mercoledì 1 febbraio 2012

IL MITO DELLA RESISTENZA



Articolo tratto da: Rinascita.
di Maurizio Barozzi

Queste mie brevi osservazioni storiche non vogliono essere un insulto a quanti, come antifascisti, lottarono e magari perdettero la vita durante la guerra civile in Italia 1943 – ’45, ma vogliono essere delle osservazioni e delle puntualizzazioni storiche alla luce della escursione e interpretazione di quegli avvenimenti.
Trattasi quindi di semplici valutazioni storiche, pur sempre opinabili, ma fatte alla luce di quanto è oggi acquisibile attraverso testimonianze e documentazioni.
Puntualizzazioni che, del resto, prima o poi, saranno inevitabilmente registrate dalla storiografia futura, quella lontana dagli interessi e dalle passioni dei nostri tempi.
Si dà ora il caso che, nonostante ci siano indubbiamente stati dei morti nel campo antifascista, deceduti in sporadiche operazioni di combattimento, ma più che altro fucilati a seguito di arresti o rappresaglie, non si può storicamente avallare l’attestazione di quello che si è voluto far passare come un vero e proprio “mito” di una resistenza del popolo italiano al nazi-fascismo.
Senza contare poi che, nella contabilizzazione dei caduti, quelli di parte antifascista sono decisamente minoritari rispetto a quelli di parte fascista, molti dei quali caduti nel corso dei combattimenti contro gli Alleati invasori o assassinati con tecniche terroristiche, in ottemperanza alle direttive che venivano da Radio Londra e da Mosca, o ancora, vigliaccamente trucidati a guerra finita durante le “radiose giornate”.
“Mito”: nella sua accezione e per quel che qui ci riguarda, dovrebbe essere il racconto delle gesta di dei ed eroi leggendari con cui si spiegano simbolicamente le origini del mondo, di un popolo, di valori culturali, ecc. Nel linguaggio corrente, immagine o leggenda fascinosa creatasi intorno a un personaggio, un fatto, una situazione.
Ora, seppur è indubbio che ci fu una parte minoritaria della popolazione che si riconosceva nei partiti ciellenisti e in qualche modo aveva in odio i tedeschi ed essendo antifascista, era avversa alla Repubblica Sociale Italiana, ed è altresì anche vero che una parte di costoro si organizzarono clandestinamente (partigiani), la Storia non può considerare solo le intenzioni e le azioni superficiali o minimali, ma pretende di registrare fatti concreti e avvenimenti significativi che abbiano lasciato una traccia nelle cronache del tempo.
E nel periodo considerato, da parte antifascista, queste azioni di guerra, concrete e significative, sono così minimali e sporadiche da non poter di certo essere elevate ad un mito di una resistenza o lotta di popolo, tanto più che, mentre la stragrande maggioranza della popolazione non partecipò affatto, neppure sotto l’aspetto ideale a questa “resistenza”, un altra parte ancorché minoritaria, ma ben più numerosa e significativa di quella antifascista, si riconobbe e sostenne la RSI di Mussolini.
Comunque sia, e per fare un esempio, il fatto che il 25 aprile in Milano, alle 9 del mattino, alcuni dirigenti del CLNAI (Marazza, Arpesani, Pertini, Sereni, Valiani) si riunirono clandestinamente nella biblioteca del Collegio dei Salesiani per dichiarare l’insurrezione a Milano e nel resto del Nord Italia, non vuol dire che costoro possano trovare un posto di rilievo nella Storia o che poi ci sia stata una vera insurrezione con tanto di “liberazione” della città (che infatti non ci fu!).
Tante testimonianze, memoriali, diari, articoli, sono stati scritti dal dopoguerra ad oggi, da presunti partecipanti alla Resistenza, raccontando, ricamando, ingigantendo e magnificando quei giorni e quelle gesta, ma la Storia non si lascia suggestionare dai ricordi e dalle ricostruzioni a tavolino, perchè esige il riscontro di cronache effettive, non di intenzioni, riunioni, articoli, volantini o altri lavori sotto traccia.
E neppure può dare rilievo a pompose sigle quali CVL (Corpo volontari della libertà) o CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), se poi queste sigle erano più che altro sulla carta, perchè i loro partecipanti, pochi o tanti che fossero, si guardavano bene dal mostrarsi alla luce del sole, fino a quando le località in cui operavano non erano state sgombrate dal nemico. A cose fatte poi, chiunque poteva vantare, arricchire e condire le sue “eroiche” gesta, consistenti in un tramare da congiurati, nel redigere un articolo o un volantino, nel trasportare ordini o armi, per poi rientrare tranquilli in qualche anonimo rifugio sicuro.
