Un mio amico, Daniele Schinaldi, mi ha inviato una mail con la preghiera di ricordare tre giovanissimi martiri dell'odio, della stupidità e della vigliaccheria: Franco Biconzetti, Franncesco Ciavatta e Stefano Recchioni; tutti caduti nell'agguato concepito dai "partigiani" comunisti a danno dei giovani missini della sezione di Acca Larentia. Risposi a Daniele Schinaldi che nel periodo del "glorioso attentato rosso" ero per lavoro all'estero, quindi non sono molto documentato. Dato però che desidero rinverdire la memoria dei tre ragazzi, trasmetto quanto Schinaldi mi ha inviato. Prima, però, è bene anticipare qualche considerazione. Poco sopra ho accennato all'"agguato concepito dai “partigiani comunisti"; qualcuno potrebbe osservare che quei "malandrini" che spararono e uccisero erano delle "Brigate Rosse". No, amici lettori, l'ideologia era la stessa (il comunismo) e pure la tecnica dell'agguato.
E mi spiego. Negli anni 1943-1945 (e oltre, come vedremo) era in atto un sistema di lotta condotta da partigiani (principalmente di provenienza rossa), sistema di lotta condannata dalle Convenzioni Internazionali di guerra del periodo; in altre parole gli autori di attentati, uccisioni ecc. erano dei fuori legge. Infatti le citate Convenzioni stabilivano, senza possibilità di equivoci, che il “legittimo combattente” doveva: 1) indossare una uniforme conosciuta dal nemico; 2) portare apertamente le armi; 3) rispondere ad ufficiali responsabili; 4) riconoscere le Convenzioni di guerra. E’ facile osservare che nel caso del “partigiano” non una delle quattro condizioni veniva osservata.
E vediamo quale era il sistema di lotta condotta dal partigiano. Beppe Fenoglio ne “Il partigiano Jonny” così sintetizza le azioni da compiere contro il fascista:
La tecnica è descritta ancora più dettagliatamente nel libro di Mario De Micheli, dal titolo “7° Gap”, da cui riportiamo uno stralcio:
Ma quanto ha scritto Giorgio Bocca, dapprima fervente fascista, poi, quando si cominciò a capire come la guerra stava andando, (sempre) fervente (ma che coerenza, il Giorgio Bocca) antifascista. Ecco quanto ha scritto in merito alle finalità della lotta partigiana:
Ed ecco quanto hanno scritto Daniele Schinaldi e Valerio Arenare in merito all’”eroica azione partigiana” Acca Larentia.
ACCA LARENTIA - BIGONZETTI, CIAVATTA E RECCHIONI ALTRI CADUTI SENZA GIUSTIZIA
di Daniele Schinaldi e Valerio Arenare
Il 7 gennaio del 1978, alle ore 18.23, un commando di 5 uomini e una donna, con il volto celato da cappelli variopinti e passamontagna scuri, uccide con una gragnuola di colpi due ragazzi appena usciti dalla sezione del Movimento Sociale Italiano di via Acca Larentia. Restano sul selciato Franco Bigonzetti, 20 anni, studente in medicina e Francesco Ciavatta, 20 anni, figlio del portiere dello stabile dove è ubicata la sezione missina. Scampano all’agguato altri tre attivisti: Vincenzo Segneri, che resta ferito ad un braccio, Maurizio Lupini e Giuseppe D’Audino. Riescono a farla franca barricandosi all’interno del locale e schivando buona parte dei proiettili. Il quintetto si era ritrovato lì per organizzare una distribuzione di volantini. A Roma quelli erano tempi duri, difficili, pericolosi. Specie per chi decideva di scendere in piazza e di fare attività politica. Se lo faceva, poi, scegliendo di andare a destra, aveva quasi firmato una condanna a morte. Erano i cosiddetti ‘anni di piombò, degli scontri feroci tra opposte fazioni. Erano gli anni in cui “uccidere un fascista” non era considerato un reato né un peccato. Anzi… Persino chi veniva da fuori, dalla provincia, respirava aria di tempesta, di rancore, di odio. A chi scrive, giovane studente universitario appena diciottenne, che aveva osato oltrepassare la soglia della facoltà di Lettere portando sotto braccio una copia de ‘Il Tempo’, fu data una lezione che non avrebbe più dimenticato: il giornale gli venne sequestrato e ridotto in pezzi. Quindi fu cacciato via con una robusta pedata nel sedere. Da quel momento capì che aria tirava. E gli andò bene. Almeno a vedere ciò che successe ad Acca Larentia, una piazza stretta e quasi soffocata dai palazzi del quartiere Appio Latino. Una porzione di città considerata periferia degradata, terra di nessuno, ma che oggi, con la prepotente espansione dell’urbe capitolina, si trova molto più vicina al centro. Lì, in quella piazza, vi era una storica sezione del Movimento Sociale Italiano; ora gli stessi locali ospitano la federazione romana della Fiamma Tricolore. Una sovrapposizione che non è stata né indolore né incruenta. Ancora oggi, a distanza di trent’anni da quella sera, la manifestazione indetta dalle varie anime della destra per commemorare quelle giovani morti provoca contrasti. Per non parlare, poi, di chi tenta di impedire lo svolgimento di quella cerimonia. Ma torniamo a quel 7 gennaio del 1978. I cinque ragazzi della sezione di Acca Larentia sono iscritti o