Da Il
conformista ne Il Gazzettino di
venerdì 31 agosto 2012
di Filippo Giannini
Ė proprio vero, l’eredità più grave lasciata dal Fascismo è quella di
aver generato l’antifascismo.
Uno dei pochissimi giornalisti che questa repubblichetta aveva generato e che io stimavo, era Massimo Fini.
Dopo aver letto il suo articolo, di cui propongo uno scorcio, la mia stima traballa.
Nell’articolo citato, dopo aver riconosciuto alcuni meriti del fascismo, ecco
come conclude: <Certo, poi ci sono gli
orrori> ed ecco l’elenco degli orrori:
<il carcere di Gramsci (“Dobbiamo
impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni”), l’omicidio
Matteotti, quello dei Rosselli, il criminale uso dell’iprite in Abissinia, le
leggi razziali. E l’errore fatale: che i tedeschi avrebbero vinto la guerra in
quattro e quattr’otto (“ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al
tavolo della pace”) (…)>..
Cominciamo con Gramsci. Per prima cosa stabiliamo: quale Gramsci? Mario
o Antonio? Perché pochi sanno che Mario Gramsci, fratello di Antonio più
giovane di lui di dodici anni, era un fascista: volontario nella campagna
d’Etiopia e combattente in Africa Settentrionale. Fatto prigioniero, fu inviato
in Australia. Rientò in Patria nel 1945 malfermo in salute a causa delle
angherie subite perché non-cooperatore. Morì
subito dopo il rientro, solo e dimenticato, in un ospedale di terz’ordine, ma
Massimo Fini intende ricordare l’altro
Gramsci, Antonio.
Prima di iniziare, mi si permetta una domanda: <Perché negli “orrori” si citano sempre i soliti nomi e mai quelli di
Armando Casalini, di Berto Ricci o quello di Nicola Bonservizi o di Giulio
Giordani o di altri centinaia di caduti in Camicia Nera, assassinati a sangue
freddo?>. Mi si perdoni la sbadataggine: questi erano fascisti! Oh, buon
Dio che lapsus, non è forse vero che “uccidere
un fascista non è reato”?
Ma andiamo avanti. Il primo martire degli orrori fascisti citato da Massimo Fini è Antonio Gramsci.
Un primo equivoco è di credere – o far credere – che Gramsci fosse un “democratico”
o un “pacifista”. Tutt’altro: una costante del pensiero gramsciano era
quella di spingere le masse verso una rivoluzione : il che equivaleva dire di far pagare all’Italia uno
scotto di centinaia di migliaia di morti.
Pochi sanno che le prime azioni squadristiche non
erano di “marca fascista”- in quanto avvenute nell’inverno
1918-primavera 1919, cioè quando il fascismo non era ancora nato – ma “rosse”;
avvenivano principalmente nell’Emilia-Romagna; e obiettivi erano i contadini di
quelle terre restii ad iscriversi ai sindacati socialisti. Ebbene, in un
dibattito alla Camera Gramsci ebbe l’impudenza di rimproverare Mussolini per
l’uso della violenza praticata dai fascisti; al che Mussolini replicò
ricordando che fu proprio il suo compagno di partito, Bordiga, a giustificare
l’uso della violenza. Nella controreplica Gramsci superò se stesso sostenendo: >. Una
controreplica, quella di Gramsci, che ben si allinea a quanto da lui stesso
sostenuto, e cioè che <una menzogna in bocca a un comunista è una verità
rivoluzionaria>. Infatti, quando mai la maggioranza del popolo
italiano era di marca rossa’?
Dopo la
svolta del 1925, quando il Fascismo assunse un atteggiamento“autoritario”,
Gramsci costituiva un motivo di disturbo. Venne arrestato l’8 novembre 1926;
dapprima fu rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, quindi tradotto a Ustica
dove giungerà il 7 dicembre. Nel 1928 il Tribunale Speciale lo condannò a venti
anni di reclusione. Gramsci si rifiutò sempre di inoltrare domanda di grazia.
