lunedì 10 agosto 2009

ALFREDO ORIANI. IL PROFETA DIMENTICATO



“Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del piede di casa sembrava il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani sognò l’impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani
avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu esaltatore di tutte le energie della razza”. Con queste parole Benito Mussolini, rivolgendosi ai giovani universitari fascisti in
occasione della celebre Marcia sul Cardello, commemorava il 27 aprile 1924 la figura e l’opera di Alfredo Oriani, il geniale e sfortunato cantore di un’Italia per la terza volta unificata, ormai avviata verso la modernizzazione e soprattutto pienamente tornata d’ufficio nel firmamento delle potenze che contano.
Morto nel 1909 all’età di 57 anni, Oriani non avrebbe avuto la ventura di assistere a tutto questo, ma nelle sue pagine aveva più volte adombrato, quasi in una sorta di visione estatica, sia pure lucida e coerente, quella grandezza nazionale che in epoca fascista sarebbe divenuta realtà a tutti gli effetti. All’Italietta decadente e
corrotta liberal-giolittiana si era sostituita l’Italia del Duce, che sui valori orianei della forza e della gerarchia spirituale fondava la propria ragion d’essere. L’interesse di Mussolini per Oriani fu sempre vivo e costante e non è interpretabile, come vanamente si è tentato di fare, con la comune “romagnolità” dei due personaggi(predappiese l’uno, faentino l’altro). Il Duce in persona volle farsi curatore, per i tipi dell’editore Cappelli, dell’opera omnia di Oriani, che fu integralmente pubblicata in dieci anni al ritmo di un volume all’anno. E fu
ancora lui a stabilire che la casa dello scrittore, sita nella frazione di Casola Valsenio (il famoso “Cardello”), divenisse monumento nazionale. E non fu certo Mussolini a opporsi quando Oriani venne a essere inserito tra i nomi di De Sanctis e Carducci in tutte le antologie scolastiche. Oriani era stato il profeta della Terza Italia, un grande scrittore e un degno precursore dell’Italia romana e fascista. Era più che doveroso che la Patria, riconoscente, gli tributasse il meritato omaggio, anche se postumo.

LA VITA E LE OPERE
Breve e infelice la vita di Alfredo Oriani, povera di eventi di particolare rilievo e costellata invece da malumori e avversità. Nato a Faenza nel 1852 da Luigi e da Clementina Bertoni, crebbe in un contesto familiare non proprio rassicurante e idilliaco, a contatto con un padre che intendeva educarlo in maniera
inflessibile e una madre dal temperamento arcigno e caparbio, che mai nutrì un affetto spiccato per il ragazzo, anche perchè violentemente traumatizzata dalla morte precoce del primogenito Ercole, per il quale erano andate esaurite tutte le “scorte” di amore materno di cui era stata capace. Senza sua colpa specifica, il
giovanotto si ritrovò così rinchiuso in collegio a Bologna, dove la sua intelligenza pronta e vivace gli permise di conseguire a tempo di record la licenza liceale; e nel 1868 si trasferì a Roma per laurearsi in giurisprudenza, al fine di assecondare i progetti del padre che miravano a fare di lui il più valente avvocato
della provincia forlivese. Nel 1872 fu a Napoli, dove ottenne la laurea, ma al suo rientro al Cardello - infliggendo un duro colpo alle ambizioni paterne- decise di relegare in soffitta i codici e le procedure per dedicarsi alle lettere. In quel luogo trascorse tutta la vita, senza una donna e senza amici, solitario e
meditabondo come un asceta. Tentò in verità di darsi alla politica e lo fece con un discreto successo, dal momento che tenne la carica di consigliere provinciale a Faenza per diversi anni, ma non gli riuscì di farsi eleggere deputato al Parlamento nazionale e questa sconfitta esacerbò ulteriormente il suo animo già tormentato, contribuendo a rafforzare l’isolamento al quale si era in un certo senso condannato, tanto che i concittadini lo chiamavano, con l’irridente franchezza tipica delle genti contadine, “el mat del Cardel”.
