Il Risorgimento è razzismo antimeridionale
di
Ignazio Coppola
La
questione dei meridionali come razza inferiore e la questione
meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e
similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai
realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed
opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle
celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così
purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le
verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si
continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle
storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla
base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad
esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica
antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei
militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud e la
Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano,
all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che
tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere,
ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il
17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio
inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu
presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della
corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: ” In tutti i modi
la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un
vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro
con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e
capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano
anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati,
con il sapone non si sono mai lavati” . Sembra di risentire il D’Azeglio
di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino
Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla
moglie tra l’altro così scriveva: “ Un paese che bisognerebbe
distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. Ma,
ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il
generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II
inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per
combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a
operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: “Questa è
Africa ! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono
latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel
febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica
città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni
rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli
ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a
chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei
codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “ Le palle dei
miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli
eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di
Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli
compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a
Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza
pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti,
era solito raccomandare di “ non usare misericordia ad alcuno, uccidere,
senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E
dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la
toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire, poi,
del generale Giuseppe Covone, anche lui mandato a reprimere il
brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si
fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi
speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul
posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere
abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere
da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare
il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo
medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio,
in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: ” Nessun
metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è
sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla
barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di
aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali, val bene
ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio
Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “ La popolazione meridionale è
la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi
quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in
Campania, al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore
della spedizione garibaldina in Sicilia: ” Ho bisogno di fermarmi in una
città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non
vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e
voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti
gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche
il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i
documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese
del sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi
abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi, nati per giustificare
la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, che poi furono
elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale
propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giusepe
Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una
impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori
per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a
danno del meridione.
Sui
fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e
sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una
lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: ” La
miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse
popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci- che l’unità
non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del
Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord
era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento
industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura
meridionale”.
L’impoverimento
del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la
ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità
d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica
dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e
colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò
ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale.
Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo
Bombrini prima dell’Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale
degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente,
governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: ”
Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere
e produrre”.
E negli
anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questo sua
spiccata vocazione antimeridionalista, fu artefice di numerose
operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord
soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per
le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle
meridionali. Ma, riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona
sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati
come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre
intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu
un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud
defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate
militarmente. Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera, protagonista
della primavera di Praga, nel suo ” Il libro del riso e dell’oblio”, un
pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle
popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “
Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si
distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. e qualcun
altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa
per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare
quello che è stato.” Ed è proprio quello che è capitato alle
popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato
e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo
visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali.
Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che, al
di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei
meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da
parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo,
Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed
una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica
tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla
gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a
liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito
assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola
positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri
antropologi e criminologi come Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e
Garofalo, propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica,
misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali, teorizzando
l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso, antropologo e
criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità
d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei
meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo
scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità
genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea
razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I
settentrionali, come razza superiore, e i meridionali di stirpe negroide
africana, razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola
lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico,
come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze.
Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al
sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord
su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre
antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie,
vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato,
nel gennaio del 1876, a Castiglione di Sicilia e, quindi, di appartenere
ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, “ L’Italia
barbara contemporanea”, descriveva il Sud come una grande colonia che,
una volta conquistata e sottomessa, era da “civilizzare”. Questa
ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare
le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa- sostiene
ancora Gramsci- in forma capillare dai propagandisti della borghesia
nelle masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si
disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo
sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del
Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei
semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il
Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di
altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per se
incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi,
nel corso degli anni, alla discriminazione razziale nei confronti dei
meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere
cartelli tipo: ” vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. E ancora:
“ non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza
della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che
dura ancora ai nostri giorni.
Come si
può, alla luce di tutto questo, parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o
di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale
ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega
nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente
ancor più non ci si può indignare, da parte di insigni rappresentanti
delle istituzioni, se oggi i meridionali, in occasioni di recenti
manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli.
Questi insigni rappresentanti delle istituzioni, farebbero bene ad
indignarsi per il fatto che a Torino, il 26 novembre 2009, è stato
inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di
reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate,
di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo
veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della
razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due
Italie: quella del Nord, civile e progredita; quella del Sud barbara e
arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e
tramutare questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne in un
luogo di rispetto e raccoglimento, insomma in un sacrario. In Italia,
purtroppo, basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come
sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce
gli italiani. Contenti loro.
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