, pag. 161. Grssetto del redattore).
E ciò va anche bene, anzi benissimo, ma diventa
una rapina quando - sul modello inglese - i costi vengono addossati agli altri,
mentre l'industria di casa propria viene sfacciatamente assistita e finanziata
sottobanco.
Il protezionismo dall'interno nasce tra il 1851
e il 1853. L'esempio più vistoso si ebbe con l'assegnazione - per decisione di
Cavour - dell'Ansaldo a Bombrini, in modo che la mandasse avanti con i soldi
della Banca Nazionale. Un caso clamoroso di malaffare, in quanto Bombrini si
mise in tasca il lucro e girò le passività al popolo italiano. Ovviamente
l'operazione si allargò ad altre aziende, sempre con la tecnica delle scatole
cinesi bancarie, che nascondevano la protezione. La creazione industriale veniva
pagata da una banca di sconto, le perdite che questa accettava di subire
venivano scontate dalla Nazionale; e le perdite della Nazionale dal popolo dei
contribuenti.
Tuttavia - a mio avviso - il protezionismo
dall'interno non rappresenta un errore pratico e politico del liberista Cavour.
Con questo sistema il costo dello sviluppo industriale non è caricato sulle
merci al momento del consumo, ma sulla fiscalità generale. Il costo
dell'avviamento industriale si distribuisce sulla collettività. L'errore
consistette invece nella sua convulsa applicazione, nello spreco di risorse per
creare un clima industriale, anziché direttamente le industrie, come avevano
fatto e facevano i Borbone di Napoli. Ma, a Cavour, serviva più la pubblicità
che la produzione. La mela che voleva cogliere non era di qua del Ticino, ma di
là: la Lombardia, che il regime napoleonico aveva rianimato e modernizzato, le
basse terre bagnate dal Po, il Veneto e lo sbocco in Adriatico, i Ducati
emiliani, la Toscana. Se non avesse mirato alla pubblicità e fosse stato più
serio, sicuramente avrebbe impiegato molti più anni. Però, invece che indebitare
i sudditi sabaudi importando binari e materiale rotabile dall'estero, si sarebbe
impegnato a far progredire la siderurgia e la meccanica ligure-piemontese, come
da più parti gli veniva suggerito. Forse avrebbe fatto gli stessi debiti, ma
sicuramente avrebbe messo le basi per attività serie e durature.
Personalmente giudico condannabile il fuoco
liberista con cui Cavour portò il Regno subalpino sull'orlo del fallimento. E
sono convinto sulla base della coeva esperienza tedesca, che non fosse, il
modello liberista, il solo madrigale adatto ad attrarre verso il Piemonte le
simpatie del padronato italiano. Ma non reputo condannabile la protezione
all'industria, aperta o dissimulata che sia. L'industrialismo protetto
dall'interno assumerà il carattere di una sopraffazione, di una malindrineria,
solo quando - fatta l'Italia - le industrie liguri, piemontesi e lombarde
saranno avvantaggiate dalla benevolenza del governo e della banca centrale, e
nello stesso momento le industrie siciliane e napoletane si ritroveranno
condannate a rispettare i sacri principi della libertà degli scambi.
Un governo, come quello piemontese e come, poi,
quello italiano, che si metta alla guida della rivoluzione industriale, deve
necessariamente spianare i passi alla formazione delle singole industrie,
specialmente all'industria di base. Uno dei modi normali per farlo sta nel
sovvenzionarle, direttamente o indirettamente. In effetti l'industria moderna
non nasce gratis. La società che se ne avvantaggia deve pagare dei costi, spesso
molto alti. E Cavour accettò di pagarli, anche se poi la montagna non partorì
neppure il classico topolino. Alla prudentissima politica di modernizzazione dei
monarchi italiani, preoccupati che novità troppo rapide potessero scuotere le
basi dei loro troni, egli contrappose un'azione rivolta a far uscire dal bozzolo
del ruralismo il padronato piemontese. Ma non ce la fece. Costruì soltanto degli
abili speculatori e profittatori di regime. Mentre a Napoli i Borbone puntavano
sulla cosa - sulla fabbrica, sull'impianto moderno - investendoci parecchio,
Cavour, seguendo una sua inconsistente fantasia, puntò sugli uomini, mirò a
covare i capitalisti, a fabbricare i fabbricanti.
