Prima parte
La Rivoluzione francese
di Ubaldo Sterlicchio
Nelle scuole italiane si insegna a magnificare la
Rivoluzione francese, la c.d. Repubblica partenopea ed il Risorgimento
italiano, ingannando gli studenti i quali, in buona fede credono a quanto viene
loro propinato dai propri docenti.
Un dipinto ben... riuscito per spacciare chiacchiere |
Le perverse ideologie
giacobino-massoniche settecentesche, infatti, avevano corrotto le menti ed i
cuori di quei sedicenti intellettuali e patrioti che non esitarono un solo
istante a far uso delle armi contro il proprio popolo.
|
Quantunque sfoggiassero uno slogan
propagandistico dal formidabile effetto psicologico: «Liberté – Egalité
– Fraternité», i rivoluzionari batterono ogni record
contrario ai principî da loro stessi proclamati. Infatti, con reiterate
violazioni della Libertà, mai le prigioni della Francia furono così
piene di
detenuti come durante il periodo rivoluzionario; in relazione al principio
della Uguaglianza, tutti i francesi vennero chiamati
«cittadini», ma fu inaugurata l'ineguaglianza più odiosa, quella tra ricchi e
poveri; mentre la Fratellanza valse solamente per gli appartenenti ai club giacobini,
conformemente alla mentalità massonica, secondo la quale sono gli affiliati
alla sétta ad essere «fratelli» tra loro, mentre i «profani», cioè le persone
comuni, non vengono considerati nemmeno esseri umani!
Il 14 luglio di ogni anno ricorre la festa della
Repubblica francese, in memoria del giorno della celeberrima presa della
Bastiglia (1789). Sarebbe però appena sufficiente considerare che in quella
prigione, al momento dell’assalto da parte di poche centinaia (non raggiunsero
il migliaio) di rivoltosi, si trovassero solamente 7 reclusi (4 falsari, 2
mentecatti ed un maniaco sessuale: nessun detenuto per motivi politici od
ideologici), per comprendere come l’89 francese sia un mito artatamente
costruito a tavolino, frutto di vergognose manipolazioni storiografiche.
Leggendo poi le strofe della «Marsigliese» – inno
nazionale francese – ci rendiamo conto come esse siano state (e lo siano
tuttora) un fanatico e veemente invito all’eliminazione fisica di tutti coloro
che non la pensassero come i giacobini: si tratta di un vero condensato di
intolleranza e di violenza verbale. Il pensiero giacobino, peraltro, è
sostanzialmente racchiuso nell’affermazione: «o con me o contro di me!».
La macabra ghigliottina |
Un altro dipinto ben riuscito... per impressionare gli spiriti deboli |
Lo
scrittore cattolico Augustin Cochin, nel suo saggio «Lo spirito del giacobinismo»,([5]) non è il solo a sostenere che la
rivoluzione francese non ebbe mai il consenso spontaneo del popolo. Furono
sempre e solo gruppi di manipolatori della pubblica opinione, uniti a circoli
estremisti capeggiati da fanatici, a proclamarsi interpreti della volontà collettiva,
in nome dell’interesse pubblico. Questi gruppi ricorsero sistematicamente alla
calunnia, praticando per primi il terrorismo psicologico allo scopo di
alimentare la tensione e suscitare violenze, come nel caso della «grande paura»
del 1789 nelle campagne.
In
particolare, la Vandea e la Bretagna insorsero e lottarono per anni contro gli
eserciti della rivoluzione, che praticarono il primo genocidio dell’era
moderna: 250-300 mila contadini, colpevoli di battersi per la religione
Cristiana e per il Re, vennero infamati con l’epiteto di «briganti» e
democraticamente massacrati.
François Joseph Westermann |
Questo
«eroico» generale, democratico e repubblicano, che non era né un millantatore,
né un vanaglorioso e né tanto meno un visionario, ma che era solo ed
esclusivamente – questo sì – un ufficiale indegno, che aveva lordato il
proprio onore di soldato e di uomo, commettendo crimini che, per lui, costituivano
titoli di merito e di lode, purtroppo aveva scritto la pura e semplice verità.([6])
A
giusta ragione, per le atrocità commesse, Westermann venne soprannominato «il macellaio
della Vandea» (in francese «Le boucher de la Vendée»).
Nella
sola Vandea vennero infatti massacrati 150 mila contadini, offerti in
sacrificio all’Essere Supremo per annientare il male ed instaurare l’età
dell’oro repubblicana.([7])
Il consenso popolare era talmente «sentito» che, per
terrorizzare la gente, vennero istituiti 20.000 tribunali rivoluzionari aventi
diritto di vita o di morte: non c’era possibilità alcuna di appellarsi o di
addurre prove e testimonianze a difesa degli accusati.