Deluso dalla vita e da quanto lo attorniava, e già da tempo sofferente di cuore, si spense nel 1909 nel letto di casa, ben ventisette anni prima che, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, il Capo delle Camicie Nere proclamasse urbis et orbis l’avvento di quell’Impero italiano che era stato l’autentico filo conduttore di tutta
la riflessione orianea. Spirito turbolento e irrequieto, Oriani ebbe l’indubbio merito, in tempi non sospetti, di stigmatizzare l’Italiuzza meschina e materialista del suo tempo, schiava dei maneggi dei politicanti e colpevolmente dimentica delle glorie passate e della sua tradizione millenaria. In antitesi al culto del profitto
officiato dai sacerdoti del capitalismo e alle rivendicazioni sovversive dei socialisti, egli sognava un’Italia forte e libera collocata nel suo ruolo storico naturale, cioè tra le grandi potenze, auspicava una collaborazione tra le parti sociali (quella stessa che sarà alla radice del corporativismo fascista) che ponesse fine alla lotta di classe, agognava un governo decisionista in grado di tenere a freno le clientele e gli interessi sempre più smodati dei partiti. Sono motivi facilmente rintracciabili anche nelle sue opere teatrali, come La logica della
vita, Ultimo atto, L’invincibile, Gli ultimi barbari e Incredulità, che a prima vista si presentano come uno strano intreccio di romanticismo e verismo, ma che in realtà contengono in nuce gli embrioni di quella potente sintesi analitica che costituirà il pregio maggiore delle grandi produzioni orianee, quali La lotta politica in Italia e soprattutto Rivolta ideale. Fu anche romanziere prolifico (Al di là, Sullo scoglio, Il nemico,Olocausto, Gelosia, La disfatta, Vortice) e apprezzato, già a pochi anni di distanza dalla morte, anche se la storiografia letteraria preferisce insistere sul tema del “povero Oriani dimenticato da tutti” e poi improvvisamente innalzato sugli scudi dalla “propaganda” fascista, che non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di individuare un precursore del nazionalismo novecentesco tra i migliri scrittori di fine Ottocento.
Un testo per certi versi a sè stante è il racconto Fino a Dogali (1887), che trae spunto dall’eccidio dei cinquecento valorosi soldati capitanati da De Cristoforis, ma l’esaltazione lirica di quei caduti e la strenua critica all’imbelle operato del governo Depretis funge solo da pretesto per portare a compimento un’acuta
analisi dei grandi problemi dell’Italia postunitaria. La lotta politica in Italia (1890) ne è perciò il logico sviluppo e la piena sistemazione, perchè è in questa sede che l’autore ripercorre con maestria le principali vicende italiane dal 476, anno della caduta dell’Impero d’Occidente, all’evo contemporaneo. La tesi centrale
del libro è la “rivoluzione tradita” del Risorgimento, misurata dal fatto -secondo Oriani- che alla grande epopea risorgimentale, ricca di fermenti ideali e nobili aspirazioni, ha fatto seguito l’indecoroso spettacolo dell’Italietta trasformista e poi giolittiana, ipocrita e passivamente ignava come mai era apparsa nella sua
storia. E’ oltretutto evidente che La lotta politica non è esente da lacune o contraddizioni, come è stato spesso sottolineato dalla zelante critica di ispirazione marxista, ma non c’è nel complesso lacuna o contraddizione
che possa inficiarne la legittimità delle accuse e il valore dell’opera. E’ qui che Oriani insegna agli italiani il rispetto della propria memoria storica, è qui che rammenta loro il significato della tradizione di un popolo che è stato creatore di civiltà per il mondo intero, ed è qui che mette l’accento sul carattere fatale e ineluttabile della sua gloria futura. Ma il capolavoro orianeo è indiscutibilmente Rivolta ideale (1906), libro tra i più esecrabili e indigesti per gli “intellettuali” sinistrorsi del ‘900 e proprio per questo particolarmente caro a
Benito Mussolini. Con una visione serena e al contempo maestosa degna degli antichi vati, Oriani ha qui descritto quasi nei dettagli quella che poi sarà la realtà dell’Italia fascista, passando in rassegna tutti i temi salienti della futura dottrina dello Stato e del pensiero del fascismo: dalla fatalità della guerra alla necessità dell’impero, dalla negazione del socialismo e tanto più del comunismo al principio di autorità e di gerarchia, dal senso sacro dell’onore alla fedeltà alla causa superiore della Nazione, non c’è aspetto ideologico, culturale
o pedagogico del fascismo successivo che egli non abbia tratteggiato con estrema perizia e incredibile preveggenza. In quello stesso libro ebbe modo di scrivere: “Ci vogliono vent’anni perchè L’Italia attraversi tutta la palude della falsa democrazia e del vile realismo economico e torni ad avere coscienza del suo cammino”. Vent’anni dopo, i conti son presto fatti, si era nel 1926, vale a dire nel pieno della costruzione dell’Italia del Duce. E tuttavia vi è chi, a proposito della Marcia sul Cardello sostenuta da Mussolini nel 1924, ancora si ostina a discutere delle presunte “incomprensioni” e “distorsioni” che degli scritti orianei che
il fascismo avrebbe alimentato per impadronirsi delle credenziali di un illustre ascendente.

