giovedì 7 novembre 2019

Taranto e l’Ilva l’industrializzazione barbarica che ha ucciso la città


Parla Salvatore Romeo, autore di “L’acciaio in fumo”, libro che ricostruisce il tormentato rapporto tra la città e la fabbrica siderurgica: “A Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali è emersa già negli anni ’70, ma nulla è stato fatto per invertire la rotta perché la politica non è stata in grado di anteporre l’interesse pubblico a quello dell’azienda”.
intervista a Salvatore Romeo di Enzo Ferrara*



“Mi interrogo sulla mia città, su quella che è stata la sua storia e il suo rapporto con la fabbrica, l’elemento più importante e decisivo della storia recente di Taranto”. La tormentata storia dell’Ilva, una parabola che da più di 50 anni trascina assieme una fabbrica e una città nell’evoluzione della siderurgia italiana. Ad analizzarla, in un recente libro, è Salvatore Romeo - dottore di ricerca in Storia Economica a attualmente insegnante - con il suo L’acciaio in fumo (Donzelli, 2019). In passato già autore di diversi articoli e saggi sul tema e curatore di una raccolta di scritti di Alessandro Leogrande su Taranto Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (Feltrinelli, 2018), l'abbiamo incontrato per ricostruire i fatti.

La prima considerazione che si può fare leggendo il tuo libro è che fortunatamente, nonostante la crisi, sembra esserci una generazione capace di reagire e di svolgere elaborazioni profonde. La stessa generazione di Alessandro Leogrande, una delle menti più lucide dei nostri tempi, che già aveva dedicato a Taranto un altro libro, “Fumo sulla città” (Fandango 2013). Voci che esprimono anche frustrazione, ma coscienti e con un’attenzione al proprio territorio che non è comune.

Io posso parlarti della mia esperienza e di questo libro su cui lavoro da tempo. Tutto è nato dal contatto, dal rapporto quotidiano con una realtà oggettivamente difficile, che non ha mai pienamente assimilato la presenza incombente del siderurgico.

In realtà, alla fine le comunità si rimpadroniscono della propria città, del territorio, anche nelle condizioni più deteriorate. Taranto oggi è come Seveso negli anni ‘70 e Napoli negli ’80, o come Cengio e la val Bormida negli anni ‘90. Non esistono luoghi infernali o paradisiaci in assoluto, ma quali sono stati i momenti fondamentali nello sviluppo di Taranto fino a oggi?

Individuerei quattro momenti. Il primo, senz’altro, è l’insediamento dell’Arsenale militare, alla fine dell’800. Quella che era un’anonima cittadina della provincia meridionale partecipa così al “decollo” dell’industria italiana, trainato dal “complesso militare industriale” e dalle ambizioni di grande potenza che l’Italia continua a coltivare fino alla seconda guerra mondiale. Questo modello entra in crisi con la sconfitta bellica; Taranto sprofonda così in una crisi tremenda, che non è solo socio-economica: è una crisi di identità.

Il secondo momento coincide con il dibattito che si sviluppa negli anni ‘50 intorno alla realizzazione di un nuovo centro siderurgico “a ciclo integrale”. Per la prima volta si afferma l’idea che l’industria di stato dovesse servire al perseguimento di finalità “sociali”; in particolare, allo sviluppo della parte più arretrata del paese: il Mezzogiorno. La scelta cade su Taranto, che così viene riconnessa alle dinamiche di fondo dell’economia nazionale.

Il terzo momento si apre con il cosiddetto “raddoppio”, quando la potenza produttiva del siderurgico viene portata da 5 a 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. Siamo agli inizi degli anni ’70, e buona parte di quel decennio sarà attraversata da un’accesa conflittualità tra l’azienda (Italsider) e la comunità locale. La contestazione riguarda essenzialmente l’approccio strumentale di Italsider nei confronti del territorio, la sua sostanziale indifferenza nei confronti degli impatti problematici del siderurgico. Emerge una forte soggettività operaia che cerca di condizionare le scelte aziendali e l’organizzazione del lavoro; si sviluppa una grande vertenza – la “vertenza Taranto” – per la diversificazione produttiva e il superamento della “monocultura dell’acciaio”. L’obiettivo è trasformare la fabbrica in un fattore propulsivo per lo sviluppo locale; e in effetti si ottiene una maggiore responsabilizzazione di Italsider nei confronti del territorio.

