lunedì 15 ottobre 2012

demanio e usi civici

A distanza di 150 anni dall'unità d'Italia (o forse proprio per commemorarla) si torna a parlare di demanio e concessioni di proprietà.
Nell'incapacità di risolvere i problemi del debito pubblico (o scelta voluta), e la presenza di una massiccia evasione fiscale, l'attuale classe dirigente politica fellona, svende i beni di tutti, con la scusa del "federalismo demaniale".
Questo ne permetterà l'accaparramento a coloro che hanno disponibilità di capitali, (magari gli stessi che hanno fatto rientrare i capitali con lo scudo fiscale ultimo - col precedente si sono comprate le case e gli appartamenti, sempre dello Stato). I beni demaniali diventano un peso quando non si è capaci a gestirli, se in più ci mettiamo, su questi beni, l'interesse di qualcuno ad un uso più "privatistico" in gioco è fatto.


Un po' di storia:

Il Demanio e gli Usi Civici

Gli Usi Civici, codificati da apposite leggi, consentivano a chiunque di usufruire delle terre demaniali per seminare, raccogliere, pascolare gli armenti, per far legna. "L'errore di molti scrittori di storia ed economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente dal feudalesimo, in realtà il latifondo è storicamente anteriore di millenni, tant'è che Plinio il Vecchio già parla di latifundium". Fino all'introduzione dei moderni mezzi meccanici è stato il clima delle regioni meridionali, mite d'inverno ed asciutto d'estate, che ha favorito la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col pascolo; mentre nelle regioni settentrionali l'inverno rigido e l'estate calda e piovosa erano l'ideale per la coltura intensiva in piccoli lotti. Il diritto napoletano chiamò "demanio" la terra libera, non infeudata, nominalmente proprietà del Re in quanto sovrano; terreni feudali, invece, erano quelli dati in proprietà dai sovrani ai feudatari (i cosiddetti baroni) in base ai titoli di infeudazione. Nelle terre infeudate i proprietari potevano esigere tutta una serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi) che vessavano, essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori che vi abitavano, riducendoli spesso ad una sorta di servi della gleba. Bisogna dire che la estensione dei terreni demaniali era stata spesso "ristretta" dai baroni con le cosiddette "usurpazioni", effetto delle falsificazioni dei titoli di infeudazione. Le appropriazioni indebite (spesse vecchie di secoli) erano state sempre contrastate, con alterne fortune, dai re susseguitisi alla guida dello stato meridionale: si cercava di far tornare demaniali, e quindi destinate agli usi civici, terre che erano state "trasformate" in feudali. La grande rivoluzione che in Francia sradicò il feudalesimo, non ebbe gli stessi effetti che raggiunse nel mezzodì di Italia, perché nel reame di Napoli la feudalità, anche nel periodo dei suoi maggiori eccessi era rimasta, per i motivi suddetti, ben lungi dal raggiungere l'esempio negativo dei signorotti francesi. Durante la decennale dominazione transalpina con la legge del 2 agosto 1806 fu abolita la feudalità, l'omaggio ai princìpi della rivoluzione ebbe, però, forme ed effetti alquanto diversi che in Francia; per l'articolo 15 di questa legge, infatti, le terre degli ex feudi restavano ai possessori, le popolazioni conservavano gli usi civici e tutti i diritti che possedevano su quelli fino a quando con altra legge non ne fosse ordinata e regolata la divisione. Passata la parentesi francese, le regie (commissioni borboniche), tramite "le ricognizioni in loco", recuperarono migliaia di ettari che risultavano posseduti abusivamente dai baroni facendoli rientrare nel demanio regio, che a sua volta li affidava ai comuni cui erano stati sottratti. Le competenze su queste terre erano affidate ai sindaci, ai prefetti e ai giudici locali, che però erano spesso amici (o succubi) dei baroni, e che invece di destinarle agli usi civici, le restituivano ai vecchi feudatari. Nonostante ciò, ci fu un complessivo progresso, che interessò più la parte continentale del Regno, mentre in Sicilia il latifondo rimase quasi intatto.

Ferdinando II insistette nel contrastare il "potere periferico" dei baroni ed il 20 settembre 1836 riconfermò le leggi sul Demanio e gli Usi Civici. Con l'arrivo dei Piemontesi la situazione dei contadini precipitò nell'abisso della disperazione: la conquista sabauda fu infatti apertamente favorita dai baroni che, divenuti opportunisticamente "liberali e unitaristi", dopo l'Unità effettivamente riuscirono a mantenere le loro usurpazioni. I piemontesi, in cambio dell'appoggio ricevuto all'invasione del Sud e alla caduta dei Borbone, misero in vendita (spesso a basso costo) le proprietà demaniali e, favorendo l'acquisizione di terre, boschi, pascoli e frutteti da parte dei ricchi borghesi liberali, incrementarono il latifondo gettando migliaia di famiglie "in mezzo alla strada", senza più alcun sostentamento perché private dei secolari "Usi Civici". Ai contadini fu di fatto impedito di opporsi alle usurpazioni e di rivendicare i demani, sia per la connivenza delle amministrazioni comunali e dei prefetti, sia per la lungaggine degli artificiosi procedimenti necessari per le rivendicazioni legali. A peggiorare la situazione, fu la confisca dei beni demaniali della Chiesa, un terzo delle terre del Sud, che era stata il "padrone migliore" dei contadini, perché di regola si accontentava del giusto e il colono poteva anche riuscire a mettere da parte dei risparmi decenti (cosa che invece raramente accadeva nel rapporto con i baroni).
Da Giuseppe RESSA - Alfonso GRASSO - Il Sud e l'Unità d'Italia - dalla storiografia ufficiale alla realtà dei fatti.
http://www.verdimanduria.it/federalismodemaniale/index.htm

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