Giacomo De Sario
Crisi esistenziale e
ricerca di un nuovo patto di partecipazione e consenso
Parlare della crisi dei
nostri tempi è avventurarsi sul terreno della più inconcludente retorica se non
si centrino e si chiariscano contestualmente i temi e gli interrogativi
necessari per procedere ad una concreta e chiarificante
riflessione.
Innanzitutto va definita e
compresa la natura base della crisi dal momento che molti osservatori,
purtroppo, confondono cause ed effetti rimanendo così ai margini del
problema.
Esempio tipico di questo
modo di portare avanti le proprie riflessioni o di dialogare con il pubblico è
quello di definire
in
qualche maniera il settore della crisi: crisi morale; crisi economica; crisi
di istituzioni; crisi di classi dirigenti; etc.
La
crisi, infatti, è un po' tutto di ciò, ma sostanzialmente nulla di questo
giacché a monte le cause sono assai più vaste e profonde e ciò di cui soffriamo,
ciò che siamo abituati a sentir indicare come “la crisi” è invece la serie
incalzante degli effetti di una causa primaria la cui individuazione esatta
costituisce non soltanto l'obiettivo di ogni serio tentativo di analisi, ma
anche la sola possibilità di cura del malanno.
Sollecitare
l'analisi e la discussione partendo da questo tipo di premessa è fondamentale
perché la grande maggioranza spesso tende a rifiutare un esame a monte, un po'
per pigrizia intellettuale, e perché sviata da chi tenta di imbrigliare le
idee, confondendole, al fine di ritardare ogni processo
rinnovatore.
Esempio
tipico di confusione volutamente determinata è quello che riguarda a tutt'oggi
i due concetti di libertà e di democrazia. Questi due termini dai contenuti
specifici, ciascuno storicamente evolutosi in direzioni particolari, spesso
mutevoli e contrastanti con le precedenti, possono essere ravvicinati nel loro
valore ideologico soltanto sul piano del genericismo e della
retorica.
Libertà
è infatti contenuto globale diretto a considerare l'uomo e la sua sfera
naturale, quindi irrinunciabile ed immutabile; democrazia è forma di governo,
metodo di gestione, scelta sociologica volta alla considerazione del cittadino
ed alla sfera dei suoi comportamenti e delle sue vocazioni
politiche.
E
per quanto tali comportamenti e vocazioni siano difficilmente disgiungibili dal
loro valore di comportamento esistenziale dell'uomo e quindi si possa in questo
contesto operare una similitudine uomo-cittadino, è pur vero che il discorso
filosofico sull'uomo (e quindi sulla libertà) configura una sfera di interessi
e sensibilità totali ed immutabili, almeno quanto il discorso politico sul
cittadino (e quindi sulla democrazia) costituisce l'espressione di una
permanente e necessaria evoluzione, storicamente sempre presente ad un'analisi
dei fatti e del pensiero.
Non
si può dunque contestare il concetto di libertà come ancoraggio obbligato del
potere, senza porsi fuori dalla dinamica degli sviluppi civili della società;
si può invece e si deve, dialogare sulla rispondenza attuale del metodo di
gestione democratico del potere senza per questo “scadere” al livello di cultori
di violenza e sopraffazione, ma rimanendo invece ancorati a ruoli e vocazioni
riformatrici per la più opportuna e rispondente gestione della cosa
pubblica.
Tutti
gli equivoci di schieramento ideologico, che complicano il già pesante discorso
della “crisi” della società attuale partono da qui.
Prendere
posizione per la libertà stabilisce una convergenza di intese filosofiche e
culturali che non possono essere assolutamente equiparate ad una qualsiasi
delle molte, possibili dichiarazioni di fede democratica.
Le
certezze, ad esempio, che possiamo ricavare dall'essere il pensiero socialista
in linea con il valore di libertà, non esistono più nei confronti del pensiero
comunista che pure si spertica in dichiarazioni di convincimento
democratico.
Per
il pensiero comunista, infatti, il concetto di democrazia si evolve e si
articola attraverso varie aggettivazioni che testimoniano in sostanza la
flessibilità tattica della dottrina comunista; abbiamo così da quella parte una
democrazia progressista, popolare, proletaria o di altra
aggettivazione.
Ora
proviamo per un attimo ad aggettivare invece con gli stessi termini il concetto
di libertà. Avremo così libertà progressista, popolare,
proletaria.
Non
ci sembra che funzioni.
D'altronde
non è solo in direzione comunista che può essere svolta la nostra
considerazione.
Se
provassimo a parlare di libertà socialista, di libertà liberale, di libertà
cristiana, di libertà monarchica, repubblicana così come si parla, e si può
parlare, di democrazia socialista, liberale, cristiana, monarchica,
repubblicana, avvertiremmo lo stesso stridore e ciò per il semplice motivo che
andiamo sostenendo:
quello
cioè di un concetto immutabile e permanente di libertà ed un altro, da
interpretare e gestire, di democrazia.
Si dirà che, in fondo
nulla è permanente ed immutabile sul piano delle idee e che anche del concetto
di libertà è possibile discutere, ma questo è parte scontata
dell'estremizzazione filosofica del pensiero stesso, mentre ciò che appartiene
al reale è che libertà è concetto dai contenuti filosofico-culturali precisi e
definibili, mentre democrazia è contenuto aperto, dinamico, da articolarsi nel
tempo della sua attuazione.
Possiamo
cioè dire che la forza della libertà è proprio nella sua stabile e ferma
autorevolezza civile, mentre una forza civile della democrazia, all'inverso,
consiste ed esiste solo nella sua capacità di articolarsi in versioni mutevoli
ed alternantesi, soprattutto capaci di andare incontro all'evoluzione dei
tempi.
*
* *
Perché
abbiamo focalizzato l'attenzione sui contenuti differenti dei concetti di
libertà e democrazia; perché ne facciamo oggetto di così attenta riflessione nel
contesto generale del discorso della “crisi”?
Noi
pensiamo che un qualsiasi discorso di miglioramento civile e di rifondazione
strutturale della società o si articola in una prospettiva assolutamente aperta
e generale o diventa compromesso ipocrita del potere con la cosiddetta
“Opposizione di sua maestà”, quell'opposizione cioè di comodo che nasce
soltanto per impedire ogni autentica presa di coscienza innovatrice della
collettività.
La
democrazia governo di popolo si involve cioè in democrazia governo di
maggioranza e si lacera qui ogni pur generica coincidenza con il discorso della
libertà dell'uomo.
