A
seguito di un’occupazione sanguinosa e sanguinaria, con spoliazione e
colonizzazione dell’ex Regno delle Due Sicilie, il 17 marzo 1861, veniva proclamato il Regno d’Italia. Nella
seduta del Senato subalpino riunito a Torino, nel rigoroso solco della
tradizione franco-sabauda, molto patriotticamente, lo straniero franco-piemontese
Camillo Benso, conte di Cavour, solennemente annunciava: «Je salue
Victor-Emmanuel deuxième, Roi d’Italie».
Dal canto suo, il neo «roi d’Italie», Vittorio Emanuele II
di Savoia, era stato molto esplicito allorquando, rivolgendosi al
plenipotenziario inglese Augustus Paget, aveva affermato: «Ci sono due modi per
governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione». Egli, in particolare,
fece usare le une e l’altra con spregiudicata brutalità.
Nacque così l’Italia: uno Stato militarista, poco
democratico e fondato sulle tangenti!
Successivamente, in piena età umbertina, ovvero in quel
periodo storico che va dal 1878 al 1900, durante il quale capo dello Stato fu
il re Umberto I di Savoia, e capi del Governo, in ordine di tempo, furono
Cairoli, Depretis, Cairoli, Depretis, Crispi, Di Rudinì, Giolitti, Crispi, Di
Rudinì, Pelloux e Saracco, in un’alternanza emblematica e veloce dei medesimi
uomini politici, l’Italia fu tormentata dalla corruzione politica e dagli
scandali.([1])
Umberto I di Savoia
Correva
l’anno 1893, allorquando la cronaca italiota si occupò del famoso crack
della Banca Romana, uno dei più autentici fatti emblematici di corruzione e
disonestà, qualità queste che il neo Regno d’Italia possedeva nel proprio DNA
sin dalla sua nascita.
Rammento
a tale proposito che, con l’unificazione, tutte le strutture statali
pre-unitarie erano state assorbite dal Regno di Sardegna, il quale aveva
azzerato le preesistenti istituzioni pubbliche ed aveva esteso a tutta la
Penisola l’organizzazione politica, amministrativa, militare, finanziaria,
fiscale e legislativa piemontese.
Lo
scandalo della Banca Romana scoppiò a seguito del tracollo finanziario delle
banche italiche, provocato da un’eccessiva espansione dell’industria edilizia,
alla quale esse avevano concesso crediti esagerati; cosa che Denis Mack Smith,
nella sua «Storia d’Italia» definisce «follia edilizia».([2]) In questo
settore, gli speculatori dell’epoca avevano infatti individuato una strada
molto facile, conveniente e soprattutto veloce per arricchirsi; e ce n’era per
tutti: dal proprietario del terreno edificabile, alle imprese costruttrici, ai
funzionari pubblici. Tuttavia, il capitale di avvio non usciva dalle tasche
degli investitori, ma veniva preso in prestito dagli Istituti di credito
(Banche private di emissione, autorizzate dallo Stato a battere moneta),([3]) che, per
farvi fronte, aumentarono a dismisura la circolazione di moneta cartacea, senza
che vi fosse la necessaria copertura aurea. La più spregiudicata fra tutte fu
la Banca Romana che, con estrema disinvoltura, consentì la stampa di banconote
per ben 128 milioni di lire, a fronte di una copertura finanziaria assicurata
solamente per 58 milioni.([4])
In
realtà, si trattò di una «truffa nella truffa». Infatti, analogamente a quanto
era avvenuto nell’Europa continentale in occasione della Rivoluzione francese,
anche con l’unità d’Italia la sovranità monetaria fu illecitamente ceduta dallo
Stato alle Banche private di Emissione, con la conseguente truffaldina
creazione di quel fenomeno, a noi tutti tristemente noto, chiamato «debito
pubblico».([5])
Nel diabolico sistema della c.d. «moneta-debito» andò, quindi, ad inserirsi
anche l’imbroglio che portò al crack della Banca Romana.
Francesco Crispi
Di
gravissime responsabilità si macchiarono anche potenti personaggi come
Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e molti altri eminenti uomini politici
dell’Italietta umbertina (fra i quali alcuni di quelli che avevano «fatto
l’Italia»), con la determinante complicità dell’allora governatore della Banca
Romana, Bernardo Tanlongo. Non mancò nemmeno la compiacenza di Casa Savoia.([6])
Alla
fine – espediente questo che si consoliderà poi nella più disonesta tradizione
italica – nessuno pagò!
Bruno
Buratti e Gerardo Severino, nella pubblicazione «Il vero e il falso»,
riferiscono che: «Un importante ruolo fu svolto dalla Guardia di Finanza nelle
indagini relative allo scandalo della Banca Romana... In particolare il Corpo
fu attivato in tutto il territorio nazionale per rintracciare le banconote
emesse dalla Banca Romana in eccedenza ai quantitativi autorizzati, inclusi i
biglietti falsi, emessi con duplicazione dei numeri di serie. L’attività dei finanzieri
portò al sequestro di grossi quantitativi di carta moneta».([7])
Banconota da 100 lire emessa dalla Banca Romana
A
questo punto appaiono senz’altro doverose alcune considerazioni, anche per
tracciare un breve, ma significativo ed onesto raffronto fra il Regno sabaudo e
quello (tanto vituperato dai pennivendoli risorgimentalisti!) borbonico.