Quindi, se una rondine non fa primavera, altrettanto può dirsi di alcuni sporadici scontri e rare azioni militari che non possono creare un mito attestante una Resistenza del popolo italiano ai tedeschi ed ai fascisti.
A Milano il 25 aprile, ristoranti e negozi erano aperti regolarmente. A metà giornata si udirono delle sirene che dovevano costituire il segnale di uno sciopero generale, fase di inizio dell’insurrezione antifascista. I tram presero a rientrare nei depositi, mentre negli uffici molti se ne andarono a casa. Da alcune fabbriche dislocate in periferia giunsero dei colpi di pistola. Qualche sporadico incidente e nient’altro, tutto qui. Tranquilli e indisturbati i tedeschi, che del resto avevano oramai in tasca un accordo di resa con gli Alleati, stipulato all’insaputa della Rsi, se ne stavano per conto loro, mentre Mussolini in Prefettura a Corso Monforte circolava liberamente e le milizie e unità fasciste erano padroni della situazione.
Anche considerando il famoso "Incontro all'Arcivescovado", dove verso le 16 Mussolini si recò nella speranza di conseguire un indolore passaggio dei poteri, tra una repubblica che incalzata dalle divisioni Alleate si ritirava in armi verso la Valtellina in attesa degli ultimi sviluppi della situazione e le subentranti autorità cielleniste, che inevitabilmente avrebbero dovuto colmare il vuoto di potere, storici seri hanno sorriso al pensiero che, se Mussolini avesse veramente accettato la resa che in quella sede gli venne assurdamente proposta, i ciellenisti non erano neppure in grado di riceverla questa resa, ovvero di occupare i palazzi governativi, garantire l’ordine pubblico e provvedere alla consegna di migliaia di militi fascisti, per mancanza di uomini ed avrebbero quindi dovuto chiedere l’impiego delle stesse forze e polizie della Rsi.
Solo quando i fascisti di Pavolini, furono andati via da Milano ovvero dopo le 5 del mattino del 26 aprile, il CLNAI potè far occupare la Prefettura, sede evacuata la sera precedente da Mussolini e il suo governo, ma lo dovette fare la Guardia di Finanza passata ufficialmente e al momento propizio, dalla parte della Resistenza!
E stiamo parlando di episodi del 25 e 26 aprile, quando secondo la letteratura resistenziale doveva essere in corso la “liberazione” delle città del Nord.
Ovviamente poi, tra il 27 e il 28 aprile, in tutta sicurezza, in paesi e città oramai sgombri di fascisti e con i tedeschi ritiratisi, i banchetti di arruolamento di "partigiani dell'ultim'ora" si riempirono di iscrizioni (spesso tornate poi utili per una pensioncina o un riconoscimento futuro). Solo allora si videro per strada gruppi di partigiani armati di tutto punto che la fecero da padroni, fino a quando le amministrazioni Alleate provvidero a farsi riconsegnare le armi che gli avevano fornito.
E, sempre ovviamente, si scatenarono i massacri indiscriminati degli sconfitti (sconfitti dalle FF.AA. Alleate, si intende) che ebbero la sconsideratezza di fidarsi della parola di chi gli proponeva la resa e deposero le armi.
Se si ha la bontà di leggere le cronache del tempo e di confrontarle con una ampia letteratura non “impegnata” politicamente, ovvero quella narrativa dedita a raccontare fatti e situazioni di vita quotidiana dell’epoca, solo marginalmente riferibili a situazioni politiche e militari, ci si renderà perfettamente conto che la popolazione, nel suo genere, fu in quegli anni, più che altro estranea ad ogni vero impegno politico in un campo o nell’altro. Il desiderio del popolo era quello che la guerra, con le sue restrizioni, bombardamenti, minacce e privazioni, finisse al più presto.
Ed in questa speranza la gente era ovviamente più incline a desiderare un arrivo degli Alleati, rispetto ai tedeschi, ma non per partito preso, anzi i tedeschi erano tra gli eserciti più rispettosi verso i civili (anche se in alcuni casi avevano perpetrato, con teutonica e irragionevole violenza, delle sanguinose rappresaglie), ma solo perchè il popolino vedeva nell’arrivo degli Alleati, di cui si intuiva facilmente che sarebbero risultati vincitori, la fine della guerra. Le feste e gli applausi che una parte della popolazione, stanca e affamata, ma bisogna dire anche poco dignitosa, riservava alle truppe Alleate che entravano nei paesi e nelle città non può essere scambiata come una partecipazione alla lotta contro i fascisti e i tedeschi, perchè questa partecipazione non c’è mai stata.