In
altre parole o “sul” e “nel” presupposto della libertà si apre un discorso
totale sulle istituzioni e si tenta di pervenire al nodo essenziale dei
problemi per scioglierlo definitivamente in un quadro di riarticolazione
dinamica del vivere e del pensare, oppure, si affonda in sabbie mobili destinate
a risucchiare il pensiero libero riconducendolo alla melma conformista. O
insomma il discorso sulla crisi esamina e discute anche la “fonte” e la “sede”
formativa del pensiero dell'uomo e quindi necessariamente investe gli istituti
della democrazia in cui oggi tale pensiero muove (o dovrebbe muovere) i propri
passi, oppure ogni discorso di analisi, di riforma, di rinnovamento, viene reso
sterile ancor prima di formularsi giacché privo della possibilità di andare a
fondo e centrare criticamente gli obiettivi, nella necessaria dimensione
esistenziale.
Perché
questa nostra preoccupazione sulle possibilità autentiche di un discorso
aperto, di fondo sugli istituti societari, libero dal pregiudizio e dal tabù di
un costituito inamovibile ed immutabile? Perché questa nostra preoccupazione di
stabilire il confine preciso e invalicabile tra il rispetto, la convinzione, la
coscienza della libertà come valore naturale di fondo dell'uomo e l'analisi, la
critica, la ricerca dialettica aperta sul metodo di gestione del
potere?
La
risposta è nel nostro convincimento che la “crisi” (eccoci giunti al punto
focale) risiede nella “rottura” del collegamento tra apporto umano e istituti,
tra personalità creativa e potere, tra capacità, competenza, fantasia, idealità
dell'uomo e società costituita e istituzionalizzata.
Si tratta di una rottura
(ribadiamo di rottura, badate bene, non di interruzione, che sarebbe problema
diverso) che è tanto più grave in quanto incide sulla stessa linfa di sviluppo
del consorzio umano, ed è destinata ad arrecare danni irreparabili perché
operante sulle possibilità di ricambio autonomo del corpo
malato.
Quando,
infatti, a questa tesi, qualcuno obietta che la nostra critica è sterile giacché
la democrazia quale metodo di gestione del potere possiede già in se stessa le
possibilità di autodeterminare i correttivi rivitalizzanti, ci sembra che quel
qualcuno non tenga conto di alcuni elementi fondamentali intervenuti nel
“recente” storico della società.
E
qui diventa opportuno, ad esempio, il richiamo alla esasperata rapidità degli
sviluppi tecnologici che hanno determinato non poche situazioni nuove, di cui
troppo poco ci si vuol ricordare e soprattutto “poco” nella giusta direttrice di
analisi, un'analisi che, a nostro giudizio, deve focalizzare i guasti profondi
operati nella sfera psicologica dell'umano.
Lo
sviluppo tecnologico della società è stato non soltanto pressoché totale in
quanto a materie e settori, ma è avvenuto anche così rapidamente, da non
consentire alcuna possibilità di assimilazione per le grandi
masse.
È
questa
una verità semplice, direi elementare, ma come tutte le verità semplici, se
trascurata, è capace di intralciare la chiarificazione propedeutica per lo
sviluppo dialettico successivo. Provate a leggere senza che l'alfabeto vi sia
profondamente e naturalmente familiare! Non riuscirete mai a districarvi nelle
pagine scritte per quanto possiate abituarvi a “vedere” e “riconoscere”
singolarmente le varie lettere.
E
quanto avviene oggi di fronte ai più grandi fenomeni tecnici di cui moltissimi,
le masse, assistono abitualmente al manifestarsi, ma di cui non comprendono
appieno il sottile condizionamento e le mutazioni inconsce che determinano
nella sfera del pensiero e della riflessione.
Vorrei,
evadendo dalla stretta logica dell'argomentazione politica cui stavamo
rifacendoci, dedicare un attimo di attenzione al rapporto tra tecnologia e
sentimenti e tra sentimenti e riflessioni così come opera attivamente nel campo
dei mezzi di informazione e comunicazione. Cinema, televisione, radio, sono in
grado di “rappresentare” le testimonianze visibili di verità preconfezionate.
Ora quando una verità di parte, quindi una “non verità”, ma soltanto un
argomento, è accompagnata da immagini presentate con sfrontata autorevolezza
testimoniale, il pubblico dei destinatari si dividerà tra quanti assimilano “in
buona fede” il messaggio preconfezionato e lo faranno circolare come proprio,
aumentando le energie testimoniali dell'argomento “non verità” e coloro che, per
contro, in grado di cogliere la pretestuosità del messaggio-informazione
tenderanno per reazione a mettere in circolazione una contro-verità, che
anch’essa per riuscire a “controbattere” efficacemente la precedente
argomentazione diventerà “forzata” “dialetticamente polemica”, quindi “non
verità”.
Ora
una pubblica opinione che forma i propri sentimenti, e dai sentimenti le
convinzioni e le riflessioni, partendo da piattaforme di non-verità, di
informazione preconfezionata, di convincimento soltanto dialettico, è certo una
pubblica opinione destinata a porre in essere la confusa retorica degli
argomenti piuttostochè un'esatta analisi selettiva per la soluzione dei
problemi.
Se
guardiamo poi al crollo dei miti e dei sentimenti generati dalla frattura
violenta tra ciò che era “prima” convincimento e immagine autonoma del singolo,
immagine equilibrata e graduata con una globalità pensante, e se osserviamo
invece quanto diviene “scoperta”, “imposizione razionale”, “sostituzione di
realtà sempre pensata” a motivo di avvenimenti scientifici o scoperte
susseguentesi, ci renderemo subito conto della vastità degli spazi mentali posti
in crisi di adattamento e di riflessione dal turbine tecnologico degli ultimi
decenni.
Non
si salvano nemmeno gli spazi emotivi più intimisti e personali se riflettiamo
un attimo alle “emozioni” (che chiamerei piuttosto “turbe”) generate dalla
conquista dell'atomo, dalle sue applicazioni nel campo della distruzione a
quelle della creatività e dell'esplorazione.
È
chiaro,
ad esempio, che un giovane abituato a “fantasticare” romanticamente nelle notti
di plenilunio si troverà oggi a disagio “considerando” il via-vai tecnologico di
questi ultimi decenni negli spazi celesti. E questo non perché “il fantasticare”
sia inconciliabile con l'avanzata tecnologica, tutt'altro, ma perché questo pone
problemi di riflessione, di assorbimento di cognizioni, di maturazione di
opinione, che non è assolutamente possibile riempire autonomamente in misura
equilibrata se non con l'apporto di “fonti” di cognizione e opinione
assolutamente imparziali e competenti.