molto vicini al ‘Fronte della Gioventù’, l’organizzazione giovanile missina. Mentre si apprestano ad allontanarsi dalla piazza vengono sorpresi dal gruppo dei killer che sparando nel gruppo ne colpiscono a morte due, ferendone un altro. La rivendicazione giunge subito dopo al quotidiano ‘Il Messaggero’ ad opera dei ‘Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale’: in essa, accanto all’ormai noto slogan ‘fascisti, padroni, per voi non c’è domani’, si magnifica l’azione compiuta ai danni della “fogna e dei topi neri di Acca Larentia”. Intanto accanto ai corpi dei due ragazzi, di fronte alla sezione, si radunano moltissimi attivisti e simpatizzanti fronteggiati da un robusto cordone di Carabinieri. Giunge anche un giovanissimo e addolorato Gianfranco Fini che sta muovendo i suoi primi passi nella scala gerarchica del partito. Gli animi si surriscaldano: insulti, spintoni, lancio di lacrimogeni, spari per aria. Poi dai Carabinieri parte un colpo di pistola che colpisce in piena fronte Stefano Recchioni, diciannovenne missino (quell’anno, però, non aveva rinnovato la tessera) che era venuto lì dopo aver appreso la notizia dell’agguato. Morirà dopo due giorni di agonia in ospedale senza riprendere conoscenza. A sparare un capitano dell’Arma che sostiene di essere stato costretto a fare fuoco dall’atteggiamento aggressivo dei ragazzi che si trovavano nella piazza. I vertici dei Carabinieri e lo stesso governo, prima parlano di legittima difesa, poi ipotizzano un tragico incidente. Una manfrina che, in questi casi, diventa rituale, come abbiamo potuto constatare anche di recente. Alle due esecuzioni, quindi, si aggiunge un’altra morte innocente. In molte città d’Italia scoppiano violenti tafferugli: a Torino, Verona, Bologna, Firenze, Napoli, Reggio Calabria e Cagliari ‘rossi’ e ‘neri’ si confrontano e si scontrano nelle vie e nelle piazze. Il ministro degli Interni Cossiga adotta una decisione clamorosa: l’invio al confino degli esponenti più riottosi degli autonomi e dei missini. Da allora niente sarà più come prima. Nella variegata galassia della destra la strage di Acca Larentia costituisce uno spartiacque, un momento di intima riflessione. Alcuni abbandonano la tenzone, altri decidono di rimanere. E’ il caso di Francesco Storace che diventa segretario del Fronte della Gioventù proprio di quella sezione. Altri ancora decidono di saltare il fosso convertendosi alla lotta armata, una strada senza ritorno. Ma chi furono i responsabili del vergognoso agguato? Che volto hanno gli assassini di Bigonzetti e Ciavatta, due poveri ragazzi colpevoli soltanto di stare dall’altra parte? Dopo quasi dieci anni, nel 1987, grazie alle rivelazioni di Livia Todini, una brigatista dissociatasi dal movimento, gli inquirenti arrestano Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Viero Di Matteo, Francesco De Martiis e Cesare Cavallari, ritenendoli i componenti del gruppo di fuoco. Lo Scrocca, quasi subito, si impicca in carcere facendo calare una pietra tombale sul prosieguo delle indagini che, non a caso, si arenano. Nel 1990 la Corte di Assise di Roma proscioglie tutti gli imputati. Sulla tragica vicenda cala fitto l’oblio. Resta soltanto un elemento che certifica a chiare note la matrice del duplice omicidio: una ‘skorpion’ calibro 7.65, una pistola mitragliatrice di fabbricazione cecoslovacca che sparò sui ragazzi di Acca Larentia e che, anni dopo, sarà ritrovata in un covo milanese delle Brigate Rosse. Una pistola con una storia curiosa: era stata comprata in un’armeria di Saint Vincent da Enrico Sbriccoli, in arte Jimmy Fontana, noto cantante degli anni Ottanta, appassionato e collezionista di armi. Il quale, subito dopo, l’aveva ceduta ad un ex carabiniere. Per finire, poi, nelle mani dei ‘Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale’ e, infine, in quelle delle Br. Un indelebile filo conduttore che attesta la vicinanza e la contiguità, ieri come oggi, tra i gruppi che agitavano il variegato universo dell’estremismo di sinistra. Quell’arma ha sul groppone anche altre morti. E questa volta eccellenti: l’economista Enzo Tarantelli (1985), l’ex sindaco repubblicano di Firenze Lando Conti (1986) e il senatore democristiano Roberto Ruffilli (1988). Si sa tutto, dunque, di quella pistola ma, dopo trent’anni, ancora non si conoscono gli assassini di quei poveri ragazzi. Indagini condotte all’acqua di rosa? Oppure la volontà di mantenere un buco nero su di un delitto, per così dire, di serie B? Non si potrebbe prendere spunto dal trentennale di tali eventi per riaprire il caso come già fatto per altre situazioni? Lo si faccia pure per Bigonzetti e Ciavatta, quarant’anni in due, che quel 7 gennaio furono uccisi da proiettili ‘rossi’ nella piazza di Acca Larentia. Oggi, a differenza del passato, tutti hanno capito che anche “uccidere un fascista è reato”. Almeno si spera…
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