LA COMPLESSITA’ DEL PENSIERO DI ORIANI
Per la Destra italiana del Novecento, Oriani rappresentò una vera e propria “fabbrica di idee”, o anche di miti se si preferisce, a patto di riconoscere al termine “mito” non il significato volgare e mediocre dei giorni nostri,
ma quello primigenio e incorruttibile di “eterno presente”, capace di racchiudere un valore atemporale e metastorico, non soggetto alle oscillazioni del divenire ma prezioso e benefico in ogni epoca, al di là delle contingenze e dell’incessante succedersi delle generazioni. Nazionalista e “fascista” assai prima che
nascessero l’ANI e i Fasci italiani di Combattimento, storico assennato e giudizioso al punto da guadagnarsi la stima crociana (poi rinnegata per ragioni politiche, dopo che fu chiaro che Oriani era ormai considerato un apostolo del fascismo), narratore di talento e prestigio (i romanzi Gelosia, Vortice e Olocausto lo collocavano, tra il 1900 e il 1920, accanto ad artisti del calibro di Hugo, Dostoevskij e Barbusse in fatto di notorietà e di copie vendute), Alfredo Oriani fu tuttavia soprattutto un grande idealista, innamorato del sacro suolo d’Italia e in polemica contro tutti i nemici, più o meno reali e più o meno insidiosi, della grandezza del Paese. Si è detto, e qualcuno ancora ribadisce senza pudore per trasparenti motivazioni di ordine
“ideologico”,che le sue ricostruzioni storiche peccano di omissioni e incertezze, che la prosa dei romanzi è retorica e sovrabbondante, che taluni giudizi da lui formulati sono angusti o lapidari, dimenticando che lacunosità e tortuosità sono presenti persino in storici come Erodoto e Tucidide, che lo stile dei racconti della
seconda metà del XIX secolo è all’incirca lo stesso per tutti gli autori decisi a indirizzarsi verso il “grosso pubblico”, che nessun altro studioso dell’età risorgimentale ha saputo mantenere la medesima equidistanza e solarità di giudizio con cui Oriani ha esaminato il percorso culminato nella proclamazione del Regno d’Italia.
Uno storico di formazione laica e repubblicana come Spadolini non ha esitato a definirlo “il massimo interprete del Risorgimento”, colui che meglio di chiunque altro ha saputo ridisegnare, nella Lotta politica in Italia, le fasi successive della ricostruzione nazionale senza propendere nè per i Savoia nè per le dominazioni
straniere, ed evitando il rischio di scivolare nel comodo provincialismo da campanile. La sua concezione della vita fu virile e pessimistica, in quanto fondata sui valori tradizionali dell’onore e della patria, della fierezza della stirpe e della famiglia, del duro lavoro nei campi e nelle officine, nel rispetto della natura e nella convivenza civile: valori antichi quanto il mondo stesso, sui quali e con i quali grandi e luminose civiltà si erano edificate ed erano vissute (e quella romano-italica era stata una delle più importanti), e che ora risultavano ignobilmente annacquati, corrosi, respinti tanto dal gretto utilitarismo mercantilistico espresso dal mondo borghese, quanto dall’incombenza sempre più famelica e senza limiti dell’eversione socialista. Oriani pertanto ne ha per tutti, imprenditori e nemici del popolo, preti e affamatori, socialisti e politici illusionisti, anche se il suo obiettivo primario rimane Giolitti, da lui classificato come “il più distruttore, spiritualmente, che l’Italia abbia mai avuto”. Giudizio sintomatico come pochi altri per intendere la personalità dello scrittore faentino, perchè è nell’avverbio posto tra le due virgole (“spiritualmente”) che si cela il senso profondo di tutta la sua attività di polemista e di studioso della storia d’Italia. Quello che interessa Oriani, quello che lo sgomenta e lo disorienta più di qualsiasi innovazione pseudoscientifica o di broglio elettorale, è la morte lenta e irreversibile dello Spirito della Nazione, ormai decretata dall’egemonia delle èlites finanziarie e industriali e
