Siderno, 30 Settembre 2007
La banca pubblica che gli ex Stati italiani tentarono, con molta fatica e pochissimi successi, di far nascere durante i decenni compresi tra la caduta di Napoleone e l’unità nazionale, fu una solida realtà nelle Due Sicilie sin dal 1815, data del rientro di Ferdinando I[1] a Napoli; una realtà che, poi, l’Italia una e indivisibile faticò non poco a soffocare. La precocità del Sud rispetto agli altri Stati italiani viene attribuita da Francesco Saverio Nitti a un uomo di genio, quale fu in effetti il ministro Luigi de’ Medici. Senza nulla togliere al grande uomo di Stato, che con misure di tipo colbertista operò nel senso di far transitare lo Stato duosiciliano dal parissitismo giacobin-nobiliare dei re francesi alla produzione moderna, bisogna ricordare, però, cinque cose.
Prima: il Regno delle Due Sicilie era uno Stato unitario da settecento anni.
Seconda: le Due Sicilie erano lo Stato più grande e popoloso della penisola, dando luogo a una vasta base impositiva.
Terza: la capitale contava parecchio più che tutto il regno, cosicché i Banchi napoletani raccoglievano un’enorme massa di danaro. Tuttavia questo danaro rimaneva egualmente in circolazione, in quanto la fede di credito circolava, con generale soddisfazione del pubblico, da una mano all’altra e veniva prontamente trasformata in numerario in periferia dai tesorieri e dagli esattori regi.
Quarta, l’apodissario, cioè colui che depositava il danaro allo sportello del Banco, diveniva, almeno in teoria, creditore dello Stato, cioè il Re, considerato il soggetto più ricco e solvibile del paese. Infatti la fede non attestava un deposito, ma un credito, da cui fede di credito. La differenza è giuridicamente rilevante. Infatti, nel contratto di deposito la perdita senza colpa del danaro esime il depositario dalla restituzione, mentre nel caso di credito sorge l’obbligazione di restituire il corrispondente in ogni caso.
Quinta: i Banchi napoletani erano delle istituzioni interclassiste e a diretto contatto con le masse, a favore delle quali praticavano il prestito su pegno a un modico interesse (il Banco della Pietà e quello di Santo Spirito del tutto gratis), ancorché non negandolo ai nobili, ai ricchi, e (con garanzie diverse dal pegno) ai mercanti, nonché al governo[2].
Abbiamo ricordato che la fine
della secolare pluralità dei Banchi si ebbe nel 1795, allorché
Ferdinando IV s’impossessò di 33 milioni di ducati
(circa 130 milioni delle successive lire-oro piemontesi) per prepararsi a
resistere agli eserciti della Repubblica Francese, che stavano valicando le
Alpi. Dopo il colpo, affinché potessero far più facilmente (o meno
difficilmente) fronte alle richieste di conversine delle fedi in numerario, il
ministro Giuseppe Zurlo li unificò. Ovviamente ciò non poté
bastare a far sì che i ducati si riproducessero. Infatti le fedi si svalutarono
e caddero a meno del 20 per cento del valore nominale. Nel 1803, un comitato
promosso dagli apodissari elaborò il progetto di un nuovo banco, che si voleva
rispondente alle esigenze crescenti di chi operava con il danaro. Durante la
dominazione francese, il Banco, nonostante l’unificazione, non si riprese.
Neanche i re rivoluzionari hanno il potere di resuscitare le vittime delle loro
ambizioni di dominio. Tuttavia va ascritto a merito del governo
Murat la fondazione del Banco delle Due
Sicilie, modellato su due Casse. Il modello fu rispettato dal governo
borbonico.
Con la restaurazione borbonica, il
Banco delle Due Sicilie, diversamente dai vecchi banchi che erano istituzioni
non statali, divenne un settore della pubblica amministrazione, passò cioè alle
dipendenze del governo regio. Era diretto da una sola persona, il Reggente, ed
era diviso in due settori (Casse) aventi funzioni diverse, almeno formalmente.
