di Alberto Rosselli
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Per molti, troppi
decenni l’esaltazione incondizionata del mito della Rivoluzione russa del 1917,
quello dell’Unione Sovietica e dei sistemi comunisti in generale sono entrati a
fare parte, se così si può dire, della “buona” coscienza collettiva di milioni
di individui convinti della giustezza della “lotta di classe” marxista e dei
metodi adottati in molti Paesi per applicarla. Questo sacro furore fideistico
che per circa settant’anni, dal 1917 al 1989, ha imperversato in Europa e nel
mondo è stato senza dubbio favorito dall’atteggiamento di una vasta porzione di
intellettuali che, attraverso le loro opere e le loro esternazioni, hanno
contribuito a mantenere in vita il mito del più drammatico e fallimentare
esperimento culturale, politico e socio-economico dell’evo contemporaneo. A
distanza di anni appare quindi interessante andare a rileggere ciò che noti
maitre à penser scrissero o dichiararono a sostegno e ad elogio dei “paradisi”
comunisti, primo fra tutti quello moscovita. Già nel 1919, lo storico della
rivoluzione francese Albert Mathiez (1874-1932) giustificò il regime di terrore
instauratosi in Russia, arrivando a paragonare (ma sarà poi un complimento?)
Lenin a Robespierre. Nel 1931, un altro francese, il poeta Louis Aragon
(1897-1982) nel suo Prélude au temps des cerises, dedicò addirittura un
sinistro e grottesco cantico alla Ghepeù (la spietata polizia politica bolscevica):
«Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo/ Viva la Ghepeù contro il
papa e i pidocchi./ Viva la Ghepeù contro la sottomissione alle banche/ Viva la
Ghepeù contro la famiglia», e via di questo passo.
Oltreoceano, non fu
però da meno il romanziere Upton Sinclair (1878-1968) che a proposito della
collettivizzazione sovietica dell’agricoltura, scrisse: «In Russia i
bolscevichi cacciano i contadini ricchi dalla terra e li condannano ai lavori
forzati…Tutto ciò costerà forse un milione di vite, forse cinque milioni…Ma in
fondo nella storia umana non si è mai verificato un qualche significativo
cambiamento sociale senza che ci fossero dei morti». Notevole sensibilità,
acume e spirito umanitario li dimostrò pure l’incensatissimo scrittore Maksim Gorkij
(1868-1936), che non si fece scrupolo a lanciare il suo famoso patriottico
appello: «Sterminate il nemico senza pietà né misericordia»; proclama che di
fatto avallerà le “purghe” staliniane degli anni Trenta. L’elenco dei grandi e
dotti apologeti del comunismo prosegue con il filosofo Maurice Merleau-Ponty
(1908-1961) che nel 1947, polemizzando con lo scrittore ungherese Arthur
Koestler (1905-1983), giustificò il Grande Terrore staliniano come «premessa
necessaria per la costruzione di una nuova società proletaria». Ma bisogna
arrivare a Bertolt Brecht (1898-1956) per vedere espresso forse in maniera più
compiuta l’autentico esprit politique che animò gli intellettuali marxisti o
filomarxisti occidentali. Così il famoso regista pianse nel marzo 1953 la dipartita
di Stalin: «Gli oppressi di tutti e cinque i continenti hanno provato una
stretta al cuore alla notizia della morte di Stalin. Egli era l’incarnazione
delle loro e delle nostre speranze». Ma non è tutto. Nel giugno 1953, in
occasione della rivolta operaia di Berlino repressa dai carri armati, Brecht
scrisse al presidente della Germania Orientale Ulbricht per congratularsi e per
rinnovargli il suo apprezzamento al regime comunista tedesco. «Elementi
fascisti sobillati dall’Occidente» annotò l’intellettuale, «hanno cercato di
sfruttare l’insoddisfazione del popolo» lapsus che indurrebbe a pensare che
proprio il popolo tedesco orientale non dovesse spassarsela troppo sotto il
regime comunista… «per perseguire i loro subdoli e sanguinari propositi… Ma grazie
al rapido e puntuale intervento delle truppe sovietiche questo tentativo è
stato vanificato… Ovviamente, le forze armate russe non se la sono presa con
gli operai, ma contro la marmaglia fascista e guerrafondaia composta da giovani
diseredati di ogni risma che aveva invaso Berlino».