Un’altra
nota da presentare al signor Massimo Fini viene fornita da Giancarlo Galdi, il
quale ha scritto: <Non fu Mussolini a
pronunciare la frase “dobbiamo impedire a quel cervello di funzionare per i
prossimi vent’anni”. L’autore di questa sciocchezza fu il “togato” Michele
Isgrò, pubblico Ministero del Tribunale Speciale (…). Il Duce mostrò nei
confronti dell’avversario una silenziosa, fattiva solidarietà per quanto gli
era possibile e… consentito>. Se Massimo Fini non è d’accordo, si può
rivolgere all’autore di questa puntualizzazione.
Durante la
detenzione, sia al confino a Ustica, sia nel carcere di Turi (che in pratica
era una “clinica con le sbarre” dove il personale sanitario aveva la
prevalenza su quello di sorveglianza), sia, come vedremo, nella clinica
Cusumano di Formia, Gramsci poté godere di un trattamento di riguardo e
dell’assistenza della cognata Tatiana Schucht.
In carcere
continuò i suoi studi, disponendo anche di libri “sovversivi” che di
volta in volta ordinava.
I suoi “Quaderni dal carcere” potevano uscire
senza problemi e giungere a quelle persone cui erano destinati, senza che il
Governo li avesse mai sequestrarli.
Fu proprio
quanto contenuto nei “Quaderni” ad alienargli le simpatie del Cremlino
e, in particolare, del suo “proconsole generale per l’Italia” Palmiro
Togliatti. Infatti, per quanto riguarda le lettere inviate da Gramsci alla
cognata tra il 1926 e il 1935, lo stesso “Istituto Gramsci” riconosce: anche necessari>. In altre parole, Togliatti manipolava gli scritti
del fondatore del Partito Comunista d’Italia secondo i voleri del Cremlino.
Giustamente Franco Monaco, nel suo libro “Quando l’Italia era ITALIA”, scrive:
<Nemici
implacabili di Antonio Gramsci furono gli stessi comunisti, poiché il suo
leninismo non combaciava con lo stalinismo vigente in Russia. Nell’Unione
Sovietica infieriva il terrore e i comunisti, anche italiani, sparivano
nelle prigioni e in Siberia>. Così
Gramsci fu messo nel “libro nero” dai suoi stessi compagni e ci vuole
proprio la loro “faccia di bronzo” per innalzarlo a martire della loro
idea. Tanto che – e questo è lo stesso ex segretario di Togliatti, Massimo Caprara,
a ricordarlo: <Togliatti-Ercoli ostacolò lo scambio di prigionieri sostenuto dal
Vaticano che Mussolini avrebbe accettato e che avrebbe consentito la
liberazione di Gramsci>.
La malattia
che accompagnava sin dalla nascita il grande pensatore comunista progrediva
sempre più; ne fa testimonianza lo storico del PCI, Paolo Spriano, che nel suo
libro “Gramsci”, denuncia: <L’insonnia lo tormenta (…). Tra il 1931 e il
1934 si palesano lesioni tubercolari polmonari, fatti di depressione cardiaca,
attacchi artritici, nefriti, piorrea alveolare>.
Il 5
novembre 1932, in occasione del decennale della Marcia su Roma, con Regio
decreto gli fu ridotta la pena a dodici anni e quattro mesi e anticipata la
decorrenza dal 20 gennaio 1927.
Nel 1933 Gramsci, colpito da una nuova grave crisi,
ottenne il trasferimento dal carcere di Turi alla clinica Cusumano di Formia,
non prima di essere stato assistito dai migliori clinici del tempo, quali
Arcangeli, Liccione, Saporito.
Fu per
diretto intervento di Mussolini che venne emesso, il 25 ottobre 1934, un
decreto per la libertà condizionata. A Gramsci venne proposto di essere
ricoverato nella clinica “Quisisana” specializzata in malattie
polmonari.
Così egli
scrisse il 3 novembre 1933 a Novelli direttore del Ministero di Grazia e
Giustizia: .
Mussolini venuto a conoscenza della questione “costose
spese”, la risolse con un decreto che stabiliva: <un ex detenuto in quanto
libero, ma sorvegliato, ha il diritto di essere assistito dallo Stato>.
