Frankpro
Riporto qui di seguito alcuni brani tratti dal
libro Gli Indiani d'America, di Wilcomb E. Washburn, editori Riuniti,
sulla personalità dei pellerossa, capitolo due.
Questo testo è senza dubbio il migliore che ho
mai letto sui cosiddetti “native americans”, i quali nonostante l’appellativo
così netto - fatto che avrebbe dovuto spingere gli ospiti per lo meno a
rispettarli - sono stati invece oggetto, come ben sappiamo, di ripetute, crudeli
ed ingiustificate decimazioni.
Riporto questi brani sorprendenti - come spero
scoprirete - sia perché in fondo degli indiani a noi mi pare sia giunta un’immagine poco chiara, legata
più che altro a film western - che quasi mai ne hanno saputo tracciare
correttamente dei tratti identitari credibili ed adeguati - sia perché questo degli indiani potrebbe diventare, per chi lo
volesse, un buon argomento di discussione con amici e conoscenti.
Per esempio, per tutte le ragioni indicate da Alan Watt in Scioccare e Sorprendere, comparso negli ultimi post di Anticorpi. Ecco a proposito riportate, tanto per cominciare, alcune sue “buone ragioni”:
Presto il pubblico
sarebbe stato incapace di pensare o ragionare per conto proprio, ciò
sarebbe avvenuto in relazione al tipo di informazione che gli sarebbe stata
fornita,
Tutti quelli che
sono in vita oggi, sono stati stimolati a non pensare.
Il principale strumento della propaganda è fare
in modo di interrompere una conversazione tra le
persone anche in una semplice stanza.
Bisogna tornare
alla comunicazione tra le persone e scovare le prove, perchè la conoscenza è
stata frammentata, dato che la conoscenza è potere.
Un libro da leggere insieme per raccogliere
informazioni basati sui fatti da fornire al pubblico: analizziamo quel testo, le frasi, il contenuto, ecc. e lo
leggiamo in ambito partecipativo. Quella è la partecipazione - vera comunicazione - con
informazioni fornite anche da chi magari ha avuto esperienze dirette (di ciò di
cui si parla).
Buona lettura, e, spero, buona
condivisione.
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Gli indiani adulti
cercavano consapevolmente di evitare i conflitti con i loro simili.
L'atteggiamento tradizionale di dignità e riserbo degli indiani era in
nettissimo contrasto con i modi chiassosi e litigiosi dei bianchi con cui
entrarono in contatto, e sembra che fosse il frutto di un lungo addestramento
che cominciava con l'indulgenza dimostrata dai genitori indiani verso le
mancanze commesse dai figli.
John Heckewelder, missionario moravo del 1700,
spiegò il comportamento degli indiani Delaware in questo modo: «I
genitori preferiscono rimediare al danno che punire i figli, perche pensano che
i figli potranno ricordarsi della punizione ed usarla contro di loro
vendicandosi una volta raggiunta la maturità».
Heckewelder fece osservare che i genitori
indiani non cercavano di imporre la propria autorità con metodi duri e
coercitivi e che «non erano mai usate né la frusta,
né le punizioni, né le minacce per far rispettare gli ordini o per obbligare
all'obbedienza».
L'antropologo Anthony Wallace ha notato che a causa di una
simile educazione era improbabile che gli indiani
si lasciassero guidare dalla «coscienza punitiva necessaria nella società
europea». La cooperazione sociale era il frutto di atteggiamenti ed
azioni che evitavano accortamente di suscitare antagonismi.
Il concetto di un dio irato che puniva i
malvagi non aveva molto significato per un indiano Delaware, cresciuto senza
ricevere alcuna punizione per le sue mancanze: il
suo dio era invece il Grande spirito che reggeva l'ordine naturale.
Individualmente l'indiano Delaware poteva avere
un custode personale, di solito uno spirito
animale che lo proteggeva e che si rivelava nei sogni o nelle
visioni.
