La storia esemplare delle acciaierie di Terni mostra quanto
i consigli operai della RSI abbiano influenzato l'organizzazione comunista nel dopoguerra.
Luca Gallesi
Ci sono luoghi comuni che solo la lenta e paziente azione
del tempo riesce a scalfire. A nulla vale la realtà dei fatti o il ricordo dei
testimoni: certe convinzioni sono postulati, verità rivelate, indiscutibili e
inconfutabili.
Di queste assolute certezze, la storia del Novecento è ricca
di esempi soprattutto a proposito degli aspetti «sociali» del fascismo, ovvero
i suoi rapporti col mondo del lavoro. Contrariamente a quello che generalmente
si crede, infatti, ci fu - ed ebbe un ruolo importante - anche un sindacalismo
fascista, figlio del sindacalismo rivoluzionario, ma non solo.
Agli studi specialistici di Pietro Neglie e di Giuseppe
Parlato, autori rispettivamente di importanti saggi sul passaggio di autorevoli
dirigenti sindacali fascisti nelle file della CGIL e sulla sinistra fascista,
si aggiunge ora, su questo tema, un ulteriore, notevole contributo di Stefano
Fabei, Fascismo d'acciaio. Maceo Carloni (Mursia, pagg. 366, euro 22), dedicato
alla storia, appassionante e poco studiata, della cosiddetta «Manchester
d'Italia». Parliamo della città di Terni, sede ancora oggi di importanti
stabilimenti siderurgici, dove il fascismo attuò, anche durante la RSI, una
efficace politica di tutela dei diritti del lavoratore.
Città industriale e operaia per eccellenza, Terni viene
immediatamente presa sotto l'ala protettrice del fascismo, che la eleva al
rango di capoluogo di provincia, trasformandola in un gigantesco conglomerato
non solo siderurgico, ma anche elettrominerario, chimico e meccanico. Lo
sviluppo industriale è seguito, sin dal 1922, dall'importante gerarca Tullio
Cianetti e poi dal protagonista di questo libro, Maceo Carloni, un operaio che,
attraverso lo studio e la buona fede, si era fatto strada fino ai vertici del
Sindacato Fascista; il suo archivio è una delle fonti principali di Fabei, che
ne ricorda con pagine commoventi l'assassinio, a opera di commissari politici
comunisti, rimasto vergognosamente impunito.
A proposito della politica sociale fascista, anche a Terni,
dove la RSI governa legittimamente fino al 13 giugno 1944, vengono elette le
commissioni di fabbrica, organi di cogestione della politica degli
stabilimenti, che saranno presi a modello dalla CGIL nel dopoguerra per
costituire i consigli di gestione. In una lettera di Longo a Togliatti del 31
marzo 1945, la politica del PCI viene chiaramente esposta: «non siamo contro in
principio alle varie istituzioni in questione (vale a dire delle mense
popolari, delle cooperative aziendali e della socializzazione), ma solo perché
sono fasciste». Quindi aggiunge: «boicotteremo con tutti i mezzi le elezioni
delle commissioni interne fasciste, ma è evidente che a liberazione avvenuta
procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie».
In realtà, come dimostra Fabei, il PCI, almeno a Terni,
accettò che nelle commissioni della Repubblica Sociale Italiana venissero
eletti elementi comunisti e socialisti, un fatto minimizzato (quando non
ignorato) dalla storiografia ufficiale, che sorvola anche sulla politica
nazionale perseguita dagli operai - fascisti e antifascisti insieme - contro le
pretese dell'alleato germanico. Del resto, nell'agosto 1936, Togliatti in
persona aveva lanciato l'appello ai «fratelli in camicia nera» per la «salvezza
dell'Italia e la riconciliazione del popolo italiano!»…
Alla fine del conflitto, il CLNAI avrebbe voluto salvare,
defascistizzandolo, il principio della partecipazione operaia alla gestione
delle aziende, ma i vincitori della guerra, ossia gli Alleati, non tollerarono
nulla che avesse anche soltanto un vago sentore di socialismo; così, tra le
primissime iniziative del neonato governo antifascista ci fu l'abrogazione
della legge sulla socializzazione che, anche se non aveva «disseminato la valle
del Po di mine sociali», dava evidentemente molto fastidio.
Ai comunisti non resta altro che adeguarsi: la rivoluzione è
rimandata a tempi migliori e ci si accontenta di cancellare, almeno dalla
storia, se non dalla memoria, le imbarazzanti tracce della sinistra fascista.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/linconfessabile-continuit-sindacato-fascista-e-cgil-918354.html
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