“L’assassinio di Giacomo Matteotti non fu un delitto
politico, ma affaristico. Mussolini non aveva alcun interesse a farlo uccidere”
dice il figlio del deputato socialista. “Sotto c’era uno scandalo di petrolio e
la longa manus della corona. La verità verrà presto a galla”.
Intervista di MARCELLO STAGLIENO- da Storia Verità
Ciò che sembra più degno d’attenzione del libro di memorie
di Matteo Matteotti (Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, edito
da Rusconi) è l’ultimo capitolo. Capitolo che, sulla base di nuovi elementi
(ricollegabili a cose che vennero scritte nel 1924 e in anni successivi),
sembra aprire inquietanti interrogativi sull’assassinio di Giacomo Matteotti.
Questi: Vittorio Emanuele III ebbe una parte decisiva nel delitto? Il Re era
implicato in quello “scandalo dei petroli” (l’affare Sinclair) di cui parlò e
straparlò la stampa del tempo e, scoperto da Matteotti, manovrò per
assassinarlo?
In proposito, l’ultimo capitolo del libro è reticente: si
limita a collegare (sempre naturalmente sul piano dell’ipotesi) l’uccisione di
Giacomo Matteotti allo scandalo Sinclair. Invito Matteo Matteotti ad essere più
esplicito.
“Procediamo con ordine. Un pomeriggio del marzo 1978,
m’incontro qui in Roma”, dice Matteo Matteotti, “con un anziano mutilato di
guerra venuto apposta da Firenze, Antonio Piron. Da lui ricevo un documento,
trovato in aperta campagna a Reggello presso Firenze, dentro un tubo di stufa.
Si tratta del testo autografo (i periti l’hanno definito assolutamente
autentico e come tale l’ho riprodotto nell’appendice del libro su carta
intestata “Camera dei deputati” e a firma Giacomo Matteotti) d’un articolo
comparso – anonimo – sulla rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924, ma in
edicola due giorni dopo. L’articolo contiene riferimenti, brevissimi, a due
scandali: bische e petroli”.
D. Parliamo dei petroli?
R. Sì, lasciamo stare le bische, il cui decreto
regolamentare era stato approvato da poco alla Camera. Il riferimento ai
petroli è assai più interessante. Riguarda il regio decreto legge n. 677, in
data 4 maggio 1924, nel quale l’articolo primo afferma: “E’ approvata e resa
esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico, numero di
repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero dell’economia
nazionale e la Sinclair Exploration Company”. Le firme sono quattro: Vittorio
Emanuele, Corbino, De Stefani, Ciano. Ma io ritengo che, da tener d’occhio, sia
proprio Vittorio Emanuele…
D. Sia più esplicito.
R. Nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma
non soltanto quelli – parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere
portata da Giacomo Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare ad
un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che
riguardava appunto, assieme alle bische, i petroli.
D. Suo padre, aveva realmente con sé quel dossier?
R. Non ne ho le prove materiali. Però uno storico serio come
Renzo De Felice afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non
possono essere lasciate cadere a priori” (Mussolini il fascista – La conquista
del potere 1921-1925. Einaudi 1966, p. 626 n.d.a.). Ed esistono due documenti,
sempre citati da De Felice: 1) un rapporto “riservatissimo” di polizia per De
Bono, nel quale si afferma che Turati sarebbe stato in possesso di copia dei
documenti sulla Sinclair che aveva mio padre e dove si precisa che Filippo
Filippelli del Corriere Italiano aveva contribuito all’uccisione per rendere un
servizio all’onorevole Aldo Finzi e al fascismo; 2) un rapporto dell’ambasciata
tedesca a Roma inviato a Berlino (10 settembre 1924) che parla di quei tali
documenti pervenuti nelle mani di mio padre.
D. E dove sarebbero finiti, quei documenti?
R. Forse nelle mani del Re. In appendice al mio libro
intendevo aggiungere a puro titolo d’ipotesi come del resto faccio ora
parlandone, tre articoli. Ma l’editore mi sconsigliò. Il primo era stato
pubblicato su Stampa Sera il 2 gennaio 1978. Era a firma di Giancarlo Fusco,
una cara persona purtroppo scomparsa che aveva fama di spararle grosse. Però
nessuno s’è mai sognato di smentire le affermazioni gravissime di quel suo
articolo. In sintesi, eccole: nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca
d’Aosta, scriveva Fusco, raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924
Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado,
dalla loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere che in un
certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil,
la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che
Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli azionisti senza
sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del Re a mantenere
il più possibile ignorati (coverei) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in
altre zone del retroterra libico.