Il quarto momento si apre con la crisi che sconvolge la siderurgia mondiale e si intreccia alle trasformazioni economiche degli anni ’80 e ’90. Il lungo processo di ristrutturazione – che culmina nel 1995 con la privatizzazione – segna un passaggio traumatico: le necessità del risanamento economico impongono un progressivo ridimensionamento della funzione della fabbrica come fattore di sviluppo, che si accompagna alla perdita di peso e di potere del movimento operaio. Da quel momento il siderurgico inizia ad essere percepito sempre più come un corpo estraneo che non dà benessere, non favorisce lo sviluppo, ma crea problemi.

L’ILVA è per decreto (D.Lgs 3 dicembre 2012, n. 207) uno stabilimento di interesse strategico nazionale, separato dal territorio in cui sorge, difficilmente accessibile e in opposizione alla comunità locale. Esattamente il contrario del modello di fabbrica aperta immaginato da Olivetti a Ivrea.

La questione va inquadrata in una prospettiva storica. Nella realtà non esistono “modelli”: ogni rapporto si sviluppa sulla base di dinamiche concrete, che mutano nel tempo. Nei confronti delle comunità locali le partecipazioni statali avevano un approccio che non era quello di Olivetti, ma presentava comunque elementi molto avanzati per gli standard del capitalismo italiano dell’epoca: Italsider a Taranto realizza un intero quartiere per i lavoratori (l’attuale “Paolo VI”), promuove una politica culturale intensa. Ciò non toglie che, nel momento in cui si insedia a Taranto, l’approccio dell’azienda al territorio è orientato da criteri squisitamente tecnico-economici. Ai dirigenti del gruppo pubblico quella localizzazione era stata quasi “imposta”, per cui cercano di adattarla il più possibile alle proprie esigenze. Questo spiega, fra le altre cose, la scelta dell’area di insediamento, a ridosso del quartiere Tamburi: era la zona più vicina allo scalo marittimo individuato dai tecnici dell’azienda.

È questo tipo di approccio che viene messo in discussione negli anni ’70. Il raddoppio prospetta l’ulteriore espansione della fabbrica e una sorta di monopolio dell’azienda su una risorsa decisiva: il mare. Intorno a questo nodo si sviluppa uno dei momenti più importanti della vertenza Taranto: le istituzioni locali e i sindacati cercano di ritagliare uno spazio per la creazione di un porto pubblico – non sottoposto al controllo esclusivo di Italsider com’era stato per i moli realizzati fino a quel momento –, da mettere al servizio di un progetto di diversificazione produttiva che guardasse a un ambito territoriale più vasto della sola città di Taranto. È su queste basi che nasce il cosiddetto “molo polisettoriale”.

Il conflitto territoriale si intreccia a quello sociale. Il movimento operaio mette in discussione le gerarchie di fabbrica e il particolare tipo di rapporto fra fabbrica e città delineatosi nella fase precedente. Negli anni ’70 il siderurgico – come tutti i grandi stabilimenti in Italia – è attraversato da movimenti di ogni tipo. La ristrutturazione incide soprattutto su questo elemento, riportando una “normalità aziendale” che, con i Riva, diventa restaurazione padronale. La vecchia classe operaia lascia il posto a personale giovane, senza cultura sindacale e con un potere contrattuale di gran lunga inferiore. Su questa base la nuova proprietà può plasmare una “comunità aziendale” sostanzialmente chiusa in se stessa e contrapposta al contesto circostante, con i lavoratori in posizione subalterna. Un elemento che influirà in maniera decisiva sull’evoluzione dell’emergenza ambientale.

Nel tuo libro racconti di personaggi come Antonio Cederna e Walter Tobagi, giornalisti e sociologi che con le loro analisi e scrivendo anche di Taranto raccontano la nascita di una sensibilità ambientalista. Cederna parlò di una “industrializzazione barbarica”.

