di Filippo Rizzi
Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /04 /2011 - 18:40 pm | Segnala questo articolo
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Il Centro culturale Gli scritti (7/4/2011)
Una figura che ha inciso come un’ombra ingombrante, con i
suoi gesti, la sua condotta di vita devota e mistica, quasi bigotta, sulla
storia di Casa Savoia e del Risorgimento. Lo è stato certamente Carlo Emanuele
IV, re di Sardegna dal 1796 al 1802, avo di Carlo Alberto (di cui fu padrino di
battesimo) e di Vittorio Emanuele II. Un personaggio dimenticato negli annali
dell’araldica sabauda e rimosso dalla storia ufficiale del Risorgimento, ma che
più di quarant’anni prima della proclamazione del Regno d’Italia – avvenuta il
17 marzo 1861 – dopo aver abdicato al trono, si fece gesuita e si spense a Roma
il 6 ottobre 1819 nella casa di formazione dell’ordine a Sant’Andrea al
Quirinale.
Figlio di Vittorio Amedeo III e appartenente al ramo
primogenito di Casa Savoia (dopo di lui e prima della salita al trono di Carlo
Alberto, saranno re di Sardegna i suoi fratelli minori Vittorio Emanuele I e
Carlo Felice) il «monarca che si fece gesuita», nato a Torino il 24 maggio
1751, sarà sovrano del piccolo Stato dal 1796 al 1802: un arco di tempo breve
ma cruciale per la storia, perché proprio in quel periodo l’Europa sarà il
teatro dei moti giacobini della Rivoluzione francese e dell’ascesa di
Napoleone. Sotto il suo governo la corona perderà, esclusa la Sardegna, buona parte
dei beni per mano del generale Bonaparte.
E a testimoniare ancora oggi la sfortunata sorte del sovrano
sabaudo sono le parole di Vittorio Alfieri: «Infelice e purissimo principe».
Molto devoto alla religione cattolica, sulla scia del suo avo il beato Amedeo
IX, Carlo Emanuele divenne tra l’altro terziario domenicano ed ebbe come
precettore il barnabita e poi futuro cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil. Le
testimonianze e le cronache del tempo raffigurano questo rampollo Savoia come
uomo di salute cagionevole, «malaticcio», soggetto ad attacchi epilettici,
restio a succedere al padre Vittorio Amedeo, con tendenze alla vita monastica:
dedito più a «sgranare rosari» – come racconta lo storico Bruno Manunta – che a
interessarsi degli affari del suo Stato. Nel 1775 a Chambéry sposa per procura
Maria Clotilde di Borbone, la sorella dell’«infelice» re ghigliottinato di
Francia, Luigi XVI. Un matrimonio che sarà sempre contrassegnato da una grande
intesa e devozione alle pratiche della Chiesa: Clotilde morirà a Napoli nel
1802 «in concetto di santità», così narrano le fonti storiche del tempo, e sarà
dichiarata venerabile nel 1808 da Pio VII.
Il breve governo del «re pio», da vero uomo dell’Ancien
Régime, sarà soprattutto contraddistinto dalla difesa del mondo precedente alla
Rivoluzione francese ma anche alla tutela – lo testimoniano molti dei suoi
scritti – dei diritti della Chiesa e del potere temporale dei papi. Una
venerazione particolare di Carlo Emanuele IV sarà quella al sacro velo della
Sindone, di fronte alla cui immagine sosterà per ore nel 1798, prima di
lasciare, senza mai farvi più ritorno, la sua Torino, occupata dalle truppe
francesi. Ma di questa figura «irregolare» e controcorrente di Casa Savoia,
lontana dalle tendenze massoniche che contraddistinsero molti dei futuri
sovrani d’Italia, colpisce la vita austera e morigerata condotta a Roma dopo
l’abdicazione, avvenuta il 4 giugno 1802 a Palazzo Colonna, e ovviamente il suo
ingresso nella Compagnia di Gesù l’11 febbraio 1815. In questo arco di tempo
Carlo Emanuele IV mantenne a livello personale il titolo di re, oltre a una
piccola corte addetta alle sue necessità di ex monarca in esilio (imponeva ai
suoi domestici la comunione almeno una volta ogni due settimane), ma donò anche
buona parte dei suoi averi (compresi oggetti e abiti personali) ai poveri della
Città eterna.
