venerdì 20 gennaio 2012

Libertà formali e libertà sostanziali



di: Roberto Cozzolino

Gli opinionisti di regime dei Paesi dell’area occidentale hanno sempre enfatizzato la presenza, nel mondo iperliberista, di quelle libertà che sono ritenute da quasi tutti “indici di democrazia”; o “democracy index”, per dirla col britannico The Economist, il settimanale edito a Londra che si assume anche l’onere di stilare annualmente un apposito elenco con relativa pagella, sintetizzando la propria analisi in funzione dei seguenti punti ritenuti essenziali: elezioni libere, pluralismo, libertà civili, partecipazione politica e culturale.
Si perviene così, sommando i punti percentuali attribuiti ad ogni aspetto considerato, all’individuazione di quattro categorie fondamentali: democrazie complete, democrazie imperfette, regimi ibridi e, all’ultimo posto di siffatta scala meritocratica, regimi autoritari. Tra questi quattro gruppi principali sono presenti delle aree intermedie, popolate dalle nazioni che sono sicuramente migliori di quelle appartenenti al gruppo inferiore, ma non hanno ancora i requisiti sufficienti per accedere a quello superiore. Mentre i risultati di tale analisi vengono ampiamente diffusi, al pubblico non è dato sapere chi siano gli analisti incaricati della ricerca, né con quali criteri operino, né, soprattutto, se si tratta di studiosi indipendenti o legati in qualche modo ai promotori dell’iniziativa.
Esiste anche un’altra organizzazione che si preoccupa di renderci edotti su chi è democratico e chi invece non lo è: si tratta di Freedom House, con sede a Washington, che descrive se stessa come “una voce chiara per la democrazia e la libertà in tutto il mondo”, viene finanziata per almeno l’80% dal governo federale degli Stati Uniti d’America e, probabilmente priva del senso del ridicolo, sostiene che “la leadership americana negli affari internazionali è essenziale per la causa dei diritti umani e della libertà”. Anche Freedom House pubblica il suo bravo rapportino di fine anno, valutando il grado di libertà democratiche percepito in ciascun paese.
Superfluo aggiungere che agli ultimi posti delle classifiche così strutturate compaiono i soliti “stati canaglia”, mentre per un residuo sussulto di pudore l’entità sionista è classificata solo come “flawed democracy” – democrazia imperfetta: per la discriminazione verso gli ebrei etiopici o forse per la fastidiosa presenza di alcuni palestinesi? - e gli Usa e le sue colonie europee si contendono i primi posti nel settore della “full democracy”. Di fronte a risultati così eloquenti viene spontaneo domandarsi, ammesso che tali analisi siano condotte con metodi rigorosamente scientifici – sulla qual cosa è lecito nutrire seri dubbi -, se effettivamente gli aspetti presi in esame siano utili a verificare il grado di democrazia di una nazione; ma soprattutto se le libertà – indicate come “formali” per motivi che saranno chiariti in seguito - tirate in causa rivestano effettivamente un’importanza essenziale ed irrinunciabile per i cittadini del mondo occidentale.
L’idea di promuovere una riflessione su questo argomento mi è venuta leggendo l’intervista al direttore Gaudenzi, recentemente curata da Enrico Galoppini su questo quotidiano ed incentrata principalmente sulla (falsa) libertà di espressione vigente nella (altrettanto falsa, a dispetto dei nostri analisti) democrazia italiana; nella quale intervista s’illustrava, con cognizione di causa, l’ostracismo cui viene condannato chi non accetta di aderire al pensiero unico dominante. Non è nostra intenzione naturalmente sfondare porte già abbondantemente scardinate ricordando che viviamo in un paese a sovranità limitata, in quanto occupato militarmente, economicamente ed ideologicamente – da oltre mezzo secolo – dagli invasori usciti vittoriosi dall’ultimo conflitto mondiale; o sottolineando come tale stato coloniale sia reso possibile soprattutto grazie alla pavida e ben remunerata acquiescenza dei cleptocrati che ci governano, tutti indistintamente asserviti ad interessi contrari a quelli nazionali; ed ovviamente tutti, dagli ex governanti alla ex finta opposizione, accomunati nell’attuale sostegno al “governo tecnico” degli uomini delle banche - circostanza, questa, che dovrebbe essere sufficiente, da sola, ad affinare la capacità di percezione delle varie tifoserie politiche sulla reale natura della cosiddetta “alternanza democratica” nei regimi dell’area occidentale -.