Diamo di nuovo la parola a Spriano: <Terminato il periodo di
libertà condizionale, Gramsci riacquista la piena libertà nell’aprile 1937. Il
25 è colpito da emorragia cerebrale. Nel primo pomeriggio del 27 aprile Gramsci
muore. E’ assistito sino all’ultimo dalla cognata Tatiana. Le sue ceneri,
chiuse in un’urna, vengono inumate nel Cimitero degli Inglesi>.
Al momento
del trapasso, erano presenti oltre a Tatiana, anche i professori Frugoni e
Puccinelli.
La menzogna che Antonio Gramsci morì da detenuto
nelle carceri fasciste naufraga miseramente di fronte ai fatti: il pensatore
comunista morì da uomo libero in un appartamento al numero 2 di Via delle Alpi
a Roma, dove era andato a vivere insieme alla cognata Tatiana.
E se Gramsci fosse stato portato in Urss dopo lo “strappo”
antistalinista da lui effettuato, quale sarebbe stata la sua sorte? Risponde
Dario Fertilio su il “Corriere della Sera” del 10 marzo 1996: .
Centinaia di comunisti italiani rifugiatisi nel “Paradiso sovietico”
trovarono orribile morte - uccisi dai
loro compagni di fede - per molto, ma per molto meno di quanto il pensiero
di Gramsci aveva deviato dalla linea
imposta da Stalin.
Sin qui la storia di Antonio Gramsci, ora passiamo a quella di
Matteotti.
Matteo Matteotti era il figlio di Giacomo Matteotti. Matteo rilasciò
questa intervista al giornalista Marcello Staglieno, intervista pubblicata su Storia Illustrata del novembre 1985. Di
questa ne riporto uno stralcio: <(…).
Matteo Matteotti: nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non
solo quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuta essere portata da
Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare a un dossier
contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto,
assieme alle bische, i petroli.
Staglieno: Suo padre aveva
realmente con sé quel dossier?
M. Matteotti: non ho le prove
materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice afferma che le
insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere lasciate cadere a
priori”>.
Dopo aver chiamato in causa
la Sinclair, la Anglo Persian Oil, la Loggia
massonica, The Unicorn and the Lion,
fu la volta di Vittorio Emanuele III, interessato ad entrare nei giacimenti nel
Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
Così l’intervista continua:
Staglieno: Benito Mussolini non
aveva alcun interesse a far uccidere suo padre…
M. Matteotti: Mussolini voleva
– fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il
7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase di progettazione,
pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione rivolto proprio ai
socialisti (…). Ci sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e
quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risulta da una sua
deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in
persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi
interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe
alienato per sempre la possibilità di una alleanza con i suoi vecchi compagni,
che non finì mai di rimpiangere (…).>.
Povero Matteo Matteotti, non l’avesse mai dette certe verità! Il giorno
dopo fu costretto a rimangiarsi tutto. Non è questa la repubblica nata dalla
resistenza? Il Duce non deve, sottolineo DEVE essere l’artefice di ogni
mascalzonata? Quindi DEVE (anche se la logica, la sua personalità, le prove
dimostrano il contrario) DEVE, ripeto, essere stato l’autore anche della morte
di Giacomo Mateotti.
Illustriamo meglio citando il più fiero accusatore di Mussolini
all’epoca dell’assassinio di Giacomo Matteotti: cioè quel Carlo Silvestri, poco
sopra menzionato. Carlo Silvestri fu interlocutore e confidente di Mussolini
all’epoca della Repubblica Sociale e ne sostenne l’innocenza quando prese
parte, come testimone, al processo Matteotti che si tenne a Roma a Febbraio
1947. Silvestri sostenne che Matteotti fu ucciso per sbarrare la strada a
qualsiasi pacificazione e il suo cadavere . Sempre secondo Silvestri, la creazione di una Repubblica sociale
dopo l’8 settembre, ebbe il merito di rimettere il socialismo all’ordine del
giorno. Ne fu convinto quando nei suoi contatti con Mussolini sul lago di
Garda, soprattutto verso la fine del 1944, scoprì che il suo interlocutore
stava coltivando, in circostanze molto diverse, un progetto molto simile a
quello del 1924: consegnare la Repubblica Sociale, al momento della disfatta,
al partrito socialista. L’operazione fallì, fallì per opera soprattutto di
Sandro Pertini, perché questi, al contrario del tiranno, voleva il sangue, sangue che ottenne.