Come testimoniano i suoi biografi, i gesuiti Teofilo
Manzotti e Pietro Galletti, l’ex re in coerenza coi suoi principi non accettò
la lauta pensione concessagli da Napoleone o oppose un netto rifiuto alla
scorta militare offertagli da Gioacchino Murat per la tutela della sua persona.
Infine, alla veneranda età di 64 anni e quasi cieco, fece il suo ingresso come
novizio nell’Ordine ignaziano, di cui era devotissimo e del cui ristabilimento
era stato – assieme al fratello Vittorio Emanuele I e con l’assenso di papa Pio
VII – uno dei fautori dopo la soppressione avvenuta nel 1773.
Un ruolo fondamentale nella scelta religiosa, letta con gli
occhi di oggi come «forte», fu l’ascendente spirituale giocato su di lui dal
gesuita di nobile famiglia, divenuto poi santo, Giuseppe Pignatelli. Per volere
di Pio VII, i voti di Carlo Emanuele furono pronunciati in forma privata; ma
per rispetto al rango di re gli venne permesso di tenere con sé una mini-corte
di 7 od 8 persone compreso il confessore, il francescano Mariano Postiglione,
tutti alloggiati in un’ampia ala del noviziato che corrisponderà anni dopo –
ironia della sorte – alla sede del ministero della Real Casa... Per suo volere
Carlo Emanuele IV fu sepolto nella chiesa di Sant’Andrea con l’abito della
Compagnia di Gesù: lo stesso vestito «spagnuolo» indossato dal fondatore
Ignazio di Loyola e con il quale – testimonierà anni dopo il gesuita Enrico
Rosa – «molti padri saranno ministri di conforto ai combattenti e feriti di
Porta Pia», il 20 settembre 1870. L’8 ottobre 1819, sempre per volere del Papa,
i suoi funerali furono solenni, secondo il rito dei re, e sul feretro vennero
posti i simboli della sua vita: la berretta da religioso, la corona reale e lo
scettro. Il fratello Carlo Felice anni dopo gli farà erigere un monumento
funebre (ancora oggi visibile) nella piccola chiesa di Sant’Andrea al
Quirinale.
Ma il nome di Carlo Emanuele tornerà ad essere rievocato nel
dibattito pubblico risorgimentale anni dopo, esattamente il 24 ottobre 1860;
quando il preposito generale della Compagnia di Gesù, il belga Pietro Beckx,
indirizzò a Vittorio Emanuele II una lettera di reclamo contro la confisca di
molti beni dei gesuiti e della Chiesa da parte dello Stato sabaudo. L’incipit
della missiva partiva proprio dal ricordo romantico di Carlo Emanuele che «dal
Trono, ove Ella regna al presente, scese volontariamente, per morire fra noi,
vestito dell’abito, legato dai voti della Compagnia di Gesù… Protesto innanzi a
tutti i cattolici, in nome dei diritti della Chiesa sacrilegamente violati». La
franca protesta, com’era da immaginarsi, non sortì alcun effetto sull’animo del
«re galantuomo» e anzi, secondo lo storico gesuita Giacomo Martina, fu
interpretata con «sottile ironia e sorriso» dagli ambienti liberali del tempo.
Ma padre Beckx andò a deporre quella lettera sulla tomba di Carlo Emanuele IV,
a pochi metri dal Quirinale: proprio il palazzo che diventerà di lì a pochi
anni dopo la dimora ufficiale dei re d’Italia.
http://www.gliscritti.it/blog/entry/781
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