La rivoluzione fu anche «esportata» con le armi e almeno
due milioni di francesi (in maggioranza figli del popolo) morirono lontani
dalla loro terra.
La Rivoluzione napoletana
Stampa dell’epoca raffigurante
la cosiddetta Repubblica
(giacobina)
Napoletana
|
I giacobini napoletani, infatti, con l’appoggio delle
truppe straniere ed anch’essi attraverso il solito colpo di stato,
instaurarono a Napoli, contro la volontà popolare, una feroce dittatura oligarchica,
impropriamente denominata «repubblica» partenopea.
Nei giorni
21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre l’intera città di Napoli combatteva contro gli
invasori e moriva in difesa della Patria, i giacobini, asserragliatisi
in Castel Sant’Elmo, cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo,
provocando un bagno di sangue fra la propria gente. Questa circostanza ci viene
testimoniata dal generale francese Jean Antoine Championnet, il quale così
relazionò al Direttorio di Parigi: «Si combatte in tutte le strade; il terreno
si disputa palmo a palmo; i Lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il
forte S. Elmo li fulmina [laddove si erano asserragliati i giacobini
napoletani, n.d.r.]; la terribile baionetta li atterra; ripiegano in ordine,
tornando alla carica, si avanzano con audacia, guadagnando spesso terreno...
mai combattimento fu più tenace: mai quadro fu più spaventevole. I Lazzaroni,
questi uomini meravigliosi... sono degli eroi!».([8])
Jean Antoine Championnet |
Durante
l’invasione della Penisola, furono numerosi i movimenti popolari che spontaneamente
insorsero in Italia contro l’aggressione francese: tra i più noti e rilevanti,
rammentiamo i «Viva Maria» in Toscana e le «Pasque Veronesi» nel Veneto;([11])
ma, la resistenza opposta dal popolo di Napoli fu la più fiera, la più ostinata
e la più cruenta che le truppe francesi dovettero affrontare. Migliaia di
valorosi napoletani di ogni estrazione sociale morirono per difendere la
loro terra, la loro Patria.
Durante
l’insorgenza popolare e fino alla riconquista di Napoli da parte del Cardinale
Ruffo (vale a dire nei soli 5 mesi della cosiddetta repubblica!), furono
massacrati dai carnefici franco-giacobini oltre 60.000 regnicoli,
come ebbe a testimoniare il generale francese Paul Thiébault nelle sue Memorie:
«Poche insurrezioni sono state così formidabili. Era una crociata; e, come ho
già detto, dopo averci costretti a disprezzarli come soldati, questi Napoletani
ci hanno insegnato a temerli come uomini. Non appena formavano dei plotoni regolari,
diventavano consistenti; armati come banditi, per mezzo di truppe di fanatici,
erano terribili, e, per così dire, quando non ci fu più esercito napoletano, la
guerra di Napoli diventò terribile. Sebbene questi Napoletani del 1798,
scontrosi e superstiziosi, siano stati battuti dappertutto, sebbene, senza
contare le perdite che subirono nei combattimenti, più di sessantamila sono
stati passati a fil di spada sulle macerie della loro città o sulle ceneri
delle loro capanne, non li abbiamo mai lasciati vinti».([12])
È
doveroso tener presente che, nelle Due Sicilie del ‘700, la maggior parte delle
persone colte seguiva il pensiero politico dell’Illuminismo con animo moderato;
si pensava più ad una monarchia costituzionale che ad una repubblica. D’altra
parte, il disagio materiale del popolo napoletano non era così grave come
quello del popolo francese; e Napoli non era Parigi. Non c’erano pertanto le
condizioni per uno stato insurrezionale, come ben dimostrarono i fatti del 1799
(e, successivamente, dimostreranno quelli del 1820, del 1848 e del 1860). Lo
spirito popolare era borbonico: le masse ed i loro sovrani consideravano i loquacissimi
intellettuali come dei demagoghi, dei pescatori nel torbido.([13]) E poi, come avrebbe potuto un popolo,
con una tradizione monarchica di ben sette secoli, ormai facente parte del suo
DNA, accettare dalla sera alla mattina la sconosciuta ed incomprensibile forma
di governo repubblicana?
