A distanza di 150 anni dall'unità d'Italia (o forse proprio per commemorarla) si
torna a parlare di demanio e concessioni di proprietà.
Nell'incapacità di
risolvere i problemi del debito pubblico (o scelta voluta), e la presenza di una
massiccia evasione fiscale, l'attuale classe dirigente politica fellona, svende
i beni di tutti, con la scusa del "federalismo demaniale".
Questo ne
permetterà l'accaparramento a coloro che hanno disponibilità di capitali,
(magari gli stessi che hanno fatto rientrare i capitali con lo scudo fiscale
ultimo - col precedente si sono comprate le case e gli appartamenti, sempre
dello Stato). I beni demaniali diventano un peso quando non si è capaci a
gestirli, se in più ci mettiamo, su questi beni, l'interesse di qualcuno ad un
uso più "privatistico" in gioco è fatto.
Un po' di storia:
Il Demanio e gli
Usi Civici
Gli Usi Civici, codificati da apposite leggi, consentivano
a chiunque di usufruire delle terre demaniali per seminare, raccogliere,
pascolare gli armenti, per far legna. "L'errore di molti scrittori di storia ed
economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente dal feudalesimo, in
realtà il latifondo è storicamente anteriore di millenni, tant'è che Plinio il
Vecchio già parla di latifundium". Fino all'introduzione dei moderni mezzi
meccanici è stato il clima delle regioni meridionali, mite d'inverno ed asciutto
d'estate, che ha favorito la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col
pascolo; mentre nelle regioni settentrionali l'inverno rigido e l'estate calda e
piovosa erano l'ideale per la coltura intensiva in piccoli lotti. Il diritto
napoletano chiamò "demanio" la terra libera, non infeudata, nominalmente
proprietà del Re in quanto sovrano; terreni feudali, invece, erano quelli dati
in proprietà dai sovrani ai feudatari (i cosiddetti baroni) in base ai titoli di
infeudazione. Nelle terre infeudate i proprietari potevano esigere tutta una
serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi) che vessavano,
essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori che vi abitavano,
riducendoli spesso ad una sorta di servi della gleba. Bisogna dire che la
estensione dei terreni demaniali era stata spesso "ristretta" dai baroni con le
cosiddette "usurpazioni", effetto delle falsificazioni dei titoli di
infeudazione. Le appropriazioni indebite (spesse vecchie di secoli) erano state
sempre contrastate, con alterne fortune, dai re susseguitisi alla guida dello
stato meridionale: si cercava di far tornare demaniali, e quindi destinate agli
usi civici, terre che erano state "trasformate" in feudali. La grande
rivoluzione che in Francia sradicò il feudalesimo, non ebbe gli stessi effetti
che raggiunse nel mezzodì di Italia, perché nel reame di Napoli la feudalità,
anche nel periodo dei suoi maggiori eccessi era rimasta, per i motivi suddetti,
ben lungi dal raggiungere l'esempio negativo dei signorotti francesi. Durante la
decennale dominazione transalpina con la legge del 2 agosto 1806 fu abolita la
feudalità, l'omaggio ai princìpi della rivoluzione ebbe, però, forme ed effetti
alquanto diversi che in Francia; per l'articolo 15 di questa legge, infatti, le
terre degli ex feudi restavano ai possessori, le popolazioni conservavano gli
usi civici e tutti i diritti che possedevano su quelli fino a quando con altra
legge non ne fosse ordinata e regolata la divisione. Passata la parentesi
francese, le regie (commissioni borboniche), tramite "le ricognizioni in loco",
recuperarono migliaia di ettari che risultavano posseduti abusivamente dai
baroni facendoli rientrare nel demanio regio, che a sua volta li affidava ai
comuni cui erano stati sottratti. Le competenze su queste terre erano affidate
ai sindaci, ai prefetti e ai giudici locali, che però erano spesso amici (o
succubi) dei baroni, e che invece di destinarle agli usi civici, le restituivano
ai vecchi feudatari. Nonostante ciò, ci fu un complessivo progresso, che
interessò più la parte continentale del Regno, mentre in Sicilia il latifondo
rimase quasi intatto.
Ferdinando II insistette nel contrastare il "potere
periferico" dei baroni ed il 20 settembre 1836 riconfermò le leggi sul Demanio e
gli Usi Civici. Con l'arrivo dei Piemontesi la situazione dei contadini
precipitò nell'abisso della disperazione: la conquista sabauda fu infatti
apertamente favorita dai baroni che, divenuti opportunisticamente "liberali e
unitaristi", dopo l'Unità effettivamente riuscirono a mantenere le loro
usurpazioni. I piemontesi, in cambio dell'appoggio ricevuto all'invasione del
Sud e alla caduta dei Borbone, misero in vendita (spesso a basso costo) le
proprietà demaniali e, favorendo l'acquisizione di terre, boschi, pascoli e
frutteti da parte dei ricchi borghesi liberali, incrementarono il latifondo
gettando migliaia di famiglie "in mezzo alla strada", senza più alcun
sostentamento perché private dei secolari "Usi Civici". Ai contadini fu di fatto
impedito di opporsi alle usurpazioni e di rivendicare i demani, sia per la
connivenza delle amministrazioni comunali e dei prefetti, sia per la lungaggine
degli artificiosi procedimenti necessari per le rivendicazioni legali. A
peggiorare la situazione, fu la confisca dei beni demaniali della Chiesa, un
terzo delle terre del Sud, che era stata il "padrone migliore" dei contadini,
perché di regola si accontentava del giusto e il colono poteva anche riuscire a
mettere da parte dei risparmi decenti (cosa che invece raramente accadeva nel
rapporto con i baroni).
Da Giuseppe RESSA - Alfonso GRASSO - Il Sud e
l'Unità d'Italia - dalla storiografia ufficiale alla realtà dei fatti.
http://www.verdimanduria.it/federalismodemaniale/index.htm
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