Un'esperienza comune ai bambini di molte tribù
era la «ricerca della visione»: alle soglie della pubertà, il ragazzo si isolava
nei boschi o su una montagna per entrare in comunione con gli Spiriti, aspettare
la sua visione, riflettere sui suoi sogni e forse anche per mortificarsi con la
speranza di entrare in rapporto con il soprannaturale, oppure soltanto di
«trovare se stesso».
Questa esperienza
di maturazione, fondata sulla ricerca individuale piuttosto che sugli
insegnamenti della comunità o sull'obbedienza imposta, serviva a rinforzare lo
spirito di libertà ed indipendenza così spesso notato da osservatori
europei tra gli indiani delle foreste dell'est, spirito che veniva inculcato
dagli atteggiamenti permissivi ed indulgenti assunti dai genitori
nell'educazione dei figli.
Wallace ha scritto che tra i Seneca i
bambini «non vivevano tanto in un mondo infantile, quanto piuttosto crescevano
liberamente negli interstizi della cultura adulta».
I bambini imitavano il comportamento degli
adulti, come ad esempio le attività di caccia, e i genitori li osservavano con
indulgenza e sostenevano in silenzio i progressi dei figli. Il comportamento degli Irochesi non era
caratterizzato, al contrario di quello dei bianchi, da punizioni casuali e
severe, da violenti scatti di ira oppure da effusioni di affetto. Wallace
ha fatto notare che questa educazione produceva
«una precoce fiducia in se stessi ed un senso di piacere di fronte alle proprie
responsabilità, al prezzo forse di continue difficoltà nell'affrontare il senso
di dipendenza».
La caratteristica dell'indiano «incontaminato»
notata da molti studiosi era la fedeltà alla parola
data; spesso la parola data all'uomo bianco veniva mantenuta perfino
quando danneggiava gli altri fratelli indiani.
Numerosi esempi stanno ad indicare che
l'indiano aveva maggior conto per l'onore individuale che per l'affinità
razziale. John Heckewelder notò la frequenza con cui i bianchi venivano
avvertiti di un attacco imminente dai loro amici indiani. Heckewelder non era a
conoscenza di nessun caso in cui questa fiducia fosse stata tradita:
«All'orecchio dell'indiano la parola "amico" non ha lo stesso significato vago e
quasi indefinito che ha per noi; non è un'espressione complimentosa ed
esteriore, ma comporta la volontà precisa di aiutare in tutte le occasioni la
persona indicata con quell'appellativo, e rappresenta una minaccia per chi
molesti quella persona [...] ».
Heckewelder nega
l'insinuazione che la amicizia con l'indiano si dovesse acquistare con i regali
e che solo i regali la tenessero in vita. Egli ebbe modo di notare direttamente
che il fatto essenziale era che chiunque volesse
ottenere l'amicizia di un indiano doveva trattarlo con «assoluta parità»: se gli
indiani non dimenticavano i veri amici, nemmeno perdonavano il
disprezzo.
I primi esploratori affermarono spesso che gli
indiani non possedevano né religione né leggi. La mancanza di leggi scritte e la
mancanza degli attributi esteriori propri delle istituzioni religiose e
giuridiche europee contribuirono a creare negli osservatori europei
l'impressione di avere di fronte selvaggi che non capivano le idee di legge,
giustizia e gli altri controlli istituzionali noti agli europei. Naturalmente
era una impressione sbagliata. Così come avevano
una vita religiosa complessa, tutti i gruppi indiani avevano sistemi giuridici
che mostrano una grande varietà e complessità, ed è irrilevante che questi
sistemi non fossero stati messi per iscritto. La tradizione e
l'educazione ricevuta insegnavano all'indiano che cosa ci si aspettava da lui, e
l'indiano ricordava, molto meglio degli europei, i termini dei trattati che
firmava con i bianchi.