D. E il secondo e il terzo articolo?
R. Al tempo Ancora riguardo al primo (per restare sul piano
di quest’avventurosa ipotesi, un po’ piduista avanti-lettera), esso potrebbe
spiegare anche come sia “passato” così rapidamente quel decreto-legge, citato
da me poco fa, sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio
reperibile nel sottosuolo italiano, in Emilia e in Sicilia. Un decreto-legge
che non diventò mai esecutivo: una commissione, appositamente per valutare
quell’accordo Italia-Sinclair, il 3 dicembre 1924, lo bocciò. Ma torniamo al
giugno 1924.
D. Parliamo di Vittorio Emanuele III?
R. Sempre sul piano dell’ipotesi. Ai primi di giugno a De
Bono si sarebbe presentato un informatore, un certo Thirshwalder, con una
notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier non solo sui brogli elettorali
fascisti nel ’24, ma anche sulle collusioni tra il re e la Sinclair. De Bono
(forse saltando Finzi, sottosegretario agli interni) interpellò il fido
Filippelli che a sua volta chiese ad Amerigo Dumini di organizzare la
“spedizione” contro Matteotti. Mussolini ne venne al corrente solo due giorni
dopo anche se all’indomani del discorso dello stesso Matteotti aveva esclamato:
“Che cosa fa la Ceka, che cosa fa Domuni!…”e Dumini agì, probabilmente
ignorando chi davvero lo muoveva.
D. Benito Mussolini non aveva alcun interesse a fare
uccidere suo padre…
R. Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su
Roma – riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era
in piena fase di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla
collaborazione rivolto proprio ai socialisti. Per questo l’attacco fattogli da
mio padre pochi giorni prima fece infuriare il duce: è un fatto innegabile. Ma
è altrettanto vero che quel 7 giugno Mussolini pensava – nonostante mio padre –
di poter avere i socialriformisti, D’Aragona e forse Turati, al governo. Ci
sono in proposito due testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo
Silvestri. Anzi a quest’ultimo, come risultava da una sua deposizione al
processo Matteotti rifatto nel 1947, fu proprio Mussolini in persona a
dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato vittima di loschi interessi.
No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere: si sarebbe alienato per
sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi compagni., che non finì
mai di rimpiangere…Del resto, per citare De Felice, possiamo leggere nel suo
saggio che “l’azione contro Matteotti non fu realizzata a caldo, come, per
esempio, era stata quella contro Misuri. Tutti gli elementi emersi in occasione
dei tre procedimenti connessi al delitto (…) provano che la preparazione del
delitto cominciò il 31 maggio, all’indomani del discorso di Matteotti alla
Camera. E’ possibile”, si chiede De Felice, “pensare che, se anche Mussolini
avesse impartito l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita
e non si sarebbe reso conto di un simile atto?”. Lo stesso Pietro Nenni, nel
1929, affermò che quello era stato un delitto affaristico. Mio padre, aggiungo
io, venne assassinato in modo precipitoso…
D. E cioè?
R. Dumini e gli altri della Ceka fascista non avevano con sé
neppure una pala; erano su un’auto del Corriere taliano di Filippo Filippelli,
che era l’uomo di Aldo Finzi. Ma anche a non voler sospettare di Finzi, sono
indubbi i legami di Filippelli con De Bono…L’azione, comunque, fu precipitosa.
La tesi del delitto preterintenzionale non mi convince: ad assassinare mio
padre fu, con una lima, Amleto Poveruomo. Con la certezza di farla franca:
all’auto la polizia risalì solo per caso. Il delitto comunque fu compiuto
subito dopo la pubblicazione di quel tale articolo di Giacomo Matteotti su Echi
e Commenti.
D. Con quali obiettivi?
R. Continuando nella nostra ipotesi, gli uomini della Ceka
erano convinti d’agire in nome di Mussolini; in realtà allontanavano la
possibilità d’un governo con i socialisti, possibilità che doveva spaventare
molto la corona e la borghesia industriale italiana; dall’altra parte davano
soddisfazione al fascismo più intransigente, quello farinacciano; e, infine,
sottraendo quei tali documenti – supposto che esistessero, ed io ci credo –
salvavano (ma senza saperlo: l’unico al corrente era De Bono) la corona dalla
faccenda Sinclair. E’ quanto si legge anche in un articolo pubblicato dall’Avanti!