E dai tragicomici
deliri brechtiani passiamo alle chicche prodotte da un altro celebrato
personaggio della pléiade intellettuale marxista, l’ungherese György Lukacs
(1885-1971). In un’intervista alla New Left Review del luglio-agosto 1971,
Lukacs non ebbe infatti tentennamenti (e senso del ridicolo) nel sentenziare
che «il peggiore dei regimi comunisti è sempre meglio del migliore dei regimi
capitalisti». Non scampò al grottesco nemmeno il commediografo irlandese George
Bernard Shaw (1856-1950) che nel 1931, durante un viaggio in Urss, «ammirò il
realismo di Stalin», affermando che «la Russia non aveva alcun problema
alimentare… e che disponeva di un sistema carcerario modello». Aggiungendo: «In
Inghilterra un delinquente entra in prigione come un uomo normale e ne esce
criminale, mentre in Russia egli entra che è un criminale e ne viene fuori
rigenerato… A tal punto che molti carcerati, per migliorare se stessi, si
prolungano spontaneamente la pena». Non contento, Shaw così concludeva: «Stalin
ha mantenuto tutte le promesse; ha creato una società giusta e di conseguenza
mi tolgo il cappello davanti a lui». Più sensate risultarono invece le
osservazioni sul “paradiso dei lavoratori” vergate dal romanziere Herbert
George Wells (1866-1946) che nel 1934, dopo un incontro con Stalin, arrivò ad
ammettere con un certo inquietante imbarazzo «la sostanziale mancanza di
libertà esistente nell’Urss», giustificandola però con «lo sforzo profuso dal
Soviet per creare una società razionale».
Nel 1935, il
filosofo e matematico Ludwig Wittgenstein (1889-1951), rimase anch’egli
folgorato dal marxismo. Visitò l’Urss e per alcuni anni coltivò addirittura
l’idea di trasferirvisi, convinto che questo Paese rappresentasse
un’alternativa valida e necessaria alla decadenza dell’Occidente. «La tirannia
comunista» egli sostenne con aritmetica sinteticità, «non mi indigna… l’Urss è
un paese duro ma giusto». Nei primi anni ’30 l’economista John Maynard Keynes
(1883-1946) studiò il sistema agricolo sovietico, accorgendosi suo malgrado
delle paurose carestie provocate dai piani quinquennali. Comunque sia, egli
preferì tacere per amore d’ideale.
Un capitolo a parte
meritano le dichiarazioni e gli scritti del sopravvalutato filosofo
esistenzialista Jean-Paul Sartre (1905-1980) che, dopo avere tranquillamente
lavorato e discretamente guadagnato, tra il 1940 e il 1944, sotto il regime
collaborazionista di Vichy, si buttò a capofitto nella causa comunista. Tra il
1947 e il 1951, egli divenne infatti un fervente stalinista, al punto da
rompere le sue relazioni con i più critici ed accorti Raymond Aron, Arthur
Koestler e Maurice Merleau-Ponty. «Non accetto»
polemizzò disgustato Sartre, «di seguire i miei ex-amici nella condanna dello
stalinismo». Nel 1952, Sartre ruppe anche con Albert Camus (1913-1960), che
attaccava i metodi coercitivi e sanguinari di Stalin («Non essendo noi membri
del Partito, non era affatto nostro dovere pronunciarci sui campi di lavoro
sovietici», spiegò il dolente padre dell’esistenzialismo, dando prova di
notevoli doti dialettico-acrobatiche). Nel 1952, il filosofo partecipò alla
Conferenza del Movimento per la Pace organizzata dai comunisti a Vienna e nel
1954, dopo un viaggio in Russia, con una serie di articolesse per Libération
elogiò senza indugi e in toto il sistema marxista: «In Urss» azzardò Sartre,
«la libertà di critica è totale… I cittadini sovietici criticano il loro
governo molto più apertamente e in modo più efficace di quanto non facciamo
noi… La condizione socio-economica del popolo sovietico è in costante
miglioramento… Tutti sono ammirevolmente nutriti ed alloggiati… E non si recano
all’estero non perché il governo lo impedisca, ma perché non hanno alcun
desiderio di farlo… Nel sistema sovietico l’interesse del singolo e quello
della collettività sono perfettamente coincidenti… L’Urss marcia verso il
futuro». Nel 1956, il filosofo transalpino arrivò a respingere addirittura il
rapporto segreto di Kruscev sulle stragi di Stalin, dichiarando: «Trovo
inammissibile l’esistenza dei campi di concentramento sovietici, ma trovo
altrettanto inammissibile l’uso giornaliero che ne fa la stampa borghese…
Kruscev» si lamentò il vate delle caves, «ha denunciato Stalin senza fornire
sufficienti spiegazioni, senza avvalersi di un’analisi storica, senza
prudenza».