I fascisti, pur potendo contare su un apporto di popolo non maggioritario, ma alquanto consistente alla loro Repubblica Sociale (circa 800 mila adesioni, sebbene molte lo furono, diciamo per “ufficio”, in quanto vi erano anche persone che lavoravano in strutture e uffici ubicati nel territorio sotto la giurisdizione repubblicana), erano una forza significativa e che poteva contare su numerose partecipazioni volontarie, in particolare di giovani, a reparti operativi in guerra.
Ovviamente, con l’approssimarsi della fine e l’arrivo delle truppe Alleate, che restrinsero la parte di territorio repubblicano sempre più al Nord, i fascisti finirono per trovarsi alquanto isolati, rispetto alla popolazione, che desiderava la fine della guerra e ne avvertiva tutta la pericolosità nel mantenervi relazioni e contatti. Nonostante questo, però, ancora a metà dicembre del 1944, Mussolini nella sua uscita a Milano dove tenne un memorabile discorso al teatro Lirico ed altri brevi discorsi in varie zone e sedi di partito o reparti in armi, venne letteralmente accolto da una vasta e genuina manifestazione di affetto da parte dei milanesi. E quelle manifestazioni di piazza, senza alcuna precauzione poliziesca che Mussolini aveva decisamente rifiutato, minacciando altrimenti di tornarsene a Gargnano, non ebbero il benché minimo disturbo da parte di quella Resistenza di cui tanto si parla.
Viceversa, la stessa contabilità di parte antifascista, delle forze partigiane (escludendo quelli dell’ultim’ora, anzi dell’ora dopo, che a guerra finita si misero un fazzoletto rosso o tricolore al collo), per tutto il territorio nazionale, non superava qualche decina di migliaia di unità, mettendoci dentro un po’ di tutto.
Del fenomeno terroristico, che causò innumerevoli lutti, storicamente parlando non c’è molto da dire, visto che si trattava non di una partecipazione popolare, ma di sparuti gruppi, GAP e SAP, che nelle stesse grandi metropoli oscillavano tra i 20 e i 100 elementi al massimo i quali, oltretutto, in totale clandestinità compivano imprese “mordi e fuggi”, sparando proditoriamente alle spalle, dileguandosi immediatamente e senza portare alcuna divisa o segno distintivo.
Tutto questo è quanto si deduce dalle cronache e dalle documentazioni storiche e dai racconti di chi ebbe a vivere quegli eventi al di fuori da ogni fazione.
E questo nonostante che la lettura dei giornali degli ultimi giorni di guerra e di quelli immediatamente successivi, ci mostrano invece cronache e articoli talmente fantasiosi, faziosi e assurdi che nessun serio storico può prenderli seriamente in considerazione.
Si immagini che l’Avanti!, in una sua edizione straordinaria, a proposito della cattura di Mussolini, ebbe la spudoratezza di affermare che questa cattura era avvenuta mentre il “Duce con la sua quadrata mascella stava divorando una grossa bistecca”. Ovvia, non solo la fola, ma anche la insinuazione finalizzata a sobillare gli animi di una popolazione che viveva in tempi di fame nera.
Il mito storiografico della resistenza, ebbe i suoi prodromi a guerra finita, dietro la necessità, da parte dei nuovi governanti italiani, portati al potere dalle truppe Alleate, di attestare una sia pur minima partecipazione alla “lotta contro i tedeschi”, e questo nel tentativo di strappare qualche riconoscimento al tavolo della pace.
Più avanti questo mito lo si iniziò a trasporre in letteratura, più o meno a metà degli anni ’50, in particolare quando Roberto Battaglia, storico di matrice azionista, diede anima, forma, corpo e sostanza storiografica a uomini, episodi e avvenimenti politici e di lotta che, sostanzialmente, erano stati militarmente parlando del tutto marginali, con il suo voluminoso: "Storia della Resistenza italiana" (Einaudi).
Ma nella pratica possiamo dire che il “mito” fu infilato a viva forza nella nostra storiografia, verso la fine degli anni ’60, sostenuto dalle varie celebrazioni, cerimonie e innumerevoli ricorrenze che gli si sono volute conferire, potendo contare su un tacito connubio tra comunisti e democristiani tra i quali, i primi si caricavano oneri, vittime e onori di quelle vicende, ed i secondi si accontentavano di una loro partecipazione.