stimolata dall’espansione inarrestabile delle idee marxiste tra i ceti popolari. Pur se si illudono di opporsi al dominio della borghesia -e di ciò Oriani è fermamente convinto- i socialisti non sono che i figli naturali e i
legittimi eredi di una democrazia superficiale e materialista, lontana dal popolo e dalle sue effettive esigenze, inetta, bigotta, ipocrita e falsa come solo chi non ha altro nume che il denaro può essere. Ma siccome “Hobbes ha ragione”, dirà in Memorie inutili, “e la società è la guerra di tutti contro tutti: guai ai piccoli e ai
deboli”, nessuna speranza può venire al popolo dall’estensione del suffragio o dall’insurrezione delle fabbriche, miti malsani e moderni costruiti ad arte dalla falsa coscienza borghese e dall’ancor più disonesta propaganda socialista. I piccoli e i deboli, gli onesti e i sinceri, i veri italiani che producono e soffrono,
saranno inesorabilmente schiacciati tra il martello della ribellione classista e l’incudine dello sfruttamento capitalista, a meno che non riusciranno a mettersi in cammino, al seguito di una nuova aristocrazia spirituale che abbia a cuore non il proprio vile tornaconto ma l’interesse supremo della Patria, e che sia a sua volta
guidata da un Capo, da un autentico leader, da una figura carismatica che non tarderà ad arrivare, considerato l’attuale disordine. E’ qui tutta la complessità estrema della riflessione orianea, che va ben oltre il momento della pars destruens della demolizione delle convenzioni e dei luoghi comuni del “progressismo”:
smantellato tutto ciò che era da smantellare, egli localizza con un tono che non si può qualificare se non attraverso l’aggettivo “profetico” le soluzioni della pars costruens. Dopo aver prospettato un quadro di rovine (quello del mondo borghese contemporaneo, dove persino la scienza è brutta, volgare, rozza e inumana),
Oriani passa a indicare i rimedi e le rettifiche, che consistono nella rivolta degli ideali e nel primato della volontà sulle istanze mercantilistiche. Tutto lo stile di Oriani è profetico e forse è questa la ragione per la quale la critica letteraria incontra tante e tali difficoltà nell’interpretare la sua opera e nel catalogare la sua scrittura. Si può a buon diritto parlare di un vero e proprio linguaggio oracolare, rarissimo da reperire in qualunque altro autore, con le sole eccezioni di Sorel e D’Annunzio. Ma un linguaggio, superfluo sottolinearlo, fortemente “fuori moda” in anni tristi come quelli che stiamo attraversando, saturi di
conformismo ideologico e talk show al cloroformio. Motivo in più per tornare a Oriani, alla sua pagina mossa e nervosa, previdente e appassionata, alla sua onestà che non tollera i compromessi di alcun genere, al suo legame interiore e profondo con la Tradizione. Da non intendersi in senso evoliano, evidentemente, ma anche
questa meritevole di comparire con la T maiuscola: della Tradizione Romano-Italica pur sempre si tratta.

RIVOLTA IDEALE
Il clou dell’argomentazione orianea, lo si è detto, è raggiunto nella Rivolta ideale, in cui vengono esibite le soluzioni per il problema-Italia, che dovranno giocoforza scaturire da una rinnovata aristocrazia del pensiero
in grado di fare piazza pulita di tutte le molteplici aberrazioni prodotte dal liberalismo del tardo Ottocento.
Per Oriani, l’aristocrazia non è altro, storicamente, che una superiorità dello spirito organizzata dalla volontà nel comando. In ogni tempo, e in ogni gruppo umano, l’eccellenza di alcuni individui permise loro di dominare
gli altri, che nella loro obbedienza barattavano la propria libertà con la protezione ricevuta.