A Taranto la consapevolezza dei problemi ambientali emerge già negli anni ’70, nel momento in cui una sensibilità per i frutti avvelenati dello sviluppo economico matura in tutto l’Occidente. Il 1971 è un anno cruciale da questo punto di vista. Italia Nostra, che aveva denunciato la colmata a mare per il raddoppio del siderurgico, promuove un happening per le strade della città con artisti d’avanguardia rivendicando “un’industrializzazione umana”; l’amministrazione provinciale organizza un grande convegno nel quale si discutono le diverse problematiche ambientali – dall’inquinamento atmosferico a quello delle acque –; le sinistre, attraverso l’Arci, organizzano a loro volta un momento di discussione per contestare la “colonizzazione” del porto. Poi è chiaro che si media. L’Italsider ha un grande potere e ha al suo fianco il governo. La sensibilità che emerge in quel frangente inevitabilmente deve fare i conti con altre esigenze. D’altra parte è ancora tutto molto prematuro. Siamo alle prime avvisaglie di una consapevolezza che maturerà solo col tempo dopo tanti drammi e tanti traumi.

Non è allora possibile leggere la questione dell’acciaieria di Taranto nel solco della cosiddetta auto-colonizzazione dell’Italia, con lo spostamento delle produzioni industriali più problematiche al Sud dove erano meno forti le pressioni territoriali, ambientali e anche sindacali?

È una lettura sbagliata. Bisogna anzitutto tener conto di come quell’intervento fu deciso. Alla fine degli anni ‘50 il progetto alternativo a Taranto era promosso, tra gli altri, dalla FIAT e dal gruppo Falck, che volevano realizzare un nuovo centro siderurgico privato a Vado Ligure. Non c’era nessuna intenzione di spostare al Sud la produzione. Il gruppo Finsider si oppose fino all’ultimo alla realizzazione del nuovo stabilimento al Sud, perché lo riteneva antieconomico, troppo lontano dai principali centri di consumo, che erano al Nord. Furono le forze progressiste a imporsi in quel caso: la “nuova” Democrazia Cristiana di Fanfani, le sinistre, il sindacato.

Per questo credo che il concetto di “auto-colonizzazione” sia da rigettare. Nel libro parlo piuttosto di “integrazione subalterna” di una parte del Mezzogiorno nell’economia nazionale. Dal confronto serrato fra politica e industria pubblica emerge una mediazione: se la prima ottiene la localizzazione meridionale, la seconda mantiene il controllo su tutti gli aspetti industriali dell’operazione. Il siderurgico quindi, concepito originariamente come fattore di sviluppo dell’economia meridionale, finisce col servire principalmente i mercati del Nord. Un esito inevitabile, data la particolare struttura dell’economia italiana del tempo e i limiti di un intervento pubblico poco articolato (un approccio più estensivo sarà adottato solo alla fine degli anni ’60), ma anche la prospettiva del mercato unico europeo, che spinge l’industria italiana a intensificare gli sforzi di ammodernamento. In questo modo si rafforza il legame fra il capoluogo ionico e l’economia nazionale; di contro, il siderurgico non fornisce al contesto locale quell’impulso verso uno sviluppo autonomo che alcuni suoi sostenitori (pensiamo a Pasquale Saraceno) avevano prospettato. Matura così un’industrializzazione estroflessa, in cui le forze economiche locali hanno un ruolo marginale, anche perché troppo deboli per reggere l’impatto di un’impresa di quel tipo. Come modificare questo quadro, rendendo il siderurgico un fattore di modernizzazione del tessuto produttivo locale, sarà il tema della lunga stagione di lotte degli anni ‘70.

Arriviamo alla situazione recente: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, addirittura con decreto legge spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 per il benzo(a)pirene, una sostanza cancerogena prodotta dall’acciaieria. La regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Com’è stata possibile una deriva delle contraddizioni attorno al siderurgico di Taranto fino alla promulgazione di leggi contrarie alla Costituzione e allo stato di diritto, come ha sentenziato la Corte Europea di Strasburgo lo scorso 24 maggio condannando lo stato italiano per violazione dei diritti umani a causa della mancata bonifica dell’ILVA?