Ma con tali premesse non è possibile ignorare come le anzidette “libertà formali”, concesse ai cittadini di una nazione guidata (si fa per dire) da servili camerieri dello straniero, sancite da una Costituzione nata sotto gli auspici di una colonizzazione spacciata per “liberazione” ed enfaticamente sbandierate in ogni occasione dal demagogo di turno, siano del tutto prive di significato in una società come quella attuale, esaurendosi in una vana esercitazione ludica – ovvero del fare senza progettare, attività speculare all’utopico progettare senza fare –, e conseguentemente impotenti ad incidere fattivamente sulla realtà.
Alla gran massa dei nostri connazionali, soprattutto quelli non completamente narcotizzati dal bombardamento mass-mediatico dei talk-show di regime, non può, infatti, sfuggire l’alone di surrealismo proprio di alcuni enunciati, proposti in forma di dogmi – dato che ormai vi si può credere solo per fideistica devozione, al pari di quelli religiosi - che recitano ad esempio che l’Italia è una democrazia fondata sul lavoro, o che la legge è uguale per tutti, o che la sovranità appartiene al popolo; suscitando nella gente comune – almeno quella ancora in grado di ragionare - reazioni che variano dalla incontenibile ilarità, alla rabbia impotente, alla disperata rassegnazione. Accanto a tali magniloquenti ed offensivi balbettii privi di contenuto, abbiamo però le nostre belle libertà formali, che ci inseriscono con pieno diritto tra le nazioni democratiche: possiamo adunarci ed intraprendere marce della pace mentre il nostro esercito fiancheggia – a nostre spese - i massacratori di popolazioni inermi, possiamo fare referendum i cui risultati saranno regolarmente disattesi, possiamo organizzare volantinaggi, possiamo gridare: “Abbasso Bersusconti” (con felice neologismo che accomuna nella medesima aspra invettiva i leader del Pd, del Pdl e dell’attuale governo), possiamo organizzarci in partiti e conventicole varie, possiamo scrivere articoli per una testata controcorrente che non sarà mai citata in una rassegna stampa, possiamo, infine, recarci stancamente alle urne con la miope illusione che il voto sia elemento in grado di mutare qualcosa; tutto questo – e molto altro ancora - possiamo; ma non scalfiremo minimamente il sistema, anzi forse lo rafforzeremo, consentendogli anche di affermare che il democraticissimo diritto al dissenso è assicurato (questo è Orwell, bellezza!). Si noti poi en passant – ma il discorso richiederebbe ulteriori sviluppi che esulano dal tema delle presenti note - che quando queste libertà formali, sfuggite per un caso fortuito ed inaspettato al controllo dei manovratori, rischiano di diventare pericolose, il totalitarismo “democratico” getta la maschera e rivela il suo vero volto ferocemente repressivo – salvo poi addossare la colpa, nella successiva farsa inscenata per riacquistare credibilità agli occhi dei sudditi, ai soliti elementi deviati.
In definitiva le libertà formali di cui godiamo, non comportando un’attività partecipativa (il buon vecchio Gaber docet) alla gestione della cosa pubblica, rappresentano soltanto elementi che, stravolti e svuotati di contenuto dalla sapiente manipolazione operata dal sistema, conferiscono alle sedicenti democrazie un aspetto illusorio di libertà: una forma, appunto, priva di sostanza.
Possono dunque gli indici scelti con tanta lodevole cura dagli analisti angloamericani essere sufficienti – da soli – a collocare il resto del mondo sui gradini di una scala progettata secondo i propri unilaterali parametri di giudizio? E’ come se delle scimmie sfidassero gli umani ad una gara di bellezza, stabilendo però a priori che requisito estetico essenziale per primeggiare è la cospicua presenza di peli sul corpo.