Se il signor Massimo Fini non fosse convinto di quanto abbiamo
sostenuto, presenti le prove della colpevolezza di Mussolini circa quell’odioso
omicidio e diventerà ancora più famoso di quanto oggi non sia.
Passiamo ora all’omicidio Rosselli.
Gradiremmo prima citare un pensiero di Antonio Falcone (Storia Verità, n° 20): <Questo
tipo di risorsa propagandistica è stato gestito dall’antifascismo con
un’abilità e un professionismo che i fascisti erano lontani dal possedere. I
nomi di Giacomo Matteotti, di don Giovanni Minz-oni, dei fratelli Rosselli –
per citare i più sfruttati – sono stati quasi mitizzati da una agiografia che
non ha nulla da imparare dal martirologio cristiano. Nello stesso tempo vengono
ignorati come mai esistiti, i nomi di Armando Casalini, di Giulio Giordani, di
Aldo Sette, di Giovanni Berta, di Nicola Bonservizi e di tanti altri fascisti,
non caduti in conflitti, ma assassinati a sangue freddo>.
La storiografia ufficiale
attesta: <Carlo Rosselli fece ritorno
in Francia (dalla Spagna dove aveva preso parte alla guerra civile, nda), e
cadde, insieme al fratello Nello, sotto il pugnale dei “cagoulards”
(incappucciati), che agivano dietro
ordine del governo fascista>. La verità è completamente diversa, come
dimostra lo storico Franco Bandini nel documentatissimo volume Il cono d’ombra. I due fratelli Rosselli
vengono assassinati tra le 19,30 e le
19,40 il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de l’Orne. Franco Bandini descrive
esattamente cosa avvenne quel giorno; poi scrive: <Filliol (uno degli assassini) fruga febbrilmente i cadaveri di ciò che
i due fratelli hanno con loro, nulla viene toccato, né denaro, né assegni. In
realtà Filliol cerca un’unica cosa: un pacchetto di documenti che si trovava
nella giacca di Carlo e come ricordato da Bandini (Filliol) se ne impadronisce
con un grugnito di soddisfazione>. Il lunedì 14 giugno “Le Figaro” esce con due sensazionali
titoli: <Carlo Rosselli, amnistiato
dal governo italiano, stava rientrando nel suo paese. I documenti segreti in
suo possesso sono alla base del crimine>. Per concludere, Franco
Bandini, nel citato volume, riporta documenti che dimostrano che il capo dei “cagoulards”, l’ingegnere Eugène
Deloncle, lavorava per conto della sovietica NKVD. Della stessa opinione è
Paolo Pellitteri, nel suo libro “Il
conformista indifferente e il delitto Rosselli”. Ė accertato che i fratelli
Rosselli, dopo la scioccante esperienza spagnola, avevano abbandonato il
fronte, probabilmente perché disgustati dalla violenza dei rossi che proprio il mese precedente avevano massacrato i compagni
di lotta, gli anarchici. Il fatto era avvenuto il 7-8 maggio 1937 a Barcellona.
A seguito di ciò, i fratelli Rosselli avrebbero maturato l’idea di rientrare in
Italia con documenti importanti. Questo potrebbe essere stato il movente del
loro assassinio. Altro che il “governo
fascista”!. A proposito di questo, mai si è fatta la storia dei rapporti
esistenti tra i fuorusciti e il
Governo fascista. I fuorusciti, allo
scadere del visto sul passaporto, si presentavano ai rispettivi Regi Consolati
per il rinnovo che era regolarmente concesso. Questo non veniva negato nemmeno
ai più tenaci avversari del Governo italiano, come risulta dalla ricca
documentazione riposta nell’Archivio centrale dello Stato. In mancanza del
rinnovo, gli Stati ospitanti si sarebbero visti in diritto di pretendere l’espatrio.