Entrambe le casse accettavano depositi in monete di argento e di rame. A fronte
del deposito rilasciavano una fede di credito o un altro dei titoli della
tradizione napoletana (cfr. Capitolo 4.6). Bisogna aggiungere che il Banco prese
a distinguere tra fedi in argento e fedi in rame. Le Casse convertivano in
moneta d’argento le fedi in argento e in rame le fedi in rame. La non
intercambiabilità tra argento e rame si spiega con il fatto che le monete
d’argento valevano (carato più, carato meno) quanto il metallo fino contenuto
nel singolo conio, mentre le monete di rame circolavano per un valore nominale
che era significativamente superiore al prezzo del rame[3]. La coniazione del rame era un privilegio dello Stato. Il
privato poteva acquistare monete di rame alla zecca, ovviamente al loro valore
nominale, ma non farle coniare. Il pagamento in argento di una fede in rame
avrebbe dato luogo a un regalo a favore del portatore del titolo e
(collettivamente) un danno per i possessori di monete d’argento.
Le fedi in oro furono istituite
nei decenni successivi. Nelle Due Sicilie le due unità monetarie (il ducato e lo
scudo, fra loro intercambiabili) erano in argento e così pure gran parte dei
coni circolanti.
Durante i decenni della
Restaurazione, e fino alla cosiddetta e maledetta unità, la Cassa di Corte fece
da sportello unico per gli incassi e i pagamenti dello Stato. Chi doveva pagare
un tributo, un servizio, un acquisto dallo Stato, lo doveva fare versando
l’importo al Banco, che accreditava l’incasso sul conto del Tesoro. Quando a
pagare era il Tesoro, il Banco riceveva l’ordine di sborsare la somma dovuta,
imputandola a debito del Tesoro. Il miracolo di un banco tanto ricco stava tutto
in questa regia disposizione! Il Banco effettuava gratis sia l’emissione di una
fede sia l’operazione del cambio, tuttavia usava la liquidità che ristagnava
nelle sue Casse nelle more tra un’operazione e l’altra. Si comportava, cioè,
come una banca di deposito e di sconto, oltre che come un istituto d’emissione.
Insomma, il ministro Medici applicò a Napoli la teoria di Law, e lo fece con
prudenza e in funzione della pubblica utilità. Il Banco non faceva altro che
pagare o incassare, dopo aver accertato che chi si presentava alle sue casse era
la persona legittimata a farlo. Ciò, oltre che dare certezza alle transazioni,
permetteva una proficua valorizzazione del considerevole capitale immobilizzato
in moneta.
Le fedi di credito circolavano in
tutto il regno. Entrambe le Casse le convertivano a vista, anche se emesse
dall’altra Cassa, le tesorerie provinciali erano obbligate ad accettarle come
moneta contante ed erano autorizzate a cambiarle in numerario al
privato che lo richiedeva. Negli affari erano viste come una grande comodità. Da
tutte le province partivano istanze perché vi fosse aperta una succursale del
Banco. A queste richieste il Banco fu costantemente sordo, perché le operazioni
di deposito e di cambio prevedevano costose registrazioni. Infatti l’emissione
di una fede di credito dava luogo all’apertura di un conto intestato a un
cliente (madrefede). Gli originali tornati in pagamento venivano registrati e
archiviati. Ma archivi[4] si facevano per ogni cosa, per esempio le operazioni
giornaliere della Cassa. Il Banco teneva una quotidiana situazione di cassa,
quasi un bilancio giornaliero, e una folta corrispondenza con gli altri settori
della macchina ministeriale. Gli sportelli aperti a Napoli costavano tra le
quattrocento e le cinquecento mila lire-oro all’anno Il personale era numeroso
(più di 2000 impiegati) e non sempre ben pagato. Chi stava al vertice godeva
delle 13°, 14° e 15° mensilità (una a Pasqua, una Ferragosto e una Natale) e a
fine servizio aveva la pensione. Il trattamento economico degli impiegati di un
certo rango era elevato. Il principe di Carignano, che fu il Reggente sia con
Murat che con Ferdinando I, aveva uno stipendio di circa 15.000 lire-oro; più
della rendita di un grosso proprietario o del profitto di un capitalista. I
maggiori dirigenti avevano stipendi che stavano intorno alle 5.000 lire-oro. I
circa 2000 dipendenti ottenevano paghe annue tra i 400 e i 1.000 ducati. Va da
sé che, per tali privilegi, il Banco fosse, persino dopo l’unità, uno dei luoghi
preferiti dal classico clientelismo meridionale. C’erano però anche dipendenti
con paghe da sopravvivenza, che qualche volta il Banco salvava dalle grinfie
degli usurai con atti di beneficenza. C’erano anche persone che lavoravano per
pochi ducati al mese e apprendisti che prestavano la loro opera senza alcun
salario.