Nel
1799 quegli intellettuali, invece, rinunciarono ad un elemento basilare e
peculiare dell’Illuminismo napoletano: l’originalità, l’essere precursori e
propulsori. Con l’arrivo dei francesi, s’inizia la fase dei cc.dd. «liberatori»
cui spalancare le porte e con cui collaborare in posizione gregaria. Questo
atteggiamento si stabilizzerà nell’800 dei «paglietti» e resterà presente fino
ai nostri giorni con i politici meridionali, incapaci di strategie e politiche
originali. Il periodo che parte dal 1799 e termina nel 1816 segna la rottura
definitiva fra aristocrazia e classe media. Se sommiamo questi eventi a quelli
del 1848, capiamo come si determinò l’allontanamento della borghesia nascente
dai destini dirigenziali del Sud. Anche perché sul ceto medio borghese fecero
fortemente leva i sentimenti massonici e liberisti.([14])
Lo
storico Massimo Viglione osserva: «In un dispaccio del 21 gennaio 1799 inviato
dai gia-cobini napoletani al generale Championnet, al fine di invitarlo ad
affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo scritto: “Non
la Nazione, ma il Popolo è nemico dei francesi”». Questa affermazione,
scritta dai filo-francesi durante i giorni della rivolta dei lazzari, con
l’evidente paura di fare una brutta fine, dimostra che le poche decine di giacobini
della cosiddetta repubblica napoletana avevano ben capito che solo l’arrivo
immediato delle truppe d’invasione francesi avrebbe potuto salvarli dalla furia
popolare. E lo stesso storico aggiunge: «Ma, proprio scrivendo quelle parole,
essi dimostravano, a se stessi ed alla storia, il loro totale isolamento da
tutto il resto del popolo. Il fare una distinzione fra la categoria di
Nazione e quella di Popolo, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine
di giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni di individui
di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta essere una
testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche della loro
utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il Popolo,
atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e luogo».([15])
Le
persone intellettualmente oneste e libere da qualsivoglia condizionamento
ideologico, più semplicemente ed obbiettivamente, ritengono che debba chiamarsi
«patriota» solo colui che difende la Patria dall’invasione straniera, fino al
sacrificio estremo della propria vita. Eppure, a distanza di due secoli, nel
1999, il Parlamento della Repubblica italiana stanziò (rectius,
sperperò!) ben 8 miliardi di lire per le celebrazioni di quella effimera
repubblica giacobina di servi e traditori!
Ed è estremamente significativo come, diversamente dagli
altri paesi europei, laddove si festeggiano ancora oggi le ricorrenze storiche
che ricordano le battaglie vinte contro Napoleone e si venerano come eroi
coloro che impugnarono le armi e sacrificarono la propria vita combattendo
l’invasore francese, in Italia si spende denaro pubblico per festeggiare la
«rivoluzione napoletana», che dagli storici più attenti è stata definita, nel
migliore dei casi, con la ridicola denominazione di «rivoluzione passiva», al
fine di giustificare il fatto che essa fu imposta dall’esterno e non maturò
nella stessa società. Si esaltano, nel contempo, personaggi che, pur di imporre
le proprie idee, collaborarono con le forze straniere, consegnando nelle loro
mani la Patria, e non esitarono a fare uso della violenza contro i propri
connazionali.
Infatti, i giacobini napoletani, in soli 5 mesi (tanto
durò la c.d. «repubblica partenopea»), condannarono a morte e giustiziarono,
dopo processi farsa, ben 1.563 oppositori al regime filo-francese.([16])
Attraverso un Tribunale Rivoluzionario ad hoc per
il «giudizio sommario» dei nemici della repubblica, i giacobini
napoletani vollero mostrare il pugno di ferro, coprendosi di inutili crudeltà,
con arresti arbitrari di innocenti e, addirittura, di «distratti»; a
quest’ultimo riguardo, il De Nicola riferisce che «...furono arrestati molti
senza coccarda [con i colori repubblicani, n.d.r.]» e parla di un «...sistema
di terrorismo che nelle attuali circostanze i patriotti vogliono che si
spieghi. E si dice che Pagano e Cirillo possino essere i Robespierre di Napoli».([17])
Lo stesso Vincenzo Cuoco ammise che «negli ultimi tempi si
eresse in Napoli un tribunale rivoluzionario il quale procedeva cogli stessi
principî e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di
Robespierre».([18])
In una lettera a Vincenzo Russo, Vincenzo Cuoco così
scrisse: «Ascoltami. Tu conosci la mia adolescenza e la mia gioventù; tu sai se
io ami la virtù e se sappia preferirla anche alla vita... Ma quando, parlando
agli uomini, ci scordiamo di tutto ciò che è umano; quando, volendo insegnare
la virtù, non sappiamo farla amare; quando, seguendo le nostre idee, vogliam
rovesciare l’ordine della natura: temo che invece della virtù insegneremo il
fanatismo, ed invece di ordinar delle nazioni fonderemo delle sètte...».([19])
Per
Luigi Blanch, il più equilibrato storico di queste vicende napoletane, i giacobini
«erano una minoranza quasi impercettibile aspirante a stabilire, per mezzo
della conquista, una forma di governo non voluta dal paese e appunto in
quell’anno talmente screditata in Francia che con applauso cessò il 18 brumaio.