Ora esaminiamo l’accusa del “criminale
uso dell’iprite in Abissinia”.
Allora, gli italiani nella
guerra etiopica usarono o no i gas asfissianti? Prima di entrare
nel merito sarà bene ricordare che quando l’Italia affrontò
quell’impresa, Francia e Inghilterra profetizzarono che, qualora il nostro
Paese fosse riuscito a vincere quella guerra, questa sarebbe durata non meno di
cinque anni e con perdite inimmaginabili.
Grande fu lo scorno della “Perfida Albione”
allorquando quel conflitto si risolse per noi
vittoriosamente in una manciata di mesi. Ecco allora venir fuori la
calunnia: “Hanno vinto perché usarono i gas asfissianti”. E’
sempre difficile tentare di confutare certi argomenti, quelli
cioé che riguardano “il feroce
volto del fascismo”, il minimo che può capitare al malcapitato che si
dovesse avventurare nell’impresa sarebbe quella di essere marchiato di “revisionismo”, il che equivale ad una
infamia.
Ascoltiamo ora qualche
testimonianza di chi quella esperienza la visse.
Montanelli in data 12 gennaio 1996 su “Il Messaggero” ricorda: <Se la guerra a cui ho partecipato
corrisponde a questi connotati, vuol dire che io ne ho
fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas?>. Alla domanda:
<Lei continua a non credere nei gas?>
Montanelli rispose: <Vorrebbe dire che ero cieco, sordo,
imbecille. No, guardi di quelle cose non c’era traccia. Una cosa sono
le carte, che possono anche essere scritte per la
circostanza, un’altra le testimonianze vissute>.
Pietro Romano, “Il Giornale” del 18/2/96: >. Il Colonnello Giuseppe Spelorzo
in data 18/3/96 mi ha, fra l’altro, scritto: <Ho la buona sensazione che il Sig.... e gli
altri cretinissimi italiani ne sappiano molto meno di me. Già, io ho avuto la
ventura di percorrere tutto l’Impero A.O.I. (...) mai
sentito parlare di gas (...)>. Sempre il
Colonnello Spelorzo, ma in data 12/6 ha ribadito: marzo 1938!>.
Il sig. Giovanni
De Simone su “Il Giornale
d’Italia” del 23 marzo 1996: <(...) In A.O.I. non vennero usati i
gas. Se così fosse stato io sarei stato il primo a saperlo
prestando servizio al Sim ove giungevano decrittati tutti i messaggi
della intera rete radio del nemico captati dal “Centro
intercettazioni” di Forte Bracci; un vero libro aperto
per noi in possesso di “decifratore”. Mai rilevata una parola sui gas>
E
ancora “Il Giornale d’Italia”
del 29/4/96, il Sig. Giulio Del Rosso testimonia: .
Lo
stesso Winston Churchill nella sua “La
Seconda Guerra Mondiale”, a pag. 210, esclude l’uso dei gas nei
seguenti termini: <I gas asfissianti
sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto
prestigio al nome d’Italia nel mondo>.
Vittorio
Mussolini che all’epoca era al comando di una squadriglia di bombardieri
mi disse: dovevamo pur esserne a conoscenza>.
Ė cosa nota (o almeno dovrebbe essererlo) che ai
prigionieri caduti in mano abissina
venivano riservati trattamenti diabolici: l’evirazione era la norma
comune.
Non è male ricordare un fatto che
traumatizzò l’opinione pubblica nazionale: il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà
operava, ubicato imprudentemente oltre il Mareb, un cantiere
Gondrand. Su questo opificio piombò una banda di 2000 guerriglieri
abissini al comando del Ras Immirù, che dopo aver ucciso in modo atroce tutti
gli operai, torturò, come sapevano fare, l’ingegnere milanese Cesare
Rocca fino ad ucciderlo. Violentarono ripetutamente la moglie Lidia
Maffioli e, prima di finirla, le misero in bocca i testicoli
del marito. Nel caso del genere, contro gli autori di simili misfatti, l’uso dei
gas sarebbe stato più che motivato; il diritto
di rappresaglia era previsto dalle Convenzioni de l’Aja e quanto avvenuto a
Mai Lahlà ne sanciva la legittimità.