Ecco il motivo per il quale le prime aristocrazie furono religiose e guerriere, avendo esse il compito di garantire ai deboli la serenità interiore e un aiuto efficace nella dura lotta per la vita. L’istinto della razza e le necessità storiche generavano così nell’aristocrazia una classe responsabile della vita di tutti e depositaria delle sue tradizioni:
era sempre l’aristocrazia a pensare e decidere per sè e per gli altri, a rappresentare la patria e i costumi religiosi, a organizzare i clan, le famiglie, il lavoro. Oggi malauguratamente l’aristocrazia non esiste più,
avendo perduto -a vantaggio delle chiacchiere parlamentari e della piazza- la sua funzione di comando e di stimolo, ed è utopistico sperare che possa in qualche modo venir fuori un nuovo patriziato da quella classe affaristica e borghese che tanto ha lottato per spodestare l’ancien règime. Un aristocratico libertino dedito
all’ozio e ai vizi non è un aristocratico, poichè non coordina e non dirige il popolo dall’alto. Per rinnovare la funzione aristocratica, occorre ridarle una coscienza che ne fortifichi il carattere e non il reddito e metta in azione l’attitudine al comando e all’organizzazione. Questo perchè un’aristocrazia è il corpo scelto di una nazione, oppure non è nulla. L’Italia contemporanea non ha più alcuna èlite e i suoi grandi nomi riempiono soltanto le cronache mondane e quelle dello sport, il che significa ricchezza senza eccessivi problemi, lusso
senza personalità, forma senza contenuto. Nell’assenza dell’aristocrazia l’umanità si dibatte confusa e sconnessa, avanza senza sapere dove, guarda in alto e trova il cielo vuoto, non ha fede e invoca una nuova rivelazione, crede di essere libera e non sa comandare neanche a se stessa, più ricca che in passato e più miserabile che mai. Il trionfo dell’industria doveva fatalmente portare a questo stato di cose, in quanto l’era industriale ha un unico ideale, la ricchezza, e non ammette nient’altro. La formula del guadagno a tutti i costi ha invaso tutti gli ordini della società e livellato tutte le opere, perchè tutti vogliono sempre e solo guadagnare, dall’imprenditore più benestante al più ottuso dei bottegai. Ciò ha segnato l’apoteosi dell’ignoranza, della materia, della volgarità, e lo si vede benissimo nella religione arroccata in difesa dei suoi privilegi, nella filosofia (dove viene celebrato il più deplorevole dei sistemi, quello positivista), nell’arte sempre più goffa e stravagante,nella cultura becera e provinciale, nella società rozza e isterica. Profittando delle circostanze propizie, l’Italia ha realizzato nell’Ottocento una straordinaria rivoluzione, quella che ha condotto all’unità
territoriale del Paese, e lo ha fatto con pochi uomini e ancor meno mezzi. Ma si è trattato di una rivoluzione monca e imperfetta, proprio perchè non è stata concepita nè attuata dal popolo. Il compito che attende gli italiani del Novecento non potrà allora che essere quello di fare finalmente una grande Italia, con il concorso e
la cooperazione di tutti. Ma nessuna grande Italia potrà mai sorgere in uno Stato come quello liberale e democratico, che non sa e non intende distinguere tra razza, popolo e nazione, che ignora o finge di ignorare che lo Stato è l’individualità di un popolo, è la sintesi compiuta del suo diritto, della sua religione, della sua
morale e della sua storia sociale e culturale. Prima ancora di pervenire, con il codice delle leggi, alla più alta e matura consapevolezza di sè, lo Stato già esiste in uno spirito che si compone degli istinti caratteristici della
stirpe e di talune differenzevariabili da etnia a etnia, e che già pienamente formano lo spirito della nazione. Lo scarto tra i diversi spiriti nazionali si misura essenzialmente in base alla potenza dell’ideale e all’originalità
della sua espressione: questa è la ragione per la quale non tutti i popoli sono uguali, e non tutte le civiltà prodotte hanno lo stesso valore di fronte alla storia. Le orride teorie positivistiche dell’Ottocento, prosegue Oriani, hanno a tal punto inorgoglito il fiacco e amorfo individuo del nostro tempo da indurlo a pensare che la sua potenza -che può apparire tale solo in superficie- sia di fatto illimitata, per cui in nome della chimeralibertà egli non è più disposto ad accettare la benchè minima restrizione al suo raggio d’azione. Ma non tutto