Allo storico interessa capire come si sono sviluppate certe dinamiche, non emettere giudizi. La questione centrale a me sembra consista nei ritardi e nelle contraddizioni che hanno caratterizzato l’adeguamento dell’Italia ai più elevati standard di protezione dell’ambiente. Dopo la contestazione degli anni ’70 in Occidente si è iniziata a costruire un’articolazione tecnica e legislativa per controllare, reprimere e prevenire i fenomeni di inquinamento. L’Italia non solo arriva in ritardo rispetto ai principali paesi europei, ma si rivela spesso inadempiente. Da questo punto di vista la vicenda di Taranto è emblematica. Prendiamo un provvedimento importante come l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). Questa nasce per dare attuazione alla cosiddetta “direttiva IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control)” dell’Unione Europea sulle emissioni industriali: la norma è emanata nel 1996, l’Italia la recepisce nel 1999, ma solo nel 2005 viene finalmente istituita la procedura per il rilascio delle AIA. L’iter che riguarda Ilva si apre addirittura nel settembre 2007, a poche settimane dalla scadenza dei termini per il rilascio dell’autorizzazione fissati dalla direttiva del ’96, e si prolunga fino all’agosto 2011. In tutto questo tempo, attraverso una trattativa fra governo e azienda – in cui cerca di svolgere un ruolo anche la Regione Puglia che, al contrario di quello che dicevi, è molto attiva sul fronte ambientale a partire dall’insediamento della giunta Vendola – si cerca di far adottare a Ilva alcune delle “migliori tecniche disponibili” necessarie per ridurre le emissioni nocive. Ma l’esito è controverso.

Nell’ultimo capitolo del libro faccio un parallelo con l’acciaieria di Duisburg, in Germania, molto simile a quella di Taranto. A Duisburg nei primi anni 2000 vengono interamente sostituite le batterie dei forni a coke – dove il carbon fossile si trasforma nel combustibile per gli altoforni –, e l’intera cokeria viene allontanata dal centro abitato: un’operazione che costa alla ThyssenKrupp circa ottocento milioni di euro. In quella stessa fase, e negli anni successivi, gli interventi realizzati a Taranto sono molto meno radicali. A Duisburg il problema del benzo(a)pirene – un cancerogeno della famiglia degli Idrocarburi policiclici aromatici (IPA) – viene sostanzialmente risolto, mentre a Taranto ancora nel 2011, dopo tutti gli interventi di adeguamento realizzati dall’azienda, le concentrazioni di quella sostanza continuano a superare il valore-obiettivo sancito dalla legge. Si arriva così al 2012, all’inchiesta della magistratura che porterà al sequestro dell’impianto, che nasce anche da una perizia chimica che dimostra come le tecniche adottate dall’Ilva fossero in ritardo rispetto alla normativa europea, che intanto aveva subito più di un aggiornamento.

L’Ilva dei Riva, insomma, accumula un significativo gap tecnologico rispetto ai principali concorrenti europei in tema di performance ambientali. Questo vuol dire che si poteva fare lo stesso anche a Taranto: le tecniche per risolvere il problema esistevano. Sono mancate due cose: una politica in grado di anteporre l’interesse pubblico a quello dell’azienda e un’azienda abbastanza forte da reggere quella mole di investimenti. In Germania l’operazione di ammodernamento delle cokerie è stata fatta anche con il coordinamento del Land del Nord Reno Vestfalia, nel quadro di una programmazione pubblica, ma è stata pagata con i soldi della ThyssenKrupp.

Nell’ultimo capitolo del tuo libro “Fuoco alle polveri” e nell’epilogo racconti il susseguirsi delle vicende giudiziarie e delle mobilitazioni cittadine più recenti, però non offri una soluzione né una proposta.

Lo storico non può dare soluzioni: deve provare a ricostruire i fatti. Io credo che si siano persi anni preziosi, dal 2012 ad oggi, per consegnare definitivamente il problema dell’emergenza ambientale ai libri di storia. Qualcosa è stato fatto, ma nulla di risolutivo. Oggi ci troviamo in una fase gravida di incognite e di fatto il processo di risanamento è nelle mani di una multinazionale. Mi auguro che la prossima edizione non si chiuda come nella canzone di Springsteen che apre il libro: con una città ancora più impoverita e allo sbando.


* direttore Editoriale di Medicina Democratica

(20 giugno 2019)

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