In realtà, se uno storico serio, come abbiamo precedentemente accennato, si prende la briga di voler accertare la consistenza di questo “mito”, si accorgerà facilmente che, ancor meno del Risorgimento, non ci fu alcuna opposizione militare della popolazione verso i tedeschi e la RSI.
Anche il mito del Risorgimento, infatti, venne per lo più costruito a posteriori, attraverso una agiografia di uomini, fatti e avvenimenti, che spesso non si erano svolti come si è poi voluto attestare. Ma nel Risorgimento, almeno in alcune zone, si era avuta una certa partecipazione popolare, soprattutto da parte di ampi strati della borghesia.
Nella Resistenza, viceversa, questa partecipazione popolare non c’è mai stata, se non nelle invenzioni della letteratura resistenziale.
Del resto che il fenomeno partigiano non abbia fornito significativi apporti alla sconfitta dei tedeschi e del fascismo, si trova negli stessi atti degli Alleati che non vollero mai riconoscere ai “partigiani” la qualifica di combattenti.
Per gli Alleati, infatti, non aveva senso dare la qualifica di “combattenti” alle bande partigiane che, prive di espliciti segni distintivi, mai impegnarono seriamente il nemico in combattimenti.
Nè Churchill, nè Eisenhower intesero mai riconoscere o avallare una presunta “Resistenza” in Italia. Questa è una realtà storica, che nessuna celebrazione di Stato, romanzo letterario o fiction filmica potrà mai cambiare.
Gli stessi Alleati inoltre, obtorto collo, dovettero riconoscere – e lo riconobbero! - che l’unica attività militare degli italiani fu quella della Repubblica Sociale Italiana, ai cui combattenti venne riconosciuta questa qualifica (ripetiamo: negata invece ai partigiani!).
Nessuna agiografia storica, costruita a tavolino, e nessuna esagerazione di episodi, riportati nelle pubblicazioni resistenziali, o attestati da qualsivoglia Istituto storico della Resistenza, tendente a “trasformare” i desideri e le poche azioni degli antifascisti del tempo, in vere e proprie epiche battaglie, mai avvenute, può cambiare la Storia.
Come non la possono cambiare le tante fantasiose invenzioni, quali per esempio le mai esistite, nei termini così come sono stati raccontati in letteratura e nelle finzioni filmiche, “5 giornate di Napoli”!
Della esigua, anche se minacciosa, attività terroristica dei Gap e delle Sap, abbiamo già detto, ma ci sarebbe anche da aggiungere che mai, i responsabili di questi atti terroristici, ebbero a presentarsi per evitare le rappresaglie di guerra, da loro stessi provocate, sui civili. Il gesto, nobile, di Salvo D’Acquisto del 23 settembre 1943 deve addebitarsi all’ambito della RSI, appena costituitasi, non certo alla cosiddetta Resistenza.
Neppure può essere considerata una realtà militare e ancor meno una partecipazione popolare la massa dei renitenti alla leva (figurarsi, erano fuggiti proprio per non combattere!), frammisti a sbandati, prigionieri evasi, e qualche idealista, che si rifugiarono sulle montagne, ove rimasero pressoché inoperosi. Costoro furono poi inquadrati in bande da ufficiali del governo del Sud e da elementi comunisti, e si limitarono a sporadiche imboscate sulle strade, mantenendosi con il taglieggiamento dei contadini.
Quando queste fantomatiche formazioni, infoltitesi solo in prossimità della oramai sicura fine della guerra, giunsero il 27 aprile 1945, in una Milano evacuata dai fascisti, non poterono far altro che sfilare in parata per le strade cittadine mostrando le loro belle divise nuove fiammanti, che già di per se stesse, facevano intuire la mancanza di precedenti veri scontri e tremende battaglie. Alcune di queste Divisioni, tra quelle dell’Oltrepò pavese, fornirono la dozzina di fucilatori che si recarono la mattina del 28 aprile, senza ostacoli militari di sorta, a Como e Dongo per fucilare i membri della Rsi oramai prigionieri.
Altre divisioni, come quelle di Moscatelli e della Valsesia, giunsero a Milano il pomeriggio del 28 aprile cimentandosi in parate e comizi.