A proposito dei
numerosi processi di Mosca e delle torture inflitte ai condannati, lo scrittore
francese André Malraux (1901-1976) giocò su folgoranti ma assai poco
accettabili analogie storiche: «Proprio come l’Inquisizione non distrusse la
fondamentale dignità del cristianesimo, così i processi di Mosca non hanno
diminuito la fondamentale dignità del comunismo». Anche le ripetute denunce
circa l’esistenza dei gulag non scalfirono minimamente la fede di moltissimi
intellettuali occidentali “progressisti”. Unica eccezione André Gide
(1869-1951), che nel 1936 visitò l’Urss rimanendone disgustato. Al suo ritorno
in Francia, Gide osò parlare della repressione staliniana in atto, ma venne
subito isolato. Dal canto suo, il filosofo Roger Garaudy ridicolizzò «le voci
sui gulag» e lo scienziato premio Nobel Frédéric Joliot-Curie (1900-1958)
testimoniò «che i russi sono un popolo felice che sostiene il proprio regime».
Ma non è tutto,
ancora nel 1972, il poeta Pablo Neruda (1904-1973) - che nel 1971 vinse il
Nobel per la Letteratura, ma anche il grottesco premio per la Pace “Lenin” -
giudicò «problemi assolutamente personali» quelli incontrati da Aleksandr
Solgenitsyn e dagli altri illustri intellettuali russi rinchiusi nei gulag,
spiegando «di non avere alcuna voglia di diventare uno strumento della
propaganda antisovietica».
Negli anni Settanta,
si rifece vivo l’immarcescibile Sartre che dopo avere benedetto i moti
studenteschi del Sessantotto, ritornò alla carica, esaltando le gesta dei gruppi
terroristici italiani e tedeschi e di quelli palestinesi: «Il terrorismo è
l’arma lecita del povero» sentenziò, giustificando la strage di Monaco compiuta
dai palestinesi in occasione delle Olimpiadi. Nulla di strano comunque. Già
negli anni ’60, egli aveva pronunciato più di un’apologia della prassi violenta
«antiborghese e antimperialista». Nella prefazione ai Dannati della terra
(1961) di Franz Fanon (1925-1961), il filosofo esistenzialista aveva
sottolineato che «uccidere un europeo occidentale è conseguire
contemporaneamente due scopi: eliminare l’oppressore e l’uomo che di
quell’oppressione è il frutto». E nel 1968, dai microfoni di Radio Lussemburgo,
Sartre aveva così giustificato la rivolta studentesca e la violenza come giusta
pratica reattiva: «La violenza è l’unica cosa che resta agli studenti che non
sono ancora entrati nel sistema creato dai loro padri… Nei nostri Paesi
occidentali infiacchiti, l’unica forza di contestazione di sinistra è infatti
costituita dagli studenti… La perfezione sta invece nei Paesi marxisti e in
particolare in Cina e a Cuba». Nella primavera 1970, Sartre accetterà di
entrare a fare parte del gruppo maoista Sinistra proletaria, diventando anche
direttore responsabile del giornale La Cause du Peuple (organo dalle cui pagine
si incitavano i militanti a sequestrare e chiudere nelle “prigioni del popolo”
i direttori delle fabbriche e a linciare deputati e ministri).
Concludiamo la
parata degli intellettuali occidentali infatuati dei sistemi comunisti con Noam
Chomsky che nella seconda metà degli anni Settanta, oltre ad elogiare il
sistema maoista, sostenne entusiasticamente la causa dei khmer rossi
cambogiani, negando i ben noti, spaventosi massacri perpetrati dal loro leader
Pol Pot nei confronti di milioni di persone. Nel 1977, il linguista americano
giudicò «storie inventate dagli occidentali reazionari» le atrocità compiute
dai khmer e dai vietcong e «assolutamente inattendibili» i racconti e le
testimonianze dei profughi cambogiani e vietnamiti (i boat people) scampati alle
persecuzioni dello “zio” Ho Chi Minh.
Chiudiamo questa
sconcertante rassegna con il vecchio leader radicale americano Scott Nearing
(1883-1983) - già apologeta dell’Urss negli anni Trenta - che nel 1982 cantò
anch’egli le lodi dell’“l’illuminato” Pol Pot e del satrapo comunista albanese
Enver Hoxha: «Si tratta di due autentici geni della politica rivoluzionaria;
due uomini che tutto hanno fatto per fare felici i propri popoli». No comment.
è falso che Lukacs abbia rilasciato una intervista alla Rivista Inglese nel luglio agosto 1971 perché era già morto da qualche mese Non si tratta nemmeno di una intervista postuma ma di un piccolo saggio sul suo lavoro come necrologio
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