Citiamo una nuova testimonianza,
questa volta di Alberto Franci (Voce del
Sud, 18/5/1996): l’episodio del tenente
pilota Minniti, sul fronte dell’Ogaden,
che, costretto all’atterraggio, si difese con la rivoltella, finché
sopraffatto e
catturato venne inesorabilmente torturato e,
alla fine, evirato (…). Inoltre dovrebbe risultare che il Governo italiano più
volte inoltrò formali proteste alla Società delle Nazioni (in Ginevra) per il
sistematico impiego – da parte etiopica – dei micidiali proiettili dum-dum che,
all’impatto, si frantumavano producendo ferite gravissime e, quasi sempre
inevitabili mutilazioni. Perciò le dum-dum erano bandite dalle Convenzioni
(…)>. Per quanto mi risulta i casi del cantiere Gondrand, del tenente
Minniti e delle pallottole dum-dum
non vengono ricordati dai sostenitori delle atrocità fasciste. Perché?. Ed ora giungiamo ai telegrammi di autorizzazione; telegrammi che
si trovano nell’Archivio di Stato di Roma.
Il 2 gennaio 1936 il capo del fascismo telegrafa a Graziani e per conoscenza
a Badoglio: <Approvo pienamente
bombardamento rappresaglia e approvo fin da questo momento i successivi,
soltanto cercare di evitare le istituzioni internazionali della Croce
Rossa>.
Evidentemente si era in attesa delle decisioni
ginevrine in merito alle attività irregolari degli etiopi e della loro
condanna, tre giorni dopo e precisamente il 5 gennaio, Mussolini inviò a
Badoglio il seguente telegramma: <Sospenda l’impiego dei gas sino alle
riunioni ginevrine a meno che non sia reso necessario da supreme necessità
offese aut difesa.>. I toni
duri si ripetono nel telegramma “Segreto”, sempre a Badoglio, del 29 marzo: <Dati metodi di guerra del nemico le rinnovo
autorizzazione impiego gas di qualunque specie e su
qualunque scala>. Il 10
aprile un nuovo telegramma, questa volta a Graziani, il Duce ordina: <Non faccia – dico: non faccia – impiego di
mezzi chimici sino a nuovo ordine>. Pochi giorni dopo, il 17
aprile, un nuovo telegramma ordina: <Visto che gli abissini continuano
a impiegare le pallottole dum-dum – autorizzo V.E. – se lo ritiene necessario –
all’impiego dei gas a titolo di rappresaglia – esclusa l’iprite>. Per inciso è da notare che il
Duce usava il Lei che, in teoria, il
regime aveva abolito.
Gli
episodi sopra indicati (che poi non erano tali, ma la norma), non erano “propaganda fascista”, ciò è
dimostrato dal fatto che vennero denunciati anche dai Governi pre-fascisti, in
occasione delle disastrose spedizioni effettuate in
quel periodo e in quelle località. In merito a quegli avvenimenti
accaduti alla fine del XIX secolo, il Del Boca. sostenitore dell’uso dei
gas, attesta: <E se
la prima guerra d’Africa fu condotta in maniera
cavalleresca, quella intrapresa dal fascismo fu invece di sterminio (!) e di sopraffazione>. Non so se queste dichiarazioni
possono essere tacciate di impudenza o di cos’altro; infatti
evirare i prigionieri e sotterrarli vivi (notizie di fonte inglese) era
una “maniera cavalleresca” di condurre la guerra. Altra testimonianza interessante è quella dello
storico scozzese Denis M. Smith, non certo sospettoto di nutrire simpatie
per il regime mussoliniano, esprime uguali perplessità; nella
sua biografia su “Mussolini”
riconosce che: <L’impiego dei gas è
forse un fatto meno rilevante dei grandi sforzi
prodigati per celarlo (...) contrastava con la
missione civilizzatrice (...) e la vittoria con atrocità
illegali avrebbe danneggiato il prestigio fascista>.