Ed ecco che il discorso
ritorna alle sedi di elaborazione del pensiero, agli strumenti di formazione del
pensiero stesso, e quindi ad un argomento addirittura propedeutico: il costo e
la disponibilità degli strumenti di formazione del pensiero e di gestione
dell'informazione. Argomento propedeutico perché essenziale alla definizione ed
al formarsi delle classi dirigenti. Elemento essenziale quindi per qualsiasi
discorso di “governo” della società, di superamento della crisi,
d’individuazione delle ragioni della crisi.
*
* *
Noi
pensiamo che la “crisi” si generi, in tutti i settori del vivere civile, perché
sono in crisi la dinamica formativa del pensiero, la sede e gli strumenti
dell'educazione civile attraverso cui si realizza la formazione delle classi
dirigenti di cui sopra dicevamo.
Quando
abbiamo indicato il guasto gravissimo determinato dalla confusione “costruita”
intorno alla presunta identità tra i concetti di libertà e democrazia volevamo
appunto pervenire alla individuazione della impossibilità di uscire dalla crisi
se non attraverso un discorso aperto e radicalmente rinnovatore degli istituti,
perché così come sono previsti e organizzati, e per gli strumenti che ne
determinano la sostanziale funzionalità, essi sono generatori di non verità, di
informazione parziale, di condizionamento sul manifestarsi del pensiero e
dell’opinione.
Perché
abbiamo posto il problema del costo e della disponibilità degli strumenti di
formazione del pensiero e abbiamo abbinato l'argomento a quello della
macroscopica velocità di sviluppo delle tecniche e delle scoperte
scientifiche?
Ove
si rifletta che la dinamica autentica della libertà risiede tutta nella
diffusione di idee e di intuizioni, nella possibilità di organizzare intorno ad
esse consenso e potere per affermarle e gestirle nel pieno rispetto del diritto
di altre idee di percorrere la medesima direttrice, si constaterà che è proprio
il metodo di raccolta del pensiero e la sua organizzazione verso consenso e
potere il punto focale del rapporto societario e dell'ordinato sviluppo
civile.
Non
vi è dubbio che tenuto conto di ciò, quanti, singoli o gruppi, in coincidenza
all'epoca delle grandi trasformazioni e conquiste scientifiche, hanno potuto
pagare i costi delle scoperte tecnologiche o pervenire alla loro disponibilità
per via di consenso-violenza vincente, si sono garantiti la possibilità di una
duratura ipoteca sul potere.
Non
ci sottrarremo certo, a questo punto, al dovere dialettico di una diffusa
disamina analitica delle responsabilità, dei fallimenti, delle condizioni
generali e particolari che hanno determinato il sorgere della risposta
democratica ai problemi della società. Lo faremo diffusamente nei capitoli che
seguiranno.
È
certo
tuttavia che dobbiamo preliminarmente sgombrare il terreno dal tabù ideologico
esistente a ridosso dello spazio definito democratico sul cui prato si vorrebbe
rendere impossibile tagliare l'erba e provvedere a nuove
semine.
Se
non sgombriamo il terreno dal conformismo culturale che ha determinato
l'attestarsi del convincimento libertà uguale democrazia e viceversa, noi
rischiamo di girare intorno al problema effettivo, storicamente essenziale,
cioè quello del rapporto uomo-società costituita, idea e istituzioni, pensiero e
proiezioni rappresentative del consenso che da esso discende. E questo
significherebbe ignorare il soggetto eterno della storia che è l'uomo e la sua
vocazione e destinazione creativa da attuarsi autonomamente, certo in direzione
di una società collettiva, ma non per questo in diritto di collettivizzare
l'entità primaria essenziale cioè, come dicevamo, l'uomo
stesso.
*
* *
In
che rapporto oggi è l'uomo nel confronto della società e dei suoi istituti ad
ispirazione democratica? Garantiscono questi e quella l'effettiva autonomia del
pensiero in rapporto alle sue destinazioni politiche concrete: consenso e
rappresentatività? È
onesto
affermare che gli istituti della società umana del nostro tempo garantiscono il
diritto dell'uomo ad essere attore diretto nella rappresentazione del proprio
pensiero o appare più giusto denunziare un ruolo di comparsa che emargina l'uomo
dagli itinerari del suo pensiero, talché il pensiero espresso finisce per
giungere “diverso”, “inquinato”, “condizionato” alla fine del percorso e
affidato a realtà umanamente e istituzionalmente non in grado di proiettarne
l'immagine esatta?
Sono
questi gli interrogativi della crisi e bloccare l'attesa di convincenti risposte
in nome di un ingiustificato “j’accuse” verso ogni analisi che voglia porsi il
problema della rispondenza del metodo di gestione democratica della vita, della
società, del pensiero, del consenso, della partecipazione, è destinato solo a
produrre reazioni violente, e quindi perverse, perché generate dalla
disperazione e dalla stanchezza di coscienze che non reggono più alla
impossibilità di un libero pensiero creativo.
Non
la disperazione, non la stanchezza, quindi meno che mai violenza ed anti-umanità
potranno rompere l'immobilità dello stagno culturale, ma, potranno farlo
soltanto l'apertura e la insistenza paziente, ma irremovibile e decisa, su nuovi
filoni culturali e di libero pensiero.
Quando
scaturisca dalla convinzione profonda della libertà, e dalla sua insostituibile
dimensione di pluralità di apporti e di linfe per il progresso civile; quando
sia saldo il sentimento del diritto di ciascuno a farsi portatore di soluzioni
alternative e più rispondenti, dove potrebbe poggiare il “j’accuse” contro gli
innovatori, come potrebbe sostenersi un diritto costituito e inamovibile al tabù
dialettico sul metodo democratico di gestione del consenso, della
partecipazione, del potere?
Ancora
diciamo: si vuol difendere il governo di popolo o il governo della
maggioranza?
Ma
allora in che posizione poniamo tutti i precursori di un ordine anticipatore di
conquiste ideali e concrete e quanti si fecero interpreti di un sentimento degli
uomini a mutare “non percepito” dalle “maggioranze” del
tempo?
Quanti
degli stessi eroi, anticipatori, pensatori, politici, celebrati dalla
tradizione culturale democratica dovrebbero essere sconfessati e rinnegati
dalla cronaca delle “maggioranze” dell'oggi?
O
perché Cristo, come profeta di una rivoluzione dell'esistenza si ebbe in
compenso la croce, coloro che si fanno assertori convinti di necessarie
rivoluzioni esistenziali, debbono tutti attendersi la corona di spine e i
chiodi e le catene? Sarebbe un pur affascinante accostamento, di grande
prestigio per le vittime. Uscendo di retorica, vogliamo soltanto, e più
modestamente, affermare che un diritto conculcato può anche essere messo in
quarantena dialettica, ma esso esplode e riprende la sua marcia offrendo al
pensiero respinto nuovi spazi e nuove occasioni.
