sabato 24 marzo 2012
Ecco come Gramsci si allontanò dall’ortodossia comunista
di: Matteo Mascia
Antonio Gramsci era consapevole di avere più di qualche nemico tra i ranghi del Partito comunista italiano?
Intorno a questo interrogativo ruota un interessantissimo saggio di Franco Lo Piparo, “I due carceri di Gramsci – La prigione fascista e il labirinto comunista” (Donzelli Editore, pagg. 144, euro 16).
L’Autore, ordinario di filosofia del linguaggio all’Università di Palermo, fornisce una nuova interpretazione delle lettere inviate dal politico sardo durante il lungo periodo di detenzione.
Una rilettura attenta e puntuale influenzata dalle teorie sul linguaggio come punto di partenza per l’analisi di fenomeni non linguistici.
Il leader comunista aveva sicuramente ben chiaro che Mosca, da un certo punto in poi, avesse deciso di non dare troppo peso alla sua vicenda.
Un processo di comprensione iniziato durante il procedimento di fronte al Tribunale speciale.
Fu in quella sede che un magistrato si rivolse all’imputato affermando: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”.
Una frase importantissima ed oscurata per troppo tempo.
Non a caso, Togliatti si “preoccupò” di Gramsci pochi giorni dopo il suo rientro in Italia dall’esilio in Unione Sovietica.
Con un famoso articolo redatto per “L’Unità” nel 1944 il futuro leader del Pci diede il via ad una lunga opera di mistificazione.
L’inizio del processo di canonizzazione del pensatore sardo nell’empireo ufficiale del Partito. L’articolo accredita il falso della morte del giurista di Ales tra le mura del penitenziario.
Una menzogna che ancora oggi viene spesso spacciata come verità storica.
Il teorico della “egemonia culturale” trovò la morte da uomo libero.
Alla data del 27 aprile 1937 erano addirittura scaduti da qualche giorno i termini della libertà condizionale imposta all’ex deputato dopo la sua scarcerazione.
Togliatti alza poi una cortina fumogena sulla sorte dei celebri “Quaderni”, mettendo nero su bianco che questi sarebbero stati trafugati dalla cella la sera stessa della sua morte.
Sintomo di come il lavoro gramsciano sia stato analizzato – e forse alterato – prima della sua diffusione.
Il Pci aveva quindi bisogno di un martire da usare nel dibattito politico successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale.
La figura di Gramsci era perfetta per questo scopo.
In questa creazione a tavolino della “vittima” ebbe forse un ruolo anche l’economista Piero Sraffa, amico intimo dell’avvocato sardo.
Togliatti fu infatti messo nella condizione di conoscere il contenuto dei loro carteggi.
Le lettere indirizzate da Gramsci alla moglie Giulia contengono una serie di riflessioni fondamentali per l’esegesi di un certo approccio al comunismo.
Attitudine molto diversa rispetto a quella manifestata nei mesi della Rivoluzione russa.
Lo Piparo sceglie di intraprendere il suo studio da un indizio ritenuto molto forte.
Esamina con la lente del linguista la lettera di Gramsci alla cognata Tania del 27 febbraio 1933. Testo definito dalla cognata, per via di una scrittura più che allusiva, “un capolavoro di lingua esopica”.
La lettera è un utile grimaldello per scardinare lo scrigno che racchiude la complessa personalità – politica ed umana – del prigioniero.
Entrato in carcere con i gradi di segretario del Partito comunista d’Italia, Gramsci ne uscì convinto che tutta la sua vita era stata “un grande errore, un dirizzone”.
Curiosa questa scelta linguistica del politico sardo.
Una parola desueta per incorniciare un giudizio dirimente nel suo approccio all’ideologia comunista.
Convincimento rintracciabile anche nei Quaderni. Dove emerge un certo liberalismo e persino una velata influenza delle teorie gentiliane.
Tesi e pensieri manifestati con una certa convinzione.
Dopotutto non siamo di fronte alla reazione di un uomo abbandonato dai familiari e dai vecchi compagni di lotta. “Mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo nella mia vita in cui occorre prendere una decisione – scrive Gramsci – Questa decisione è presa. Non si tratta di un colpo di testa, ma della fase terminale di un lungo processo”.
Una maturazione che allontanò definitivamente dai vecchi compagni di lotta.
Verità scomoda ed inconfessabile che avrebbe compromesso il futuro del più grande partito comunista dell’Europa occidentale.
Nota redazionale
Dizionari alla mano il termine “carcere” è un sostantivo maschile al singolare (il carcere) che diventa femminile al plurale: le carceri. Usare “i carceri” può essere un’invenzione, magari come in questo caso di un docente ordinario di filosofia del linguaggio, ma è un errore.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=13959
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