Nel gennaio 1978, pochi giorni dopo quello di Fusco. Anche esso avrebbe dovuto
trovare spazio nell’Appendice, assieme ad una lunga lettera di Giorgio Spini
(riprodotta a pag. 58n.d.r.), indirizzata alla Stampa nel 1978. Questa lettera
spiega che genere di farabutto fosse Sinclair. Ma chi voglia maggiori dettagli
sulla vicenda, anzi su quello sporco affare in cui erano coinvolti ministri
come Mario Corbino e De Stefani, assieme all’onorevole Jung, all’ambasciatore
Castani e a moltri altri, legga con attenzione il capitolo che alla Sinclair e
al delitto Matteotti ha dedicato Matteo Pizzigallo nell’eccellente saggio
pubblicato nel 1981 da Giuffrè col titolo Alle origini della politica
petrolifera italiana 1920-1925. Per parte mia, sono convinto che altri
importanti documenti, ad avvalorare l’ipotesi del delitto affaristico con la
longa manus della corona, verranno presto alla luce
Il re, una compagnia petrolifera e i giacimenti in Libia
QUEL PATTO SEGRETO CON SINCLAIR
Per chiarire meglio alcuni retroscena del delitto Matteotti,
legati alla cosiddetta “pista del petrolio”, pubblichiamo il testo integrale di
una lettera che lo storicoGiorgio Spini inviò nel 1978 a “La Stampa” di Torino,
in risposta ad un articolo di Giancarlo Fusco sul “caso” Matteotti. La lettera
non venne mai pubblicata dal quotidiano torinese.
Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo
Fusco ha rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di
Savoia ad un gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste
confidenze, Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano
che Vittorio Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia
petrolifera straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo
Persian Oil, la futura British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il
re tra i suoi azionisti gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad
esercitare la propria autorità per impedire che venissero sfruttati i
giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio
1924, in cui il deputato socialista aveva denunciato i crimini commessi dai
fascisti durante le elezioni di quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda
Dumini di aggredirlo: però avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite
manganellature soltanto. Invece, giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere,
in qualità di capo della polizia, che Matteotti era in possesso di questi
documenti compromettenti per il re e che li portava sempre con sé in una borsa.
De Bono volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli la cosa e i due si
accordarono sulla necessità di sopprimere addirittura Matteotti, anziché
bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8
giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma
di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si sentì
più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non
sapere fino a che punto questo racconto del Duca di Aosta possa essere
un’alternativa attendibile alla versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so:
e non pretendo di aggiungere altre rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso
almeno indicare chi era il petroliere Sinclair perché lo sa chiunque abbia
letto un manuale di storia americana. Era uno dei protagonisti del leggendario
affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più clamorosi scandali dell’America del
primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione
repubblicana Harding, Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto
irregolare alla Mammoth Oil Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad
altre compagnie, lo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno
nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome, che invece avrebbero dovuto restare a
disposizione della marina americana per eventuali esigenze belliche. La cosa si
riseppe e venne usata dai democratici per montare una clamorosa campagna contro
l’amministrazione Herding. Fall fu processato sotto l’accusa di essersi fatto
corrompere e finì in galera. Altre complicate vertenze giudiziarie seguirono,
fra cui un processo per corruzione nel 1928 contro Sinclair, da cui il
petroliere uscì assolto benché la stampa sostenesse a gran voce la sua
colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si
chiusero infine nel 1932, ma restano ancora oggi proverbiali in America come
esempio di losca connessione tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove
Aimone di Savoia parlava della Sinclair come di una compagnia inglese connessa
con l’Anglo Persian Oil, si trattava in realtà di un magnate americano del
petrolio già avvezzo a combinarne delle belle con personaggi politicamente
altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento,
H. F. Sinclair voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul
territorio stesso dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il
primo – per quanto almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in
connessione con quello di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti
qualcosa trapelò di questo intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua
maestà il re.
A quel tempo, infatti, una parte della stampa, cioè quella
filofascista, mise in circolazione la voce che Matteotti era stato ucciso non
già per colpa di Mussolini, ma per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in
cui erano coinvolti Finzi, Filippelli e la banda che ruotava intorno al
Corriere Italiano. E fra l’altro fu detto che costoro erano stati pagati da H.
F. Sinclair per ottenere quella esclusiva alla Standard Oil delle ricerche
petrolifere in Italia, cui sopra si è accennato.
Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello
dell’Onorevole Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto
finanziario dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere
conosciuto Sinclair colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone”
fascista; e fu poi denunciato durante l’affare Matteotti, come complice
dell’intrallazzo Sinclair. Può essere interessante ricordare che per l’appunto
un periodico filo-fascista di New York, Il Carroccio, diretto
dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente violento nell’accusare Jung e
la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione del leader socialista.
Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto è vero che fece poi
una bellissima carriera, prima come sperto del governo fascista in varie
trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare
Sinclair considerandole come un’espediente per deviare l’attenzione
dell’opinione pubblica dalle responsabilità di Mussolini e dalla reale natura
politica del delitto. Anche gli storici che si sono occupati dell’affare
Matteotti sono stati indotti da ciò a trascurare questo episodio.
Solo Giuseppe Rossigni, nel suo libro Il delitto Matteotti
tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come Aimone
di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair. Questo
atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di Fusco
sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III potesse avere
tenuto il sacco a Sinclair. Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se
la stampa filo-fascista, tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse
proprio per minacciare il re di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse
sostenuto fino in fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare
Sinclair fu quello di un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di
pasticci: Filippo Naldi. Oltre ad essere stato il direttore del Resto del
Carlino, Naldi era stato uno dei padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al
tempo dell’affare Matteotti stava continuando a fare intrallazzi giornalistici:
aveva fondato un giornale – Il Tempo – ed aveva comprato da Filippelli il
pacchetto di azioni del Corriere Italiano. Fu detto anche che aveva altresì
lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la bocca ai giornalisti
sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore della Standard
Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale Filippelli e fu
arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì dalla circolazione.
L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria
sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse
alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un gruppo
finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto cadde
nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia.
Nell’autunno 1943, quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con
Badoglio, ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria
politica. E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel
libro del compianto Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio
erano nei guai perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un
qualche supporto politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a
che fare con loro. Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo
purchessia, avendo lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi
li cavò da queste difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di
avanzi del vecchio trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito
Democratico Liberale, ed aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di
personaggi talmente oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e
quindi ebbero solo quello di sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un
nome ben noto: Guido Jung. In quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel
1938 e quindi poté tornare a galla nella seducente veste di vittima del
fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con
petrolieri dopo l’affare Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano
potuto ricomparire a fianco di Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So
però che a quel tempo, nell’Italia meridionale, non si muoveva una foglia senza
il permesso degli alleati. Non mi meraviglierei se in qualche archivio
britannico od americano esistesse una pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la
vera causa del delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante
di petrolio. Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il
merito di avere ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale
varrebbe invece la pena di fare qualche altra ricerca.
Giorgio Spini
Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria
Il caso è ancora aperto
Fino a che punto è credibile la “pista del petrolio” come
movente del delitto Matteotti? Lo abbiamo chiesto ad uno storico e a un
giornalista, autori di due libri che affrontano questo tema in modo diverso.
Uno è Giuseppe Rossigni, autore di Il delitto Matteotti fra il Viminale e
l’Aventino (un saggio fondamentale edito nel 1966 da Il Mulino) e l’altro è
Franco Scalzo, autore di Matteotti, L’altra verità (editore Savelli). Queste le
loro opinioni:
Se da un lato non penso di trarne conclusioni diverse dal
passato sulle responsabilità dirette di Mussolini nell’evento del giugno 1924,
non ho elementi nuovi per modificare la valutazione che detti del ruolo svolto
dall’ambiente affaristico del fascismo.
Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per
comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando completai la mia
ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino Rossi), pare debba essere
ricondotto all’interno del gruppo Finzi, interessato alla vicenda petrolifera.
Si parlò infatti di una attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi
che di quel gruppo erano l’ala più intraprendente. In una nota della direzione
generale della PS, del 14 giugno, si leggono una serie di informazioni tratte
da un colloquio con un non meglio precisata “personalità liberale”. Di sicuro
si può dire che Naldi organizzò il silenzio giornalistico sull’affare Sinclair
che, invece, fu approfondito nei suoi possibili risvolti giudiziari durante il
processo di Chieti.