Ed
eccoci così alle proposte di “grandi” riforme costituzionali, allo svilupparsi
del dialogo sul “sistema” e sui correttivi. C'è in questi spazi l'accenno a
motivi cui occorre stabilire valvole di sfogo, ma siamo lontani dalla
“percezione” e più ancora dalla “volontà” di affrontare la matrice della crisi
esistenziale del nostro tempo.
La
crisi dunque è crisi di formazione del pensiero, è crisi dell'uomo inteso quale
fonte creativa ed apporto autonomo per la società; quindi crisi di
partecipazione e di consenso.
L'uomo
non giunge alle istituzioni, non ne vive e non vi si riconosce più. Il problema
non è soltanto politico, esso si fa esistenziale nell'intrecciarsi dei rapporti
e delle interdipendenze che lo sviluppo tecnologico cui si accennava hanno
determinato.
Il
potere oggi invade la sfera globale degli interessi dell'uomo e vi si installa
come elemento estraneo e quindi turbativo del suo equilibrio. La rabbia che
monta contro i vertici politici, colpiti unitariamente dalla crisi di rigetto
del cittadino e dell'uomo (fenomeno non soltanto italiano) ha origine proprio
dalla utilizzazione degli strumenti tecnologici per fini di potere. Il metodo di
gestione del potere, la necessità di un consenso numerico e non qualitativo, il
luogo stesso di formazione ditale consenso, cioè un confuso arengo di folle
eterogenee, finiscono per determinare una partecipazione episodica e
sostanzialmente priva di apporti autonomi reali. Il metodo e le istituzioni ad
ispirazione democratica se anche garantiscono una sfera di libertà di scelte
innegabile (da qui la difesa accanita e convinta di molti intellettuali)
lasciano tuttavia il destinatario della dialettica democratica, cioè l'uomo, in
posizione subalterna di fronte alle decisioni da assumere, al consenso da
offrire e decidere, al grado di partecipazione possibile.
La
conquista delle maggioranze e di un loro consenso di massima è processo cui
soltanto con strumenti e tecniche perfezionatissime e costosissime si può
pervenire.
La
nostra critica al metodo di gestione democratico del potere è indirizzata
proprio al modo e al momento “formativo” del pensiero e della
partecipazione.
La
prospettiva nella quale ci poniamo è quella dell'uomo e dei suoi valori e ci
chiediamo quando e dove questo (l'uomo) e quelli (i suoi valori) vengono
esaltati e valorizzati dalle attuali forme istituzionali.
Ci
chiediamo il perché dell'accusa di vocazione a regimi non liberi per coloro che
sognano spazi più ampi di libertà e di apporti creativi per l'uomo del nostro
tempo. Ci interroghiamo sulla natura autentica delle forze che “tanto” hanno
amato democraticamente la libertà in questi decenni da gestirne le proiezioni
attraverso le forme di un potere che non può più ignorare i suoi frutti: la
crisi dell'uomo e dei suoi valori resa manifesta attraverso il dilagare delle
filosofie del denaro e dell'arricchimento, l'eclissi dei sentimenti spirituali
di ogni tipo, l'appiattimento delle vocazioni, delle capacità, delle competenze
operato in nome di una esaltazione della massa che strappa all'uomo la sua
personalità restituendogli, in compenso, soltanto un generico diritto a dire “mi
fanno male”.
Ora
che questa crisi di cui tutti abbiamo percezione precisa, di cui tutti, in
fondo, sentiamo la vera natura di disagio esistenziale, possa essere risolta in
un contesto che non faccia preliminarmente giustizia delle sottrazioni
decisionali operate a danno dell'uomo è veramente assurdo,
illusorio.
L'uomo
ha bisogno di ritrovare coscienza di se stesso attraverso una ricarica di
fiducia nelle sue possibilità creative, di ricerca, di analisi, di intervento,
di soluzioni. Questa fiducia non gli è certo restituita dal modo con cui la
società di oggi è organizzata.
Il
momento essenziale in cui l'uomo “può decidere di se stesso e del suo futuro”,
nelle società organizzate e autenticamente libere, è quello in cui l'uomo “può
partecipare” del grande dibattito civile della costruzione politica, che è poi
scelta conseguente di cultura, di esistenza, di rapporti, di economia. Ebbene, o
questo momento viene organizzato in modo tale da trasferirlo effettivamente in
una continuità di apporti e partecipazioni, nel cervello, nella coscienza,
nell'amore, nel lavoro dell'uomo, o l'uomo stesso, di quel momento, finché si
caratterizzi invece con l'attuale sterilità di una presenza soltanto formale,
si sentirà schiavo e finirà per ribellarsi, non fosse altro, come sta
avvenendo, con l'apatia, il disinteresse, lo scetticismo.
Vi
è bisogno di restituire all'uomo la sovranità oggi sottrattagli da istituzioni
non più rispondenti. Questo è il vero problema.
La
resistenza delle classi dirigenti di oggi, che si sono cristallizzate intorno al
potere, ad operare tale restituzione è la vera ragione della
crisi.
*
* *
La
nostra critica afferma dunque la libertà ed è solo in nome di essa che accusa la
gestione democratica del potere di furto di sovranità, di consenso, di
partecipazione, ai danni dell'uomo.
Non
possiamo accettare la risposta abituale che viene opposta alle critiche alla
democrazia: il popolo può sempre mutare direzione di scelte, la sovranità è
nelle sue mani attraverso il momento elettorale. Questo è vero soltanto in
dimensione formale.
Il
momento elettorale, infatti, è il risultato di anni di formazione del pensiero,
anni che l'uomo “subisce”, a causa della impossibilità di accedere come entità e
valore autonomo alle tecniche ed agli strumenti tecnologici attraverso cui il
pensiero stesso si “informa” e si “forma”. Le istituzioni dei nostri tempi, la
struttura organizzata della società, non riescono a trasformare l'uomo in attore
del pensiero, lo collocano in una falsa dimensione di comparsa nella grande
recita della “pubblica opinione”.
Sostanzialmente
l'uomo rimane oggetto, destinatario, molte volte vittima.
La
grande libertà che noi rivendichiamo è quella di propugnare un'epoca diversa in
cui l'uomo torni attore della storia e del pensiero in assoluta autonomia di
sovranità, quindi di strutture, di istituzioni; sovranità, strutture,
istituzioni, autonomia che devono poterlo direttamente
rappresentare.