L'inevitabile contraddizione tra libera
iniziativa e intervento statale, in cui Cavour cadde, fu subito notata e
teorizzata. "La prima causa [di ciò] sta nel sistema in cui ci siamo lanciati,
mossi dal desiderio di favorire le imprese di grandi lavori […] lo Stato ha
detto che certe imprese non possono mancare di rendere un frutto non ordinario;
lo ha detto, proteggendole a differenza, dividendone la spesa e i rischi,
accordando dei privilegi, garantendo un discreto interesse. L'attività naturale
dei capitali se ne sentì stimolata. I valori oziosi si affrettarono a lanciarsi
nella nuova direzione. Altri, che non sarebbero stati oziosi, abbandonarono la
linea su cui s'eran posti. Una porzione lasciò la terra o l'opificio per andare
alla Borsa; un'altra lasciò le sete e si diede allo sconto; una terza venne
dall'estero; una quarta fu creata sulla parola…(Francesco Ferrara, citato da
Romeo*II, pag. 519). L'economista siciliano, adottato dal Piemonte sabaudo, era
troppo autorevole per aver peli sulla lingua, e parlò esplicitamente di
protezionismo dall'interno. E però Ferrara non capiva che non si trattava di un
problema di euristica economica. Un capitalismo morale e gratuito esiste solo
nei libri che trascurano la storia, le vicende effettive.
La capitale della nuova morale fu Genova. Anzi,
bisogna dire che molta parte della buona riuscita della doppiezza cavouriana si
deve al fatto che Genova, la città che meno si era ruralizzata nel corso della
decadenza italiana, si trovasse inclusa nel perimetro statale del Regno sabaudo.
Con il suo spirito di speculazione e in conseguenza del fatto che Cavour voleva
aiutarla a inserirsi nel contesto sabaudo, Genova divenne l'epicentro del
singolare rinnovamento italiano, che, prima d'approdare all'ufficialità del
protezionismo parassitario e successivamente alle elargizioni democristiane,
conobbe una fase trentennale di disinvolto saccheggio dell'erario, di piratesca
gestione della banca, di fallimentare dissipazione del patrimonio pubblico,
insomma quello che ai tempi nostri si chiama tangentismo o intrallazzo, però
elevato a una potenza talmente alta da portare la nazione allo stremo, senza
peraltro fabbricare i fabbricanti, cosa per la quale bisognerà aspettare le
rimesse degli emigrati, trent'anni dopo.
5. A partire dalla sua ascesa a ministro,
Cavour usò la banca bombrinesca per inaugurare un clima speculativo e
inflazionistico. La Banca Nazionale prescelse un limitato campo di attività,
mettendosi al servizio del tesoro e di pochi grossi operatori economici, in
particolare le cosiddette casse di sconto, delle quali (il dato non è
controverso) essa stessa e il grande ministro promossero la nascita al fine di
far crescere una classe di finanzieri (speculatori del credito e della moneta).
"Si trattava di anonime, dotate di capitali inizialmente limitati; le quali,
talvolta per espresse disposizioni statutarie, intendevano dilatare le proprie
operazioni riscontando il portafoglio" (Pautassi, pag. 356), ovviamente presso
la Nazionale. "Programmi così fatti rientravano in pieno nel piano delineato da
Cavour […] Di talune di esse è scomparsa ogni traccia e quindi nulla si sa. Di
altre è rimasto soltanto un ricordo vago" (ibidem). Siamo alla speculazione
stigmatizzata da Francesco Ferrara. La punta di diamante del nuovo corso fu la
Cassa del Commercio e dell'industria, nata tra il 1852 e 1853. A fondarla furono
quattro gruppi societari, due torinesi (la ditta bancaria Mastregat & C. e
la ditta bancaria Fratelli Bolmida & C.) e due genovesi (la ditta di
commercio Giovanni Rocca & Cugini fu Pietro Antonio e il banchiere Luigi
Ricci). I quattro gruppi sottoscrissero l'intero capitale di 8 milioni,
suddiviso in 16 mila azioni da lire 500 cadauna. "Del valore di siffatte azioni
doveva essere versata soltanto una metà e siffatta metà era per di più ripartita
in rate" (ibidem, pag. 358). In sostanza, di proprio ci mettevano poco più
dell'Inno di Mameli. Da principio la Cassa fece buoni affari. Con un capitale
versato che, nella migliore delle ipotesi arrivava a quattro milioni, nell'anno
1854 effettuò sconti e anticipazioni per un totale di 87 milioni. "In
portafoglio, tuttavia, essa aveva effetti per sole lire 6.237.503" (ibidem) e 79
centesimi. Tra capitale versato e cambiali, il tutto ammontava a dieci milioni,
di cui ben sei di crediti, come dire di denari futuri e incerti. Miracoli di
Cavour! "Una ventata di sconti e anticipazioni così fatta poteva tuttavia essere
imprudente […] talune posizioni speculative non potevano essere mantenute. [La
banca, sicuramente,] doveva trovarsi a lottare con un certo immobilizzo, tanto
più che diversi effetti scontati erano sicuramente di comodo" (ibidem).