«La generosità indiana messa in risalto dalla
maggior parte degli studiosi va vista alla luce della sua utilità funzionale
oltre che alla luce di un concetto astratto di giustizia. Presso popolazioni la
cui sopravvivenza dipende dalla caccia, la
ripartizione dei beni costituisce una necessità vitale. A causa delle
incertezze sulla riuscita della caccia, sulle dimensioni della preda, e a causa
delle difficoltà nel conservare la carne, nelle
società di cacciatori i beni si dividevano, di norma, con liberalità e
generosità. Questa etica era radicata nella società e soltanto pochi
cercavano di ignorarla, anche se esistono alcuni esempi, come il caso degli
eschimesi Copper: quando potevano le donne nascondevano il cibo,
soprattutto d'inverno quando non cucinavano all'aperto.
Nel sottolineare la
generosità degli indiani, non si deve ignorare l'esistenza dell'invidia e
dell'avidità: essere generosi significava aspettarsi di ricevere uguale
generosità nel momento del bisogno. Dagli studi di alcune comunità indiane
risulta che esistevano antagonismi e rancori alimentati dalla convinzione che il
rapporto di generosità reciproca non fosse stato completamente
rispettato.
Tale inadempienza finiva per portare ad un nuovo allineamento dei gruppi sociali all'interno della comunità che prendeva delle misure contro chi non si conformava, arrivando spesso ad emarginarlo.
Tale inadempienza finiva per portare ad un nuovo allineamento dei gruppi sociali all'interno della comunità che prendeva delle misure contro chi non si conformava, arrivando spesso ad emarginarlo.
Le remunerazioni psicologiche accumulate dal
cacciatore fortunato lo compensavano di solito del senso di privazione che
avrebbe altrimenti provato di fronte all'obbligo di dividere la sua preda con
chi aveva avuto minor fortuna o con i membri delle tribù più indigenti. Il
grande cacciatore era tra le persone più ammirate ed onorate dalla comunità. La
preda cacciata era «sua» in senso proprio perché le società indiane di solito
non praticavano il comunismo economico; le regole della società imponevano però
al cacciatore di condividere la sua fortuna e la sua abilità con i membri meno
fortunati e meno abili della comunità.
Il termine spregiativo «Indian giver», cioè colui che dà con una mano e
prende con l'altra, getta luce sulla natura dello scambio tra gli indiani. In una società dove non esiste un'economia di mercato
regolata da misurazioni monetarie, deve prevalere un più informale sistema di
scambio di merci o di servizi in proporzioni all'incirca uguali. In
mancanza di unità di misura precise, esiste una forma più vaga di equivalenza
etica. Se alla mancanza di un'economia di mercato aggiungiamo la distanza che
separa persone che non parlano la stessa lingua, risulta evidente la necessità
di uno scambio «silenzioso» ma equivalente sia eticamente che
economicamente.
Durante i primi contatti tra gli esploratori e
gli indiani della costa, quando tutti temevano di venire imbrogliati, accadeva
spesso che ognuna delle due parti lasciasse una quantità di beni equivalenti che
l'altra parte avrebbe preso successivamente. Questi primi scambi silenziosi,
fatti a distanza, costituiscono il modello meglio adatto a chiarire la
generosità «utilitaristica» degli indiani. Si da
liberamente aspettandosi però di ricevere una quantità equivalente che, una
volta ricevuta, viene valutata sulla base di quanto si è dato in
origine.
Se ne consideriamo il valore psicologico, a
prescindere da quello monetario, lo scambio è soddisfacente. Il senso di
soddisfazione è dovuto non soltanto alla restituzione del valore economico (che
è forse l'elemento meno importante) ma soprattutto alla risposta diplomatica ed
umana.
L'atteggiamento degli indiani verso i beni materiali era
tutt'uno con l'atteggiamento verso la terra (...)