Ciò ch’essi volevano contrastava coi principî liberali, basati
sull’indipendenza nazionale all’esterno e sul consenso della gran maggioranza
all’interno: furono contenti della dolorosa campagna del ’98 e irritati
dall’energica resistenza popolare... Nel senso morale fu una fortuna che
divenissero vittime; ché, se avessero trionfato, sarebbero stati carnefici
tanto più crudeli quanto più erano pochi. Sacrificati, hanno ispirato
compassione per gl’individui e simpatia per la causa. Sacrificatori, avrebbero
ispirato orrore per gli uni come per l’altra».([20])
Lo storico Harold Acton osservò, infine, che «da allora è
stata perfezionata la tecnica per cui una minoranza può impadronirsi del
potere dello Stato contro la volontà della maggioranza, e la maggior parte
di noi sa dove questo può condurre. Un attento esame della breve vita della
repubblica partenopea ci porta a dubitare che essa avrebbe potuto mantenere il
potere, se non sottomettendo la maggioranza a violenze ed a continue minacce di
violenza. Il che avrebbe generato uno “stato di polizia” molto più disumano di
quello dei Borboni».([21])
dott. Ubaldo
Sterlicchio
[1] Rino Camilleri - “Fregati dalla
Scuola” - Edizioni Effedieffe.
[2] Giuseppe L.P. Picazio, “L’altra
faccia della Rivoluzione francese”, Rivista mensile L’Altra Voce (Solopaca -
BN), novembre 2005, pag. 41.
[3] Coloro i quali desiderassero
verificare i dati riportati, possono consultare il Fouret, il Taine, il
Gaxotte.
[4] Giuseppe L.P. Picazio, opera citata.
[5] Augustin Cochin - “Lo spirito del giacobinismo” -
Edizioni Bompiani.
[6] Giuseppe L.P. Picazio, opera citata.
[7] Epiphanius, “Massoneria e sette
segrete. La faccia occulta della storia”, Controcorrente Napoli, 2008. pag.
139.
[8] Niccolò Rodolico, “Il popolo agli
inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale 1798-1801”, pagg. 129-130.
[9] Harold Acton, “I Borboni di Napoli”,
Giunti, Firenze, 1997, pag. 366.
[10] Gustavo Rinaldi, “1799 la Repubblica
dei traditori. Il popolo del Regno di Napoli contro gli invasori francesi e i
loro lacchè giacobini”, Grimaldi & C., Napoli 1999, pag. 38.
[11] Massimo Viglione, “La Vandea
italiana”, Effedieffe, Milano, 1996.
[12] Paul Thiébault, “Mémoires du Géneral
P.Thiébault”, Paris, 1894, vol. II. pagg. 324-325; in Gustavo Rinaldi,
“1799...”, op. cit., in nota 6, pagg. 38-39.
[13] Autori vari, “La Storia proibita”,
Controcorrente, Napoli, 2008, pag. 212.
[14] Lino Patruno, “Fuoco del Sud”,
Rubettino, Soveria Mannelli, 2011, pagg. 104-105.
[15] Autori vari, op.cit., pag. 205.
[16] Francesco Mario Agnoli, “1799 la
grande insorgenza”, Controcorrente, Napoli, 1999, pag. 288. L’autore,
attenendosi ai conteggi della storiografia progressista, riferisce che «...i condannati
alla pena capitale da un Tribunale... furono 1.563 di parte legittimista e non
più di 120 di parte repubblicana». A tale proposito, egli menziona Giuseppe
Pianelli che, nel seminario da lui tenuto nell’anno accademico 1997-98, La
Storia del Sud vista da Sud, nell’ambito del Corso di laurea in scienze
dell’Educazione dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa,
ricorda come anche Giustino Fortunato, uno studioso certamente non sospetto di
simpatie borboniche, abbia riconosciuto che sedici di quei giustiziati non
hanno in realtà nulla a che vedere con le condanne inflitte dalla Giunta.
[17] Mario Giordano, “Controinformazione
sulla Repubblica Napoletana del 1799”, MG Grafitalia, Cercola, 1998, pag. 67.
[18] Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli”, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2006, pag. 241.
[19] Vincenzo Cuoco, op.cit., Appendice:
Frammenti di lettere dirette a Vincenzo Russo - Frammento VI, Censura, pag.
369.
[20] Luigi Blanch, “Scritti Storici”, a
cura di Benedetto Croce, Sorrento, aprile 1943. Bari, Laterza, 1945, vol. I,
Introduzione; cfr. Harold Acton, op. cit., pag. 457.
[21] Harold Acton, op. cit., pag. 457.
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