Per questo abbiamo bisogno
di poter discutere liberamente di tutto, di sgomberare dialetticamente il
terreno da quelli che noi chiamiamo i tabù istituzionali e culturali, non per
vandalica “prepotenza” ideologica, ma perché non vogliamo essere condizionati
nella ricerca. La nostra è esigenza dialettica, è necessità creativa, è volontà
di risolvere in noi la crisi e di contribuire a chiarirne i motivi a quanti non
li abbiano ancora chiari. È un'esigenza di libertà del
pensiero che non può passare, in quanto tale, attraverso nessuna strada
obbligata.
Altro
certamente è il discorso della necessità di convivere civilmente entro le
istituzioni. Questo ci distingue dallo sterile ribellismo viscerale che non
tiene conto dell'esigenza di “esistere” in consorzi umani comunque, bene o male,
organizzati. È
nostro
stesso interesse di prospettiva che i rapporti “entro le istituzioni” funzionino
civilmente perché potrebbero “domani” essere altre istituzioni, di noi più
partecipi, ad essere discusse ed esaminate. Tuttavia, se la convivenza civile
“entro le istituzioni” è un'esigenza che riconosciamo, essa non può e non deve
essere confusa con “l'essere e l'operare ideologicamente entro di
esse”.
Anche
questa è una delle confusioni costruite ad arte per confondere idee e
situazioni.
Tutta
l'artificiosa, ricorrente discussione sulle cosiddette “riforme costituzionali”
ha origine proprio da qui. Noi osserviamo che se di riforme costituzionali si
parla “ideologicamente” entro il sistema, nulla del sistema stesso sarà mai
rinnovato, perché solo quando l'ideologia, la proposta rinnovatrice, anche la
sola ricerca, potranno spaziare “ideologicamente” senza preoccupazione alcuna
del tabù democratico sulle forme di gestione del potere, soltanto allora potrà
iniziare l'epoca delle trasformazioni esistenziali necessarie ad interpretare le
esigenze di vita del nostro tempo.
Ripetiamo
che questa “libertà” rivendicata in forma e dimensione globale sul piano
ideologico, non esige e non vuole contrasti con la necessaria convivenza civile
nell'ambito delle leggi e degli istituti costituiti.
Affermare
il contrario significa soltanto voler diffondere il timore della dialettica
libera, promuovere la confusione delle posizioni politiche, coprire le manovre
trasformiste dei falsi rinnovatori, a questo assoldati dal
potere.
Una
responsabilità gravissima dunque, suscettibile di generare collere inconsulte e
la disperazione della violenza.
Bisogna
dunque aprire un discorso ampio e generale su nuove possibili forme di
creatività per l'uomo, individuando le sue attese di sedi, metodi, fonti
alternative per la formazione del pensiero. Occorre garantirgli la
partecipazione restituendogli il gusto della validità e dell'efficacia di
questa. È necessario ricollegare il rapporto tra uomini al di fuori di schemi
obbligati da accettare o respingere al completo; gli uomini vogliono
rincontrarsi e discutere, liberi di farlo “dove”, “come” e “con chi”
preferiscono giacché non desiderano casacche burocratiche e conformiste, ma
approfondimenti ispirati alla conoscenza intelligente e
informata.
Dobbiamo insomma portare
le istituzioni all'uomo, traslando in esso il processo creativo della vita,
dell'esistenza, delle scelte, del consenso, dell'amicizia e della
collaborazione, della guida responsabile e qualificata alle conquiste di
civiltà.
Valori
e contenuti questi in perenne ansia di nuova scoperta. Un'ansia certo non
fotografabile sulle pagine contemporanee, inerti relatrici di un modo statico di
concepire la vita.
Contribuire
a cercare e chiarire tutto ciò è quanto cercheremo di fare nei capitoli che
seguiranno.
Giacomo
De Sario
Ordine
umano 2
Massa e raccolta del consenso – Incapacità delle masse di esprimersi autonomamente – Impossibilità di giungere, attraverso di esse, ad effettive alternanze di potere – Esigenza di nuovi metodi di gestione del potere – Necessità del ricorso a rappresentanze competenti ed responsabili.
Proseguire in un'analisi globale degli elementi di crisi della nostra società contemporanea significa completare l'esatta e definita indicazione delle cause primarie che tale crisi determinano con la sistematica elencazione dei falsi valori sui quali la società contemporanea tenta di accreditare una propria ragione d'essere.
Tra i falsi valori del tempo presente non vi è dubbio doversi assegnare un ruolo essenziale a quello comunemente definito con il termine massa cui segue una costellazione di valori aggiunti o derivati indicati con i termini popolare, maggioranza, collettivo ed altri.
La massa, nel linguaggio degli esegeti del potere, cosiddetto progressista e democratico, rappresenta l'argilla con la quale modellare gli spazi e le figure istituzionali necessarie alla consumazione della truffa sul consenso e la libertà.
Il potere, infatti, sbandiera oggi la sua rispondenza alle volontà, ai diritti, alle esigenze delle masse. L'essenza di tale potere nasce dunque laddove si inizia la grande confusione dei termini e quindi, in altre parole, laddove, nulla essendo precisato e precisabile, l'arbitrio e l'imbonimento la fanno da padroni assoluti.
Ci siamo già occupati della confusione dei concetti di libertà e democrazia, ora, sembra necessario occuparci della pretestuosa coincidenza che si vorrebbe dimostrata tra i concetti di uomo e massa.
Demistificare tutto l'artificioso baraccone culturale edificato intorno al concetto di massa diventa essenziale ove si rifletta che è proprio attraverso i contenuti ditale baraccone che si muove il carosello giustificativo dei gestori del potere e si articola la cosiddetta morale della maggioranza che è invocata dalla gestione democratica.
Dicono gli esegeti ditale gestione «Il nostro è governo perfetto che esalta le libere opinioni, il metodo della perfettibilità attraverso la logica delle alternanze, la giustizia che si afferma e cammina attraverso la spinta delle masse sovrane, uniche depositarie del potere. L'uomo è salvo perché noi lo tuteliamo ».
Questa sintesi di affermazioni, in cui un po' tutti i miti ed i sogni della gente vengono raggruppati e sollecitati, rappresenta l'autentica palude entro cui si disperde e si affonda la verità, entro cui si sfumano concetti precisi che dalla verità stessa discendono e si annebbiano gli interrogativi che la coscienza civile dell'uomo vorrebbe sentire almeno onorati di una risposta.
Cerchiamo di esaminare una per una le affermazioni degli esegeti della gestione democratica.
«Le libere opinioni».