I crediti dei privati verso il
Banco (cioè le fedi in circolazione, dette anche le bancali) non erano
sequestrabili né pignorabili da parte di un privato né a opera dello Stato. Esse
non avevano però corso forzoso tra i privati: non erano, cioè, moneta dello
Stato. Il privato era libero di non accettarle in pagamento. La pronta cassa fu
la più convincente pubblicità del Banco e creò, nelle popolazioni regnicole, un
clima di fiducia nella moneta cartolare insolito sia in Italia che in gran parte
dei paesi europei. La carta circolava nelle province con sicurezza, nonostante
la presenza di banditi e predoni. Viaggiava per mare come se la somma fosse
assicurata, in quanto, nel caso di naufragio, o comunque di smarrimento o furto,
fatti i debiti accertamenti e costituite le necessarie garanzie, il Banco
rilasciava una seconda bancale.
Il meccanismo creato dal ministro
Medici fece del Banco l’unica istituzione veramente prospera di tutta la
penisola. Una quota, variamente consistente negli anni, ma sempre elevata, della
moneta circolante nelle Due Sicilie giaceva nelle sue casse. Di questo contante
lo Stato, sornionamente, utilizzava una parte per la sua attività erariale,
senza per questo disturbare gli affari privati, anzi stimolandoli attraverso una
tranquilla circolazione dei titoli. In sostanza il governo napoletano, una volta
creato un meccanismo che gli metteva a disposizione il danaro della gente, poté
essere meno fiscale di altri governi e persino più contenuto nell’emissione di
debito pubblico, che, se acquistato all’estero, dava luogo all’esportazione di
rendita.
Ma se il Banco – per così dire –
annacquava agli occhi dei sudditi il peso dello Stato e se contemporaneamente
favoriva i grossi commercianti napoletani, era invece chiuso al più pesante e
pressante problema dell’economia duosiciliana: il credito all’agricoltura. Il
giro creditizio della Cassa di Sconto non raggiungeva la provincia, se non a
livello di duchi e baroni. I quali, per altro, se attingevano al credito, di
regola non lo facevano per effettuare degli investimenti produttivi. Nonostante
la maestosità e l’imponenza del Banco, nelle campagne allignava l’usura. Lo
scambio tra il produttore agricolo e il mercante era il focolaio sul quale
ribolliva un’economia da saccheggio. Ciò era il segno di un’accumulazione
primitiva già in itinere, nel senso proprio e tipicamente europeo di un sistema
paese strutturato in modo da spostare invisibilmente risorse dalla campagna alla
città[5].