Anni fa
prima di compilare un articolo su questo argomento, contattai il generale
Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro, recentemente
scomparso. Alla mia domanda,
sdegnato mi rispose: <E’ una vigliaccata, rieccoci con le
carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci
avrebbero almeno dato le maschere antigas. Alla battaglia conclusiva di Maiceo,
al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus; perché lui
che ne avrebbe avuto tutto l’interesse mai disse che
lo combattemmo coi gas?>.
Giro le domande al signor
Massimo Fini che ne sa più di me: 1) perché nessun milite italiano fu mai
fornito di maschere antigas? 2) Perché il Negus, benché fosse di
casa alla Società delle Nazioni, mai denunciò l’uso di ‘armi illegali’ da parte
degli italiani?
Altro
argomento interessante proposto dal signor Massimo Fini: le ignobili leggi razziali.
Per
dimostrare quanto fosse malato di xenofobia il fascismo,
ricordiamo che nella 179° riunione del Gran
Consiglio del Fascismo, tenutasi il 26 ottobre 1936, venne approvata una
mozione che stabilisce “che le quattro
province della Libia entrano a far parte del territorio nazionale”. Questo
provvedimento non fu che l’estensione del R. D. 8 aprile 1937 XV n° 431, nel
quale l’articolo 4 riconosce: <una
cittadinanza italiana speciale per i nativi mussulmani delle quattro province
libiche che fanno parte integrante del Regno d’Italia>. Un decreto
veramente rivoluzionario: mai nulla di simile era stato realizzato da alcun
paese coloniale, dove i nativi venivano sfruttati come schiavi e le loro terre
depredate di tutti i beni. L’Italia fascista concesse loro, invece, la parità
di diritti come un qualsiasi altro italiano. (I libici furono definiti Italiani della Quarta Sponda).
Passiamo
alle Leggi razziali. Winston
Churchill (La Seconda Guerra Mondiale,
Vol. 2°, pag. 209: <Adesso che la
politica inglese aveva forzato Mussolini a schierarsi dall’altra parte,
la Germania non era più sola>. Renzo De Felice osserva: <Una volta che Musolini fu gettato
nelle braccia della Germania di Hitler, era impensabile che anche
l’Italia non avesse le sue leggi
razziali>. Chi scrive queste note è convinto assertore che, se sono
esistite le camere a gas, solo
l’Italia fascista salvò migliaia di ebrei. In proposito – dato che ho abusato
troppo dello spazio – citerò solo una osservazione dello storico ebreo Léon Poliakov (Il nazismo e lo sterminio degli ebrei,
pagg. 219-220): <Mentre, in generale,
i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponeva che fiacca resistenza
all’attuazione di una rete sistematica di deportazioni, i capi del fascismo
italiani manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso.
Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di
fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino
a proposito del problema ebraico (…)>.
<L’errore fatale> ha scritto Massimo
Fini <Entrare in guerra
impreparati>. Allora. Mussolini ha voluto la guerra? Rubo le parole di
Totò e dico: <Ma fatemi il
piacere!>. La guerra l’hanno voluta, preparata e ottenuta i Paesi democratici, così come aveva
profetizzato Bernard Shaw nel corso di un’intervista concessa al Manchester Guardian nel 1937. Bernard
Shaw disse: <Le cose da Mussolini già
fatte lo condurranno prima o poi ad un serio conflitto con il capitalismo>.
Dato che non posso pretendere altro spazio,
presento solo pochi altri argomenti. Ancora una volta cito un pensiero dello
storico Rutilio Sermonti, perché in poche parole esprime quel che realmente si
verificò in quegli anni (L’Italia nel XX
Secolo): <La risposta poteva
essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo, quale
unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico
– e soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla
realtà storica: soprattutto
dell’Italia>.