Secondo l'interpretazione di Wallace,
nell'irochese coraggioso, indipendente e sicuro di sé, si nascondeva un
desiderio inconscio di essere accudito, di essere passivo. Questo desiderio
trovava espressione nel rito irochese di «indovinare i sogni», durante il quale un individuo
alludeva appena ai propri sogni durante una riunione, i cui componenti, da parte
loro, cercavano di scoprire il significato dei sogni e di soddisfarne i desideri
latenti.
Wallace fa notare che la tendenza alla
passività, che non era permessa apertamente, emergeva nei sogni che mantenevano
un contenuto manifesto «attivo», ma venivano soddisfatti per mezzo di una
ricezione passiva. Wallace mette in risalto che, proprio come un bambino,
l'individuo che sognava poteva soltanto alludere ai propri desideri reali, che
erano spesso di natura sessuale, finché qualcuno non indovinava quali fossero
questi desideri che venivano poi soddisfatti dal consiglio riunito. In questo
modo la società irochese socializzava il processo attraverso il quale
l'individuo si confrontava con i suoi bisogni e le sue paure più riposte, e
creava un rimedio efficace contro la disorganizzazione individuale e
sociale.
In modo simile le spinte e
le paure inconsce dell'irochese dal piglio sicuro e dall'aspetto taciturno
trovavano sfogo nei rituali della Società delle
facce, i cui membri, nascosti dietro le maschere contorte di figure
mitiche, potevano manifestare atteggiamenti
infantili e proibiti in altre occasioni e, cosi facendo, curare le malattie,
forse di natura psicosomatica, e allontanare la stregoneria. Quando
indossava quella maschera, l'irochese poteva agire come non gli era permesso
fare nella vita di tutti i giorni.*
Con una saggezza inconscia, ha fatto notare Anthony Wallace, «la Società delle facce aveva trovato il modo di dare sfogo «alla rabbia e alla paura, alla libidine e all'odio, all'ambizione senza limiti ed alla abietta passività, alla fredda crudeltà ed al nobile altruismo» senza causare troppe paure nel paziente. Sotto la copertura delle Facce finte gli irochesi potevano indulgere nel loro desiderio di essere passivi, «di essere bambini irresponsabili, esigenti e capricciosi, e di competere con lo stesso Creatore […]»
Con una saggezza inconscia, ha fatto notare Anthony Wallace, «la Società delle facce aveva trovato il modo di dare sfogo «alla rabbia e alla paura, alla libidine e all'odio, all'ambizione senza limiti ed alla abietta passività, alla fredda crudeltà ed al nobile altruismo» senza causare troppe paure nel paziente. Sotto la copertura delle Facce finte gli irochesi potevano indulgere nel loro desiderio di essere passivi, «di essere bambini irresponsabili, esigenti e capricciosi, e di competere con lo stesso Creatore […]»
Wallace è arrivato alla conclusione che gli Irochesi avevano raggiunto intuitivamente un alto
grado di progresso psicologico, arrivando a riconoscere le parti consce ed
inconsce della mente. Conoscevano la grande forza dei desideri inconsci, erano
consapevoli che la frustrazione dì questi desideri poteva causare malattie
mentali e fisiche (psicosomatiche). Avevano capito che questi
desideri venivano espressi in forma simbolica nei sogni e che da solo
l'individuo non riusciva sempre ad interpretare adeguatamente questi sogni.
Avevano notato la distinzione tra il contenuto manifesto e quello latente dei
sogni e per scoprire il significato nascosto impiegavano una tecnica che ricorda
quella delle libere associazioni.
Sapevano anche che il modo migliore per dare
sollievo ai disturbi psichici e psicosomatici era di soddisfare i desideri
repressi, direttamente oppure in maniera simbolica. Sarebbe giusto
affermare che gli Irochesi e le altre culture indiane del XVII e XVIII secolo
possedevano una maggiore comprensione della psicodinamica di quanto non avessero
gli illuminati europei dell'epoca.
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