Le libere opinioni di chi? Una risposta coerente con il contenuto del concetto di libertà che affiora nell'espressione vorrebbe che si trattasse delle opinioni di ciascuno dei componenti di un qualche consesso preso in esame, espresse, illustrate, confrontate, sottoposte a giudizio. E questo che avviene nell'ambito della dialettica di massa? Le maggioranze sono formate attraverso lo sviluppo di un dibattito reale, definito, tra uomini di ceto, esperienza, cultura, informazione comuni o non, piuttosto, attraverso un'offerta discorsiva elaborata antecedentemente in sede ristretta di fronte alla quale un si od un no rappresentano il massimo della partecipazione consentita?
In quale momento dovrebbe avvenire l'incontro e la saldatura tra l'uomo e la massa? Dove questa indefinita area anagrafica può cessare di rimanere indefinita convergendo con il concreto esprimersi concettuale del singolo uomo, per diventare responsabilità di un'idea espressa ed illustrata, riferibile ad una ben individuata coscienza pensante, in diritto di pretendere che dell'idea stessa venga affrontata una analisi ed in dovere di prestarne personalmente testimonianza?
Come si articola al suo interno una massa umana?
Essa è per sua natura e vocazione entità indefinita e (volutamente) indefinibile giacché al suo interno si agitano sogni e idealità, istanze concrete, interessi, moralità elevate e sensibili, cinismi e utilitarismo spregiudicati, sentimenti e passioni insomma mescolati e agitati insieme senza discernimento ed equilibrio e soprattutto senza capacità di espressione e di prospettiva ordinate a fini precisi.
La massa, come entità di raccolta delle varie individualità pone necessariamente il problema dello sviluppo delle proprie forze dinamiche. Chi promuove e dirige le manifestazioni di energia sprigionate al suo interno? Chi determina la raccolta di opinioni su temi specifici, configurando l'indirizzo delle scelte, la gradualità delle analisi, la concretezza dei suggerimenti?
Non è difficile pervenire all'immagine di un grosso carrozzone nel cui interno il bagaglio potrà essere al tempo stesso prezioso o futile, fecondo o sterile, ma comunque, in ogni caso, assolutamente statico senza l'intervento di solide forze trainanti.
Non siamo dunque già alla percezione dei motivi chiarificatori del perché all'interno delle masse, i singoli componenti, se presi in considerazione come insieme pensante, si trovano sistematicamente nell'impossibilità di affermare opinioni pur largamente diffuse?
Raffrontiamo, per esempio, questo nostro discorso alla situazione italiana di questi anni. I partiti politici, le classi dirigenti, i centri di condizionamento economico, sono da tempo contestati e psicologicamente rifiutati dal giudizio dei cittadini singolarmente considerati, ma quando si passa ad un giudizio a livello di massa elettorale noi assistiamo al fenomeno della inamovibilità dei gruppi di vertice.
Ed è chiaro che questo avviene perché nessuna forza trainante costituita, a livello di gestione attuale del potere, partiti, sindacati, centri economici, ha interesse a porre in essere le energie per una sostituzione di quei vertici dei quali esse forze sono parte essenziale e caratterizzante.
Sta di fatto che ciò che affermiamo è tanto vero e verificabile che assistiamo ad un fenomeno in dimensione crescente, quello del voto a rifiuto, cioè la scheda bianca o l'astensione.
La volontà del rifiuto esiste, si manifesta, ma poiché si esprime a livello di massa elettorale non riesce a darsi ordine e consistenza. A causa dell'accennato problema della carenza di forze trainanti ogni istanza di effettivo rinnovamento viene soffocata, deformata, presentata in modo distorto all'opinione pubblica, resa sterile a livello istituzionale, e quindi praticamente prima scoraggiata e poi riassorbita nell'ambito del sistema politico vigente.
Ecco le connessioni tra le varie componenti della crisi del nostro tempo, ecco la globalità delle necessarie analisi da noi sostenute nel precedente capitolo, quando affermavamo che la crisi non può essere settorializzata e definita per argomenti vari, ma deve essere innanzitutto compresa nella sua totalità di carenze ed interdipendenze.
Ecco la ragione del nostro rivendicare una necessaria, piena apertura dialettica, sgomberata da zone tabù entro le quali sia consentito intimare blocchi culturali e intellettivi per dirottare o addirittura impedire le necessarie analisi.
Ancora una volta dobbiamo ribadire che nulla ci muove ad un furore iconoclasta contro concetti ed istituti; e nemmeno è presente in noi la tentazione di aprioristiche sconfessioni di concetti e istituti sol perché appartenenti ad un costituito formale che ci trova dissenzienti. Ciò che muove la nostra indagine ed il nostro lavoro è la necessità di individuare la ragione della paralisi delle volontà dinamiche dell'uomo e del cittadino per verificare se qualcosa, idea o istituto, provochi quei fenomeni di «corto circuito» sociale cui da anni assistiamo.
Soltanto se si potrà pervenire all'individuazione delle ragioni del blocco dinamico esse potranno essere rimosse e soltanto allora potremo valutare la misura del guasto e la responsabilità di idee, istituti, classi dirigenti, nel determinarlo.
Libertà totale, dunque, nell'analisi.
Istanza che non possiamo che riconfermare e ribadire ogni volta che una qualche connessione ne riproponga l'esigenza. Differenza dunque tra concetto di libertà e gestione del potere, la precisare e pretendere ogni volta che un'assurda identificazione tra valori di fondo e realtà politiche contingenti pretendesse di porre mordacchie cinture di conformismo alla mente ed alla coscienza.
Si è parlato di una perfettibilità del sistema di gestione democratico del potere a causa delle alternanze possibili, nell'ambito del sistema stesso. Affermazione questa, del potere, formalmente ineccepibile. È vero, le alternanze sono istituzionalmente possibili, e va detto, a testimonianza della nostra buona fede dialettica, che effettivamente tali alternanze si sono verificate in alcuni paesi retti a gestione democratica del potere e che nulla impedirebbe, sempre stando alla regola istituzionale, che anche in Italia l'alternanza avesse a verificarsi. Ma ... Ecco che c'è un ma non risolto negli altri e nel nostro Paese, e cioè quello di un'alternanza minacciata da possibili irreversibilità del potere, una volta che questo sia conquistato da forze non credenti nella libertà, e quello ancora più grave e macroscopico del rapporto da definire tra gestione politica ed economica da un lato e gestione morale e intellettiva dall'altro.
Il metodo di gestione attuale del potere può giungere a gestire (sino ad un certo punto) il cittadino come realtà politico-civile, ma come tale metodo potrà gestire l'uomo nella sua integralità dinamica ed armonizzarne la saldatura con lo stato e gli istituti nei cicli di trapasso e trasformazione della società?
Il problema si concretizza in questo interrogativo.