Matteo Matteotti cita (facendo riferimento allo storico De
Felice) un primo documento “riservatissimo” diretto a De Bono senza data: tale
documento, che anch’io avevo citato nel mio volume, porta la data del 14 giugno
e se ne ricava una sola notizia: che Turati fosse la persona in grado di
possedere una parte della documentazione, di cui disponeva Matteotti in merito
alla Sinclair. Gli studiosi sono informati del viaggio a Londra di Matteotti:
invece, non ho mai saputo alcunché della scrittura privata che consentirebbe di
liberare Vittorio Emanuele III, socio della Anglo-Persian-Oil e quindi
interessato alla scomparsa di certi documenti. Questa responsabilità diretta
del re potrà consolidarsi solo se una ricognizione negli archivi inglesi darà
dei frutti, che al presente non sono in grado di prevedere: bisognerebbe bene
capire perché la Sinclair aveva difficoltà ad agire sul mercato italiano,
questa Sinclair che, in fondo, era “una staffetta indipendente” nella lotta tra
le compagnie petrolifere.
Le indicazioni di Giancarlo Fusco, le lettere di Giorgio
Spini ed il saggio di Pizzigallo sulla politica petrolifera tendono ad
approfondire questa controversa interpretazione, ma non ci forniscono una
risposta definitiva. Per cui resta ancora in piedi l’interpretazione
storiografica corrente che, per ragioni diverse, i fascisti e gli antifascisti
ortodossi accreditano: il movente politico e null’altro.
Giuseppe Rossigni
Intrigo internazionale
Un’altra tesi che va contro la storiografia ufficiale
D. Nel suo libro Matteotti, l’altra verità lei sostiene una
tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual è, in
sostanza, questa diversa verità?
R. Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi
fondamentali. L’origine del delitto (più affaristica che politica) ed i
mandanti della Ceka che con la soppressione di Matteotti si prefiggono un
duplice obiettivo:eliminare un testimone scomodo e costringere Mussolini a
gettare la spugna. L’operazione riesce solo a metà, come tutti sanno.
D. Com’è arrivato a questa conclusione clamorosa?Come ha
impostato la sua tesi?
R. Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono
entrato in possesso nel corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un
ordine che non fosse condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla
base di questo complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due
interrogativi. Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la
propria reputazione con un delitto infame dopo appena due mesi dall’apoteosi
elettorale del Pnf? Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti
dell’opposizione avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti
fosse dipeso, almeno in parte, da brogli e dalla violenza squadristica? Una
volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte
si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale
di prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni
ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di
documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che
facesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati
alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco
d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto
erano già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene
si fossero infiltrati nell’entourage di Mussolini; che l’immobilismo statuario
dell’Aventino era un atteggiamento indotto dalla paura delle opposizioni di
dover rendere conto al Pese degli appoggi forniti, da dietro le quinte, all’ala
revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui seno matura la
decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del ’25 e del ’47 sono stati
poco meno o poco più che delle orribili farse…
D. Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era
compiuto da, ma contro Mussolini…
R. Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la
responsabilità del crimine perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare
quella del gotha finanziario che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo
avergli dato il potere minaccia di riprenderselo per trasferirlo a gente più
maneggevole se lui non si rassegna a fungere da parafulmine e da capro
espiatorio. E’ una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce
in pareggio. Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di
disfarsi di certe regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove
vuota il sacco col giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per
ristabilire la verità. Le forze alle quali avevano fatto capo gli istigatori
della Ceka sopravvivono al 25 luglio, come sopravvivranno, più tardi, alla
caduta del regime monarchico. Nel ’47, in riferimento al caso Matteotti la
situazione non è molto dissimile da quella del ’25, e questo spiega il
carattere aleatorio del processo conclusivo di Roma: un atto dovuto, un rito.
D. Che differenza c’è fra la sua tesi e quella avanzata da
Matteo Matteotti?
R. Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel
predisporre il piano dell’11 giugno, e non so da che tragga questo
convincimento, visto che tutti gli indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a
Dumini, a Bazi, a Rossi, a Finzi) erano iscritti, a vario titolo, alla setta.
Lui afferma che è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il duce
copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a Salò
non abbia colto l’opportunità per convogliare in questa direzione almeno una
parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio ’43.
Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia
petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della
“Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente
interessata al business delle bische.
D. Perché, secondo lei, per tanto tempo a nessuno o quasi è
venuto in mente di indagare più a fondo su questo capitolo di storia?
R. Sono incline a ritenere che una certa classe politica e
certi settori della cultura italiana preferiscano soprassedere. La
demonizzazione acritica del fascismo ha fatto leva soprattutto sul falso
scenario del delitto Matteotti: ora tornare indietro con la moviola,
ritrattare, ricredersi costituisce una fatica improba per chi, a mio giudizio,
si è immesso, più o meno in buona fede, sulla direttrice sbagliata.
http://rsicontinuitaideale.blogspot.it/2013/08/delitto-matteotti-parla-il-figlio.html
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