Un'impresa di questo tipo deve portare i libri sociali in tribunale: i creditori
si dividono quel poco che c'è, mentre gli amministratori varcano i cancelli di
un carcere. Ma questi signori erano dei patrioti, dei precursori dell'Italia una
e indivisibile. D'altra parte il creditore era uno solo, Bombrini, il quale
giocava per conto del grande ministro la partita di fabbricare i fabbricanti.
Cosicché, invece di finire in galera, gli amministratori decisero un aumento di
capitale, e non lo fecero versando i decimi ancora dovuti, ma incettando nuovi
soci per altri otto milioni. "Forse la piega che le cose stavano prendendo non
era sufficientemente tranquillante per i vecchi soci..." . A loro volta, i nuovi
soci erano chiamati a versare solo la metà delle lire cinquecento che
costituivano il valore di ciascuna delle sedicimila nuove azioni. Il governo non
vide irregolarità in tale scorretta procedura e ratificò la delibera (ibidem,
pag. 359).
Evidentemente il duo Cavour-Bombrini si
allargava fino a diventare…Cosa? Qui il termine da impiegare dipende da un
giudizio politico. Presso gli storici sabaudi antichi e moderni, di destra, di
sinistra e di ultrasinistra, l'espressione consueta è la consorteria piemontese.
Ma in termini di diritto positivo, per qualunque ordinamento giuridico europeo
anche in quel tempo, l'espressione corretta sarebbe stata un'associazione a
delinquere.
Quanto alla Cassa di Commercio e Industria,
essa non solo decise, nel modo più scorretto, un aumento di capitale (senza una
preventiva riduzione del capitale perduto), ma provvide anche a rifare il
proprio statuto, nel senso di poter assumere partecipazioni industriali. Nel
1855, gli sconti raggiunsero i 65 milioni, ma la Cassa aveva potuto costituire
un fondo di riserva (e garanzia, evidentemente) di ben 170.000 lire. Una beffa!
In realtà niente era cambiato dietro le sacre mura della banca. "Quegli
immobilizzi che sembravano affiorare sin dall'inizio della gestione si erano
consolidati. Così la Cassa di Commercio, durante la crisi che s'aprì nel '57 e
si concluse nel '58, come si vedrà, dovette attraversare un periodo della sua
vita tutt'altro che facile" (ibidem, pag. 360). Non siamo di fronte all'unico
esempio di allegra finanza. A partire dal 1853 la società piemontese prese a
manifestare la sua ferma avversione alla politica cavouriana. La popolazione si
sollevò contro il taglieggiamento che l'inflazione operava sui redditi minori.
"Il 1853 fu un anno denso di sconvolgimenti e di crisi: incominciò ad infierire
il colera, i parassiti distruggevano le viti, il raccolto fu cattivo, scoppiò
una crisi commerciale. Conseguenza generale fu l'acutizzarsi della miseria. La
Valle d'Aosta fu teatro di gravi disordini, provocati dalle imposte troppo
onerose e dagli intrighi del clero (dicembre 1853)", ma già due mesi prima, "la
folla, raccoltasi a Torino per dimostrare sotto la casa di Cavour, mise in
pericolo la stessa vita dello statista" (King, pag. 9)" . I carabinieri
spararono. L'esercito s'accampò alle porte della capitale. Ma non tutto era
addebitabile alle calamità. "L'eccesso di speculazione, favorito da un ampio
ricorso al credito da parte del governo, determinò alla fine di settembre una
forte caduta dei titoli di Stato alla Borsa di Torino…" (Candeloro IV, pag.
134). La minaccia delle armi, i morti, la paura, alla fine calmarono il popolo e
anche i proprietari, che stavano a guardare con occhiuta preoccupazione. Qualche
anno dopo, nel 1857, arrivarono le ripercussioni di una crisi apertasi negli
Stati Uniti, il cui sistema bancario era ancor più allegro di quello cavouriano.
Nonostante la generosa edulcorazione degli storici, sta di fatto che alla crisi
esterna faceva da sfondo un moto di rigetto verso la politica inflazionistica
adottata dall'associazione a delinquere che governa il paese. La crisi investì
persino i profittatori del nuovo regime, i quali avevano concepito rosee
speranze. Come le altre banche, la Cassa aveva fatto vaste anticipazione,
accettando in garanzia azioni e obbligazioni al loro prezzo nominale, il cui
valore di mercato, però, calò fino a dimezzarsi e oltre.
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