Siamo costretti a concepire la rivoluzione quale sbocco ineluttabile del profilarsi di nuove concezioni esistenziali o possiamo più civilmente organizzare nello Stato una società non bloccata o bloccabile da pretese inamovibilità culturali e ideologiche?
Perché delle due l'una: o lo Stato configura i suoi componenti a dimensione umana globale, ed allora deve prepararsi a dare sfogo costruttivo, civile, tollerante e ordinato a ciascun fermento che nella giusta sede abbia a nascere in sensibile recezione di trasformazioni di civiltà; oppure lo Stato si articola su cittadini formalmente liberi di accettare e discutere le linee di gestione del costituito, ma sostanzialmente impediti a gustare e vivere la civiltà in movimento, ed allora esso lavora a creare le fondamenta ricorrenti di violenze e sovversioni, tanto più dolorose quanto più sempre coincidenti con i fermenti generazionali e dell'intelligenza creativa, avanguardie costanti della civiltà in moto di trasformazione.
Per lo Stato, riuscire a coincidere con la gestione dell'uomo, significa, a nostro avviso, riuscire a non lacerare mai il suo tessuto sociale posto invece in crisi, spesso, nonostante la migliore e più oculata gestione del cittadino. Significa non trovarsi mai spiazzato nei confronti della cultura, della scienza, dell'intelligenza, ma, al contrario, catturarne la immensa carica fermentatrice, la spinta alla creatività civile ed umana.
Possiamo negare la solitudine degli antesignani delle trasformazioni e la sofferenza civile, quando non fisica, sino al sacrificio della vita od alla privazione della libertà, di coloro che recepirono in «avanguardia» i tempi, i valori, gli istituti, le culture nuove verso cui, successivamente, la totalità ebbe poi a convergere?
Quanto grave e pesante è stato il prezzo di ritardi nella comprensione e nella intuizione di trasformazioni necessarie e giuste da parte di «maggioranze» del potere e quanto di questi guasti è dovuto alla impossibilità di ascoltare e dibattere, nell'ambito dello Stato, un messaggio anticipatore, la cui validità avrebbe potuto affermarsi sol che istituti, al momento inadeguati e quindi non competenti, non avessero rifiutato o insabbiato il colloquio e l'analisi?
Quante scelte di politica e di economia hanno drammaticamente risentito della assenza di rappresentanze competenti e responsabili ad operare le scelte stesse?
Questo insieme di considerazioni ci porta a dubitare in modo assoluto della realtà delle alternanze e della loro possibilità di operare un intervento autenticamente correttivo nell'ambito del sistema.
L'alternanza non significa saldatura dell'uomo con lo Stato, ma significa soltanto cambio della guardia nella gestione di un medesimo costituito politico, significa piccolo cabotaggio di interessi e spesso compromesso voluto e organizzato per distogliere e diminuire la pressione umana, che è realtà viva e dinamica, nei confronti dello staticismo burocratico, che è realtà conformista e conservatrice.
Se volessimo un esempio plateale di questo assurdo basterebbe, nella cronaca d'oggi, guardare alla logica conservatrice della proposta politica di un «compromesso storico» tra cattolici e comunisti che altro tipo di realtà non riesce a porre in essere che quella di un accordo, peraltro provvisorio e colmo di sostanziali riserve mentali, di conservazione locale del potere, nella logica internazionale del costituito di potenza e di arbitrio derivante dall'accordo di Yalta tra sovietici e americani.
L'alternanza quando nasce da una autentica esigenza di grande respiro di mettere in crisi gli schemi conservatori, e affronta i temi della grande politica e della grande economia, genera sempre da parte del potere la truffa dei compromessi occulti o manifesti in funzione di argine ritardante e soffoca sempre la libertà e l'indipendenza che sono i sentimenti di uomini globali, cioè di quei cittadini non istituzionalizzati, non asserviti ad interessi minori, ma fermi, coscienti, responsabili assertori di una consistenza morale ed etica della dimensione e dei fini dello Stato e dell'uomo al suo interno.
Ed eccoci infine al problema delle masse, intese quale elemento necessario alle conquiste di giustizia.
Non vi è dubbio che all'interno delle masse uno dei sentimenti più diffuso e generatore di maggior fascino emotivo sia quello della necessità sociale del miglioramento economico, ma a nostro giudizio il problema va posto, anche in questa sede, in termini di estrema chiarezza.
La giustizia e la socialità che avanzano con le masse sono di natura tipicamente materialistica, contingente, e soprattutto classista. Esprimono cioè interessi di settore e di ambiente legati al contingente del potere anziché reali istanze di prospettiva verso soluzioni definitive e reali del problema della giustizia economica.
Ed è proprio questa la ragione della predilezione marxista nei confronti del concetto e della realtà della massa.
Il marxismo necessita, per il successo della sua predicazione, di spazi umani caratterizzati da bisogni d'insieme, materializzabili, in grado di suscitare il tipico fascino confuso delle parole d'ordine che sembrano dire tutto, lasciando poi nella realtà completamente spoglio di contenuti reali l'involucro umano delle singole personalità.
La giustizia a livello di massa non tiene alcun conto dei bisogni di spiritualità che l'accompagnano nel rapporto con l'uomo singolo, e che andrebbero modellati sui contenuti della sua stessa personalità.
Il marxismo ha compreso che l'uomo non si porrà mai contro la dialettica di massa per non apparire egoista ed insensibile. L'uomo nella logica di massa abdica al suo ruolo creativo in nome di una esigenza collettiva che nella realtà nessuno ha però controllato se effettivamente corrisponda ad attese ed esigenze di civiltà. Le esigenze collettive, appunto perché materializzabili, sono strumenti condizionabili da parte del potere che nei loro confronti può usare con successo il metodo del bastone e della carota ricorrendo, quando sia necessario, ad obbiettivi pretestuosi dirottando impegni e sensibilità.
In realtà la storia di quest'ultimo secolo testimonia che il terreno più fertile al germogliare della pianta marxista risiede proprio nelle dottrine che accettano di innalzare le insegne della massa, svilendo l'umano e la singola personalità creativa. Al contrario, ovunque la concezione di una superiore destinazione dei fini della società e dello Stato si afferma a circoscrivere ed ordinare le vocazioni confuse della massa, là si esaltano i valori dell'uomo e della libertà. Tali valori trovano nella dimensione ideale dei fini unitari dello Stato la migliore collocazione, talché non è assurdo affermare che, tanto più vasta è l'area delle prospettive morali e spirituali dello Stato, tanto maggiori divengono l'autodisciplina ed il rispetto della legge da parte dell'uomo che «sente» la propria crescita creativa, il senso della propria attiva partecipazione e responsabilità nel progetto «morale» dello Stato, che proprio perché tale accoglie l'espressione migliore dell'umano che in esso coincide. Possiamo individuare in questi accenni l'embrione di una dottrina dello Stato-Uomo da scoprire e coordinare in un lavoro collegiale? Noi pensiamo di si.