Tutti
devono sapere che, prima dell’unità d’Italia, mentre il Piemonte era sull’orlo
della bancarotta,([8]) perché
fortemente indebitato a causa delle
gravosissime spese sostenute per la dissennata politica militarista e
guerrafondaia del megalomane Cavour, il Regno delle Due Sicilie era lo
Stato più ricco, prospero ed evoluto d’Italia: le sue riserve auree erano in
quantità doppia rispetto a quelle di tutti gli altri Stati italiani messi
assieme([9])
e la sua moneta circolante, quasi tutta in metallo pregiato (oro, argento,
rame), aveva un valore intrinseco. Nel sistema napoletano, inoltre, la
borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali
fossero ottusamente sacrificati (come nel Regno di Sardegna prima e nel Regno
d’Italia poi), ma era una classe al servizio dell’economia nazionale.([10])
Per
l’insieme di queste ragioni, il crack della Banca Romana non poteva che
verificarsi unicamente nell’Italietta sabauda, anche alla luce di
quell’ulteriore truffa finanziaria, che solo la disonesta classe politica del
neonato Regno d’Italia poteva inventare: la famigerata legge sul «corso
forzoso» del 1866 e le relative infami modalità di attuazione.
A
quest’ultimo riguardo, bisogna inoltre sapere che, nel Regno di Piemonte prima
e nel Regno d’Italia poi, le riserve auree garantivano solamente un terzo della
carta-moneta circolante, mentre, nelle Due Sicilie, esse coprivano interamente
quel poco di moneta cartacea ivi esistente. Pertanto, con la conquista del Sud,
il Piemonte, non solo mise le mani sull’ingente ricchezza dell’antico Regno, ma
moltiplicò subito per tre il capitale circolante, due terzi del quale erano
pura «evenienza attiva».([11]) Fu così
realizzato un prodigio ben superiore a quello della famosissima «moltiplicazione
dei pani e dei pesci» di evangelica memoria; un miracolo unicamente italico!
Ma
non è finita. Attraverso la legge sul corso forzoso, non solo fu eliminata la
convertibilità della carta-moneta in oro (che, già originariamente, era nel
rapporto secondo cui 3 lire di carta erano convertibili in 1 lira d’oro), ma si
raggiunsero livelli di iniquità ed immoralità, a dir poco osceni, nel
riconoscere il «principio della inconvertibilità» esclusivamente per la moneta
della Banca Nazionale italiana e non anche per quella del Banco di Napoli (suo
vero competitore!), che rimase così obbligato a dare «oro» in cambio di
«carta-straccia».
Attraverso
questi strumenti scorretti e disonesti, la già prospera economia dell’ex Regno
delle Due Sicilie, in poco tempo, fu portata al tracollo.
E
questo fu solo un esempio emblematico di come il nuovo Stato unitario agisse
(ed avrebbe in seguito sempre agito) nei confronti del Sud.
Da
allora ad oggi è accaduto di tutto: guerre, rivoluzioni, terremoti, crisi
economiche, lotte politiche; tuttavia, lo strapotere delle banche è rimasto
immutato ed i suoi effetti negativi si stanno manifestando, con tutta la loro
virulenza, a livello globale con l’attuale crisi. Inoltre, la storia della
disonestà politico-economica si ripete, né dobbiamo meravigliarci se la vita
dell’Italia unitaria, tanto monarchica quanto repubblicana, in questi 152 anni,
sia stata così tanto difficile e travagliata.
Ed
a giusta ragione il compianto Indro Montanelli
affermava che «...legittima o bastarda, l’Italia di oggi è pur sempre figlia
dell’Italia di ieri!».
Telese
Terme, marzo 2013.
[1] Enzo Climinti,
generale della Guardia di Finanza a riposo, “La storia insegna: lo scandalo
della Banca Romana - 1893”, Rivista bimensile “Leonessa e il suo Santo”, nr. 3,
maggio-giugno 2012, pag. 12.
[2] Enzo Climinti, op.
citata.
[3] All’epoca
dei fatti, le banche autorizzate all’emissione di cartamoneta erano sei: la
Banca Nazionale, la Banca Romana, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana
di Credito, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Più volte il loro operato
era stato oggetto di critiche a causa di gestioni piuttosto dubbie, laddove
sempre più evidenti apparivano le commistioni tra politica, banche ed affari.
Le inchieste parlamentari, tuttavia, erano state puntualmente insabbiate dai
vari Governi e dal Parlamento fino al 1892, quando, divenute note le vicende
della Banca Romana, scoppiò lo scandalo.
[4] Lorenzo Del Boca,
“Maledetti Savoia”, Piemme, Casale Monferraro (AL), 1998, pag. 223.
[5] Per saperne di più,
Cfr. Ubaldo Sterlicchio, “L’unico antidoto è la sovranità monetaria”, Rivista
mensile “L’Altra Voce”, febbraio 2012, pagg. 13 e seguenti.
[6] Lorenzo Del Boca,
op. cit., pag. 219.
[7] Enzo Climinti, op.
citata.
[8] Pier Carlo Boggio, deputato piemontese, Pamphlet
“Fra un mese”, pubblicato nel 1859; in Angela Pellicciari, “I panni
sporchi dei Mille”, Liberal, Roma, 2003, pag. 146.
[10] Nicola Zitara, nato
a Siderno (RC) nel 1927, scrittore e giornalista, studioso meridionalista,
autore di vari saggi sul ruolo dell’unificazione nel declino del Sud; in Elena
Bianchini Braglia, “Risorgimento: le radici della vergogna. Psicanalisi
dell’Italia”, Centro Studi sul Risorgimento e sugli Stati Preunitari - Terra e
Identità, Modena, 2009, pag. 177.
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