Secondo il parere totalmente condivisibile di sociologi ed economisti di estrazione socialista – in particolare dell’area centro e sudamericana, con Cuba come caposcuola – la risposta alla precedente retorica domanda è negativa, perché a tali condizioni bisogna necessariamente aggiungerne qualche altra che sia The Economist che Freedom House sembrano distrattamente ignorare o, quanto meno, sbadatamente sottovalutare: si tratta del diritto all’istruzione, alla sanità, al lavoro ed alla conduzione di una vita dignitosa. Tale corrente di pensiero, elaborando il tema delle libertà formali e sostanziali, afferma che se i diritti economici e sociali sono drasticamente limitati, tutti i tradizionali diritti umani: libertà di parola, di stampa, di religione, di associazione, di uguaglianza di fronte alla legge, si risolvono necessariamente in concetti astratti, funzionali solo al fraudolento scopo di ingannare i popoli.
Ovviamente se le analisi di democraticità fossero effettuate introducendo tali nuovi parametri, che considerano l’uomo e la qualità della sua vita gli elementi fondamentali su cui focalizzare l’interesse, le classifiche risulterebbero quasi totalmente invertite, vedendo gli ultimi posti occupati da quei paesi dove ogni residua traccia di stato sociale è stata distrutta dal turboliberismo imperante, attento soltanto a soddisfare la famelica ingordigia del suo onnivoro idolo, il mercato.
Per completezza d’informazione suggeriamo pertanto ai dotti redattori delle pagelle democratiche di chiedere a chi si è visto rapinare la casa dalle banche - avendo perso il lavoro ed essendo dunque impossibilitato a sostenere le rate del mutuo - cosa ne pensa della libertà di espressione; o di informarsi presso i parenti di un imprenditore, morto suicida per problemi economici che gli impedivano di pagare lo stipendio ai propri dipendenti, quale fosse l’orientamento dell’estinto riguardo alla libertà di stampa; o di affrettarsi ad intervistare sul tema dei diritti delle minoranze, prima che esali l’ultimo respiro, un malato grave abbandonato in barella nella malsana corsia di un ospedale pubblico, perché privo di assicurazione sanitaria.
Non è certamente intenzione di chi scrive ridurre o negare l’importanza fondamentale della libertà in tutte le sue forme – purché non in contrasto con quella degli altri - ed appunto per questo si denuncia la presenza di queste pseudo-libertà formali che, private del contemporaneo ed indispensabile apporto delle libertà sostanziali, finiscono col risultare prive di efficacia.
Soltanto una visione sociale dello Stato, avente come obiettivo prioritario il benessere di tutto il popolo e conseguentemente il raggiungimento di una possibile vera libertà, può garantire un livello esistenziale ampiamente soddisfacente per tutti, assicurando la concreta attuazione delle libertà sostanziali, che devono logicamente essere propedeutiche a – o concomitanti con - quelle formali; mentre l’esperienza ci mostra con eccessiva frequenza essere falso il contrario.
E’ del resto sotto gli occhi di tutti che la totale assenza - o la progressiva sparizione - delle libertà sostanziali nei paesi contagiati dall’ideologia liberista, anticipa ineluttabilmente l’eliminazione - persino nominale - delle libertà formali; di esempi ce ne sono a volontà: criminalizzazione della ricerca storica indipendente e novelle inquisizioni per chi non accetta le verità ufficiali, detenzione senza processo ed uso della tortura per chi è sospettato di attività eversive, drastica riduzione della libertà personale con la scusa dell’emergenza terrorismo, deliberazioni legislative riguardanti il destino di intere nazioni imposte da individui mai scelti dall’elettorato, azzeramento dei consolidati diritti sindacali; per citare soltanto i più noti e recenti.
E’ dovere di chiunque voglia continuare a lottare per un mondo veramente libero opporsi con ogni mezzo al tentativo di strappare ai popoli i diritti conquistati con innumerevoli lotte sociali, senza lasciarsi trarre in inganno dai canti stonati delle sirene pseudodemocratiche.
Concordiamo pertanto con Juan Vela Valdés (Universidad de La Habana), secondo il quale “… i paesi a sviluppo avanzato non debbono imporre la loro concezione della democrazia… La scelta socialista lega indissolubilmente lo Stato e la qualità della democrazia alle conquiste sociali compiute nel campo dell’istruzione, della sanità, della previdenza, del lavoro”; e sottoscriviamo quanto afferma il venezuelano Carlo Méndez Tovar “… i parametri di valutazione della democraticità di un sistema politico risultano dal grado di riconoscimento e di tutela dei diritti sociali fondamentali della persona”.

Tratto da: rinascita.

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