Intanto ci preme constatare che la spiritualità dei fini di una società e di uno stato determina una crescita morale dei cittadini stessi e che, come testimoniano i fatti, al contrario, la piattaforma economicistica o materialistica di una società conduce alle più gravi degenerazioni del costume, dei fini, dei metodi.
È certo che quanto di bello, di creativo, di esaltante e civile ci è dato di conoscere nella Storia nasce dalla solitudine dell'uomo, dalla sua capacità di sensibilizzazione, di contemplazione, di meditazione.
Ebbene ci chiediamo come possa l'uomo, condotto a realizzarsi nei fini e nei metodi della realtà di massa, impegnarsi e riconoscersi in quel particolare momento creativo rappresentato dalla solitudine emotiva e sensibile. E ci chiediamo soprattutto come possa una società rinunziare ad organizzare al suo interno forme opportune ed adatte a recepire la creatività umana in dimensione «motrice» e quegli apporti di «solitudine creativa» delle singole personalità da esaltare poi coralmente in dimensione di finalità dello stato.
Sarebbe come esiliare l'intelligenza, l'arte, la poesia, la solidarietà, la conquista creativa dello spirito, concedendo libero asilo permanente ai suoi contrapposti: efficientismo, propaganda, retorica, collettivismo, tecnicismo consumista, tutto quanto, insomma, caratterizza concetto e realtà di massa.
Guardiamo alla forza testimoniante degli esempi.
L'uomo Cristo predica il meraviglioso messaggio della cristianità nel quale gli uomini si sentono esaltati e realizzati, il ricco a fianco dell'umile; a livello di massa nasce lo spirito del potere dei conclave e dei papi che si esprime nell'inquisizione e nei roghi. L'uomo dove è finito?
La predicazione dei poeti della socialità esprime uomini come Andrea Costa, Turati, Gramsci, Labriola; la sua proiezione di massa ci conduce ai Mancini, ai Tanassi, ai Lombardi, ai De Martino, ai Berlinguer.
Dove sono finite le adamantine coscienze che dividevano personalmente con gli operai i rischi e le privazioni dei grandi scioperi di trasformazione?
Vogliamo ricordare il bolscevismo a livello di massa incarnato da Stalin?
Vogliamo guardare l'involuzione castrista? Il lento, ma costante eclisse del peronismo? La reazione antifalangista di Franco?
Sempre, anche se sorti con esaltanti premesse, i regimi che hanno abbandonato i valori morali dell'uomo, senza esclusione di schieramento, hanno generato l'involuzione del potere e l'avvento della retorica di massa.
Ma è dell'ultima argomentazione che dobbiamo ora occuparci: la massa a livello elettorale come depositaria del potere.
Certo le «masse elettorali» scelgono ed eleggono.
Che cosa?
Scelgono partiti le cui politiche vengono sistematicamente sconfessate dalle loro stesse ristrette oligarchie di vertice.
Partiti ideologicamente ancorati a «verità» precostituite e inamovibili, senza alcuna considerazione e sensibilità verso le trasformazioni in atto nella società.
Partiti nel cui ambito ci si afferma non per autonome scelte di capacità, ma per logica di cosche e di camorra; nei quali, come già abbiamo sostenuto e dimostrato, le opinioni e le verità si costruiscono soltanto attraverso la disponibilità acquisita degli strumenti di condizionamento.
Ma non è ancora tutto.
Scelgono quali uomini? Quelli affermati delle professioni, delle arti, della costante testimonianza di valori reali recati alla comunità?
Chi potrebbe rispondere positivamente a tale interrogativo?
Esiste l'esempio di un qualche uomo di valore affermatosi nella comunità e che ad essa abbia recato proficuo servizio, che per responsabile ed autonoma scelta sia stato chiamato a sostituire il mestierante di partito?
Possiamo riuscire, con indicazioni operate all'interno della logica delle «masse» elettorali, a rabberciare gli strappi di un tessuto sociale che si lacera sempre di più? Possiamo correggere qualche disfunzione dello Stato, dei suoi istituti, delle sue classi dirigenti? Possiamo arginare gli scandali e il malcostume, le sordide macchinazioni del potere, l'antiumana logica della violenza da qualsiasi direttrice si esprima? Possiamo un giorno svegliarci e scrivere sul muro di casa nostra «da oggi vogliamo cambiare, sognare una società ed una patria pulita, diversa, degna di essere custodita e difesa nella nostra coscienza di uomini» senza che una smorfia amara di commiserazione salga sul viso dei nostri vicini quasi a deplorare tanta mitomania?
E allora scegliamo cosa? Le masse depositarie del potere; come, dove, quando, attraverso quali istituti?
Siamo davanti ad una seria alternativa. O ci rendiamo conto di dover vivere e soffrire la grande vigilia di una trasformazione esistenziale globale, mettendoci a disposizione di un grande impegno al dibattito che segua la preparazione di un nostro metodo di rilancio dell'uomo e dei suoi valori; o rischiamo di perderci nell'inutile retorica protestataria che, in fondo, è la migliore alleata della conservazione del costituito, come dimostrano, sistematicamente, tutti i riflussi contestativi di questi ultimi decenni.
Certo non è compito facile, e non bisogna cadere nella tentazione di farsi prendere la mano dalla inutile polemica delle colpe all'interno del sistema, delle responsabilità da attribuire a quanti hanno creduto di poter svolgere attività utile e positiva limitandosi a colpire dialetticamente gli obiettivi sin troppo facili del cattivo governo della cosa pubblica.
Il problema è assai più ampio.
Occorre disancorare l'energia dinamica dell'uomo oggi imbracata e distolta dai veri obbiettivi che sono di struttura mentale, di risposta esistenziale agli interrogativi di un mondo talmente mutato da lacerare i rapporti ritenuti più solidi e cioè quelli originati dalla stessa genetica (nel rapporto tra padri e figli) e dall'amore (nella presunta dialettica alternativa tra uomo e donna).
Non perpetrarsi di lacerazioni si impongono, ma riunificazioni di intenti, riscoperta di finalità, scelte di vocazioni, ruolo delle responsabilità, giacché abbiamo davanti non l'arena di un circo entro cui dare spettacolo ed ottenere l'applauso, ma un grande deserto nel quale o imprimeremo l'orma dell'uomo in difficile ma certa avanzata o sarà la grande, mortale sete per tutti.
Giacomo De Sano
http://www.uomolibero.com/archivio/2/2B.htm
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