Per spiegare la duttilità politica
di de Medici è opportuno ricordare che la Cassa di Corte non solo anticipava
soldi al Tesoro, ma li prestava anche a chi effettuava forniture allo Stato o
otteneva l’appalto per un’opera pubblica, o anche a un gran signore in
difficoltà. Per agevolare il settore commerciale, il ministro istituì presso la
Cassa di Corte un Consiglio di sconto, con il compito di stabilire se ammettere
allo sconto le cambiali presentate da un dato commerciante. Già nel 1820, appena
avviata la sua attività, su 3.844.172 di ducati di depositi (che peraltro
rimanevano in circolazione sotto forma di bancali) il Banco impiegava in
operazioni di credito duc. 1.654.775, trattenendo in cassa soltanto il 30 per
cento dei depositi, pari a duc. 1.189.397 (idem, pag. 171). In pratica la
circolazione di carta bancaria assommava le fedi rilasciate ai depositanti (duc.
3.844.172) e le fedi emesse come carta fiduciaria (duc. 1.654.775). In totale,
nel 1820, a Napoli circolava carta per duc. 5.498.947 (pari a 24, 2 milioni di
lire-oro). E’ da chiedersi a questo punto, dove sta l’arretratezza napoletana e
dove stanno i primati e le primazie piemontesi.
_____________________
[1] Con la restaurazione
postnapoleonica Ferdinado IV di Napoli e III di Sicilia si proclamò Ferdinando I
delle Due Sicilie. In precedenza il regno di Sicilia e quello di Napoli, benché
sottoposti a un solo dinasta, davano luogo a due diverse corone. L’unità
effettiva tra Sicilia e Napoletano risaliva all’intromissione della Curia romana
nella vita del Sud e ai re normanni, mentre la dizione Due Sicilie era stata
coniata al tempo degli angioini. Per sette secoli due corone si sovrapposero su
una sola testa, quella che l’Europa barbarica decretava dovesse regnare sui
meridionali. Con la proclamazione del 1815 il regno diventò uno solo anche agli
effetti del diritto internazionale.
[2] Oltre al citato Banco di
Sant’Eligio, c’erano il Monte dei Poveri (nato il 1563), il Banco di Ava Gratia
Plena o della Santissima Annunziata (1587), il Banco di Santa Maria del Popolo o
Banco del Popolo (1589), il Banco dello Spirito Santo (1590), il Banco di San
Giacomo o della Vittoria (1597), il Banco del Santissimo Salvatore (1640).
Quest’ultimo, fondato da un’Associazione di fornai, era il solo ad avere un
dichiarato fine di lucro.
I vecchi banchi
raccoglievano depositi per una cifra favolosa per il XVIII secolo, 25.576.470
ducati, e possedevano beni immobili per 13 milioni di ducati. Se Ferdinando
avesse prestato il contante disponibile ai suoi cognati, Luigi XVI e Maria
Antonietta, probabilmente la Grande Rivoluzione non ci sarebbe stata, con gran
beneficio degli italici e dei siculi loro contemporanei, nonché di noi sudici
posteri.
Sui Banchi
napoletani esistono centinaia di opere. Le più accreditate recentemente sono
quelle di Demarco sull’Archivio del Banco di Napoli. Lo stesso Demarco cita R.
Filangieri, Storia dei Banchi di Napoli, pubblicata a Napoli nel 1940.
[3] Ricordo ancora che non
solo a Napoli, ma anche altrove, chiunque poteva portare oro o argento alla
zecca dello Stato e farlo coniare, ovviamente pagando il signoraggio.
[4] L’archivio storico del
Banco di Napoli è considerato il più ricco al mondo di documentazioni del
passato.
[5] Neanche il Sud unitario
poté usufruire di un apparato creditizio a favore dell’agricoltura. La
moltiplicazione degli sportelli del Banco di Napoli, le banche popolari e le
casse di risparmio sorte a partire dagli ultimi anni del sec. XIX, servirono
essenzialmente a finanziare il commercio locale, in pratica gli sbocchi
meridionali delle merci toscopadane. Una significativa opera creditizia a favore
dell’agricoltura si ebbe al tempo della Cassa per il Mezzogiorno, ma a quel
punto della storia il rapporto di scambio tra agricoltura meridionale e prodotti
protetti comunitariamente sconsigliava d’insistere in un’attività divenuta
inesorabilmente perdente.
Nessun commento:
Posta un commento