Non ci si faccia infine ingannare dai pomposi numeri con i quali venivano arbitrariamente nomate le famose Divisioni Garibaldi, poste al comando di Luigi Longo, tra le quale assurse alle cronache la 153° Divisione Garibaldi “Luigi Clerici” (quella che catturò il Duce, o per più esattamente dire, prese in consegna Mussolini, così gentilmente donatogli dai tedeschi), perchè trattasi di nuclei, con numerazioni di fantasia, costituiti da poche decine di partigiani che i rastrellamenti tedeschi o fascisti costringevano alla macchia ed alla quasi totale inattività bellica. A loro memoria va spesso il fatto che ebbero alcuni fucilati, in quanto catturati durante i rastrellamenti, ma questi morti, spesso dignitosi, non possono dar corpo al mito di una resistenza.
Solo una falsa filmografia e la retorica resistenziale ha voluto moltiplicare, come i pani e i pesci, la consistenza di questi reparti, e alcuni rari casi di importanti attentati o incursioni compiuti dai rifugiati sulle montagne.
I partigiani alla macchia, infatti, scesero verso le città del Nord solo dopo l’occupazione Alleata di Bologna del 21 aprile 1945 che mostrò la oramai evidente rinuncia dei tedeschi a combattere visto che in Svizzera stavano per concordare la resa delle loro armate in Italia, quella resa che, una volta concordata, li vide, già dal 26 aprile 1945 ritirarsi indisturbati nei loro acquartieramenti.
Le stesse fonti cielleniste, per esempio, affermano che a Como e addirittura il 27 aprile!, i componenti del CLN erano in tutto 50 (date le fonti, bisognerebbe anche calare questo numero) e per giunta prudentemente clandestini!
Sola la dabbenaggine e in qualche caso la collusione, forse più che altro “ideale”, con l’Oss americano, da parte di alcuni comandanti, rese possibile la dissoluzione dei fascisti che, giunti in armi in circa 4, 5 mila indisturbati da Milano, finirono per liquefarsi come neve al sole, di fronte ad un nemico letteralmente inesistente, e praticamente lasciarono isolato Mussolini in quel di Menaggio, il paesino lacustre ubicato una trentina di chilometri più avanti.
Ma direte, tutte quelle foto di parate di formazioni partigiane o di gruppi partigiani armati di tutto punto e con l’espressione seria e intenta a scrutare mappe per una imminente azione di lotta? Non dimostrano forse una partecipazione popolare alla Resistenza?
Lasciamo stare, stendiamo un velo pietoso, perchè qualunque occhio allenato si accorge immediatamente che in molti casi trattasi di foto costruite a “tavolino” in posa filmica, spesso inoltre lo stesso abbigliamento e i fazzoletti mostrati in parata, dimostrano che furono distintivi utilizzati a cose fatte e anzi ci sono addirittura anche casi di foto di fascisti in armi, spacciati per partigiani.
Reali furono invece le foto dei morti e dei combattenti fascisti che per esempio, in quel di Firenze, si immolarono in una disperata resistenza e spararono come franchi tiratori sugli Alleati entrati in città e sui partigiani improvvisamente apparsi al loro seguito.
Dunque possiamo concludere che mentre il popolo italiano, nella sua maggioranza è risultato alquanto agnostico e indifferente rispetto allo scontro politico e militare in atto, c’è sicuramente stata una parte molto minoritaria della popolazione che ha condiviso gli ideali antifascisti, mentre un altra parte, neppure tanto minoritaria della popolazione, comunque più consistente e significativa della precedente, si è riconosciuta nella RSI.
Che inoltre un esiguo numero di questi antifascisti ha praticato una lotta armata contro i tedeschi e i fascisti, attraverso azioni più che altro svoltasi in clandestinità, e tra i quali gli elementi comunisti, erano decisamente preponderanti, mentre altri hanno più che altro svolto azioni e lavorio politico, a tavolino o di limitata portata.
Rispetto a questi le federazioni fasciste, le Brigate Nere e tanti altri reparti, furono decisamente e sproporzionatamente superiori come numero e come qualità e consistenza delle azioni militari svolte, mentre la stessa RSI potè contare su forze armate al comando di Rodolfo Graziani, che neppure possono essere paragonate, come consistenza e qualità, alle forze armate del governo badogliano del Sud.
Il mito della Resistenza del popolo italiano al nazifascismo, quindi, è un falso storico e la storiografia futura lo spazzerà via senza alcuna difficoltà.

Tratto da: ARTICOLO RINASCITA

Vi allego il mio articolo odierno, circa il “mito” della Resistenza pubblicato da Rinascita
Ps. c’era molto altro da dire su questo argomento , fornire riferimenti precisi, ecc., ma lo spazio su Rinascita, max 5 fogli formato A4 non lo consentiva.

Mercoledì 1 febbraio 2012

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