E i fatti e documenti (solo questi parlano, signor Massimo Fini, non le
chiacchiere!). Ecco cosa disse l’ex ambasciatore Pietro Gerbore a Piero
Buscaroli nell’aprile 1973 nel corso di un’intervista: <C’è un documento unico. Di
rado nella storia della diplomazia, una decisione come quella del 10 giugno
1940 è illuminata da un retroscena altrettanto minuzioso e coerente. Non è sconosciuto, i pochi
intenditori lo chiamano dal nome del suo autore: IL RAPPORTO PIETROMARCHI>.
Ci credo che sia poco conosciuto e trascurato, perché Luca Pietromarchi,
Capo dell’Ufficio Guerra Economica, presentò il suo primo Rapporto a Mussolini
l’11 maggio 1940 (un secondo fu presentato l’8 giugno seguente). Con questi
Rapporti Luca Pietromarchi illustrava come la marina anglo-francese abbia
effettuato 1340 casi di abbordaggio e di sequestro di nostri bastimenti e navi
di linea violando ogni legge internazionale. Da questi documenti, che
provengono dall’Archivio del Ministero degli Esteri, si evince al di là di ogni ragionevole dubbio,
quali mezzi di provocazione siano stati messi in atto da chi volle
effettivamente un generale conflitto
europeo.
Prima di
concludere, desidero ricordare che Mussolini, il 31 marzo 1940, preparò un piano strategico che sottopose prima a
Vittorio Emanuele III e, quindi, al Capo
di Stato Maggiore Pietro Badoglio e ai più alti gradi militari. Nel memoriale
(conosciuto col nome di Promemoria 328)
il Duce motivava la necessità del nostro intervento militare; fra l’altro
ammoniva: <Non possono esserci
ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di
quelli che sarebbero potuti essere provocati da un intervento prematuro (…)>.
Sia il Re che i Capi militari (tutti) trovarono il Promemoria 328 di “una logica
geometrica”. Quindi analizzava: <Credere
che l’Italia possa rimanere estranea fino alla fine è assurdo e impossibile.
L’Italia non è accantonata in un angolo dell’Europa come la Spagna, non è semi-
asiatica come la Russia, non è lontana dai teatri d’operazione come il Giappone
e gli Stati Uniti, l’Italia è in mezzo ai belligeranti tanto in terra quanto in
mare. Anche se l’Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra con la Germania. Guerra che l’Italia dovrebbe sostenere da
sola (…)>. Un’altra osservazione Mussolini ha omesso: i tedeschi non
hanno dimenticato lo scherzetto che
l’Italia riservò loro nel maggio 1915, quando pur essendo loro alleata, tradì
l’alleanza e fece loro guerra.
Ora
analizziamo la situazione geografica-militare-politica a metà 1940: la Germania
era padrona della quasi totalità dell’Europa, con un esercito potentissimo che
si affacciava al Brennero. La Russia alleata di Hitler, Roosevelt garantiva gli
americani (truffaldinamente) che “non un
americano morirà per le guerre europee”, gli eserciti franco-inglesi erano
in rotta, tallonati da quello tedesco. In questa situazione Mussolini si trovò
di fronte a tre e solo tre alternative: neutralità (ma Hitler aveva già
invaso Belgio, Danmarca, Olanda ecc, Paesi neutrali), guerra alla Germania (una
pazzia!), guerra a fianco della Germania; oltretutto, come ebbe a dire
Churchill in quel periodo “nessuno
avrebbe scommesso un penny sulla possibilità di resistenza della Gran Bretagna.
Vorrei avere un parere da Massimo Fini: quale di queste tre soluzioni avrebbe
suggerito a Mussolini?
Termino citando un giudizio del più grande
giornalista e storico Svizzero Paul Gentizon: “Tutto ciò che ha fatto il Fascismo è consegnato alla Storia. Ma se c’è
un nome che, in tutto questo dramma, resterà puro e immacolato, sarà quello di
Mussolini (…)” (Les Mois Suisse,
maggio 1945).
Sarà la Storia, non i vari
Massimo Fini, a dare il giudizio definitivo!
Sempre grande Filippo Giannini. Massimo Fini ha ceduto all'antifascismo... così il suo nome ha iniziato a circolare un pò. Ha ceduto anche lui alla solita retorica.
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