può essere concesso e non a tutti, regola questa che si insegna ai bambini sin dal corso della prima infanzia.Il più grande e urgente problema di questo secolo non è la libertà, ma l’autorità, è il rispetto delle norme e di chi le fa applicare, è la necessità di gestire la cosa pubblica nell’interesse della collettività e non dei potentati economici. Le tossine sparse a piene mani dalla demagogia populista democratica e dall’eversione marxista hanno purtroppo a tal punto contaminato il pensiero dell’europeo moderno da spingerlo, senza che ne arrossisca, a rifiutare ogni residuo vincolo con la Tradizione dei suoi avi, a reputare ingiusto e arbitrario il principio d’autorità e di gerarchia, a considerare ignobile il passato delle nazioni, caratterizzato da “schiavismo”, oppressione della donna, tirannide e così via. Anche l’imperialismo oggi gode di pessima fama, a causa della prevalenza del fattore mercantilistico che ha trasformato le generose terre d’Asia e d’Africa in
terre di conquista per i mercati occidentali. Ma questa per lo scrittore è solo la versione degenerata e putrida dell’imperialismo industriale rampollo della ribellione borghese del Settecento, e non si può dimenticare con troppa facilità che invece l’imperialismo vanta origini nobili e profonde, essendo nato da una passione antica e degna di venerazione, che è quella che mira alla più sacra e ambiziosa meta della storia: l’unità e la totale pacificazione del genere umano, da potersi ottenere solo nel grande impero universale vagheggiato da tutti gli uomini degni di fregiarsi di questo appellativo. Quale dovrà dunque essere, in un contesto siffatto, il compito che attende ogni vero italiano? Essere forti per diventare grandi, questo per Oriani è il dovere: espandersi, conquistare spiritualmente e materialmente, con l’emigrazione, con i trattati, con i commerci, con l’industria, con la scienza, con la religione, con l’arte, con la guerra. Ritirarsi dalla grande competizione internazionale è impossibile, e questo significa che bisognerà trionfarvi. L’avvenire sarà di coloro che non lo avranno temuto, perchè la fortuna e la storia da sempre sorridono ai forti che sono capaci di soggiogarle. Anzichè seguire
allora le strampalate teorie del femminismo e del socialismo, che esigerebbero la donna uguale all’uomo (che è un assurdo anche in termini biologici) e il proletariato uguale alla borghesia (che è un assurdo anche in termini economici), l’Italia dovrà subito porsi il problema di allevare un popolo nuovo, giovane, ardente, in grado di presentarsi puntuale all’appuntamento con la storia, dal momento che l’ora della rivolta ideale sta finalmente per scoccare. Cos’è la “rivolta ideale”, in definitiva, secondo il punto di vista dello scrittore
faentino? “Non falsare la lotta umana con inutili espedienti di legge”, egli afferma nella parte conclusiva del sesto capitolo dell’opera, “lasciare libero l’individuo per imporgli tutte le responsabilità: non pretendere di sostituire la religione colla scienza, la concorrenza colla cooperazione, la famiglia col libero amore, la patria col cosmopolitismo, la gloria colla celebrità: volere nell’uomo tutto l’uomo, colle angosce della sua fede, coll’eroismo della sua carità, col calcolo della sua ragione, col suo istinto e col suo genio, che fanno di tutte le generazioni un uomo solo: proclamare che la verità è soltanto nell’ideale ma dentro un mistero, nel quale il dolore mette una voce e il pensiero un lampo: amare nella speranza del bene, quando la gioventù sorride; amare nella pietà del male, quando la vecchiezza non sa nemmeno più piangere: salire a tutte le bellezze, credere a tutte le virtù, consentire tutti i sacrifici offrendosi intero alla vita e accettando la morte come un premio: ecco la rivolta ideale”: A farsi carico della conduzione della rivolta ideale dovrà essere la nuova aristocrazia italiana dello spirito, chiamata a prendere il posto dell’antica oligarchia guerriera e sacerdotale.
L’aristocrazia autentica infatti non muore mai. “L’aristocrazia è immortale. La superiorità, che prepara il carattere aristocratico, comincia nella natura degli individui: è una eccellenza, che li rende diversi dalla folla e da essa facilmente riconoscibili: quindi per segreta affinità elettiva s’adunano, la loro medesima uguaglianza li gradua, le differenze di attitudini suggeriscono le gerarchie, l’unità dell’opera li fonde e la sua durata consolida il loro ordine”.

PENSIERINO CONCLUSIVO
Nei Quaderni dal carcere, l’intellettuale comunista Antonio Gramsci scrisse questo giudizio su Alfredo Oriani: “Occorre studiare Oriani come il rappresentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionalepopolare italiana, fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione”: Questo elogio del mat del Cardel ha mandato su tutte le furie l’intellettuale comunista Alberto Asor Rosa, che nella Storia d’Italia edita da Einaudi si è chiesto, con suo profondo rammarico, perchè mai il padre fondatore del PCI abbia stilato un parere così positivo del profeta del fascismo. Non sarà che Gramsci aveva intuito che l’idea di popolo coltivata da Oriani fosse la più vera e la più schietta, lontana com’era dalle fisime barricadere della “lotta di classe” dei seguaci di Karl Marx?
MARZIO DELLA VENERE

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