Il diario di Giorgio Pisanò é uno dei più sconvolgenti e
veritieri resoconti di quella che fu la tragedia degli Italiani della R.S.I.!
La parte sotto riprodotta é tratta dal libro "La gioventù che non si é
arresa", libro documento di rara efficacia e rigore morale e storico.
Si invita
pertanto l'appassionato cultore di verità storiche a leggere le opere di
Giorgio Pisanò reperibili nelle librerie
MEMORIE DI GIORGIO
PISANO' L'ULTIMO FASCISTA
Mori potius quam foedari!
La gioventù che non si
è arresa!
19 APRILE 1945: “Siamo alla fine, il nemico è alle porte di
Bologna. Come già sapete, tutte le nostre formazioni si ritireranno
gradatamente dalla valle del Po e raggiungeranno la Valtellina. Là ci attendono
3.000 uomini al comando del generale Onori. E là combatteremo attorno a
Mussolini l’ultima battaglia. Voi partirete stasera stessa per Sondrio, dove vi
presenterete al federale Parmeggiani. Siete destinati a una missione
particolare”. Manini e io ci irrigidimmo nel saluto e uscimmo. Questo breve
colloquio, che doveva segnare l’inizio dell’ultima grande avventura da me
vissuta nei ranghi della Repubblica Sociale Italiana, ebbe luogo alle 10 di
mattina in una stanza del palazzo di via Mozart, a Milano, dove avevano sede la
direzione nazionale del Partito Fascista Repubblicano e il comitato generale
delle Brigate Nere. I corridoi brulicavano di soldati di tutte le armi.
Legionari “M” del battaglione “Guardia del Duce” ne presidiavano gli ingressi.
Eravamo appena usciti dalla sede del Partito quando ci sentimmo chiamare da un
ufficiale del comando generale delle Brigate Nere: “C’è un lavoro che va
compiuto qui a Milano entro poche ore. Venite”. Il nostro accompagnatore si
avviò verso viale Maino e, poco prima di giungere all'incrocio con via Vivaio,
si infilò in un palazzo che sorgeva sulla nostra sinistra. Salimmo al 3° piano.
Lì, in una stanza, trovammo una trentina di persone, in maggioranza giovani
ufficiali come noi. “Sappiamo che siete tutta gente fidata e abbiamo pensato di
affidarvi un incarico piuttosto delicato. Immagino che nessuno, tra noi, si
faccia alcuna illusione su quello che ci aspetta nelle prossime ore. Dovremo
ritirarci da Milano e concentrarci in Valtellina. Ma prima di andarcene
vogliamo regolare alcuni conti troppo a lungo rimasti in sospeso. Noi abbiamo
gli elenchi di tutti i comandi partigiani in città. Conosciamo i nomi dei capi
e sappiamo dove sono nascosti. Sono circa 150. Questa notte li faremo fuori
tutti. Occhio per occhio, dente per dente. Fino a oggi siamo stati fermi perché
il Duce ci ha tenuto le mani legate. Ma ora non intendiamo più aspettare. In
poche ore sbrigheremo tutto, facendo come loro hanno fatto con i nostri: una
suonata di campanello, un invito a seguirci e una raffica di mitra ben
diretta”. Un silenzio di tomba accolse queste parole. Poi una voce: “Noi siamo
soldati, non assassini”. Altri si unirono nella protesta. Qualcuno gridò: “Ma
il Duce è al corrente di questo piano?”. “Lasciate stare il Duce, - urlarono
quelli che avevano esposto il piano – lui queste cose non deve saperle”. Si
scatenò un putiferio. “Ricordatevi dei nostri caduti. La stessa sorte toccherà
tra poco anche a noi. Facciamogliela pagare in anticipo”. “Falla finita, - gli
venne risposto - non contare su di noi. Loro hanno la responsabilità di tutto il
sangue versato e loro se la devono tenere. Via di qui, ragazzi, torniamo ai
nostri reparti”. Scendemmo le scale in gruppo tumultuando ed imprecando.
Qualcuno, poi, dovette correre e riferire l’episodio in prefettura, dove si
trovava il Duce. L’iniziativa infatti non ebbe alcun seguito e ciò per
intervento diretto di Mussolini. Quando uscimmo di lì, Manini e io ci avviammo
lungo via Vivaio verso corso di Porta Vittoria. Eravamo avviliti. Ci stavamo
ripetendo ormai da molti giorni che dovevamo “finire in bellezza”, e il sapere
che qualcuno dei nostri maturava eccidi del genere non ci confortava. Eravamo
proprio giunti alla fine di tutto: noi avevamo già in tasca l'ordine di
ritirata, altri inventavano progetti pazzeschi. Che cosa sarebbe accaduto?
Arrivammo in corso di Porta Vittoria. Abitavamo in una pensione all’inizio di
viale Campania, in fondo a corso XXII Marzo. Era quasi mezzogiorno. Decidemmo
di fermarci a mangiare qualcosa nella prima trattoria e di andare poi a
preparare il nostro bagaglio. Ne incontrammo una dopo pochi metri. Pranzo a
prezzo fisso: 10 lire. Era abbastanza affollata. Ci sedemmo ad un tavolo dove
già stavano pranzando altre persone. Subito il tizio che sedeva alla mia destra
chiese il conto, pagò, si alzò rapidamente e abbandonò il locale. Un altro non
finì nemmeno di mangiare il secondo piatto: anche lui chiese il conto e filò
via. In breve attorno a noi si fece il vuoto. Fino al giorno precedente, fin
quando cioè la sconfitta non era diventata un fatto certo, avevamo frequentato
ristoranti e cinema senza che mai nessuno si scostasse da noi. Ma ora la
situazione precipitava. Le radio straniere dovevano avere trasmesso che era
questione di giorni, se non di ore, e chiunque vestiva la divisa fascista stava
per diventare un bersaglio. Di qui la paura della gente e il suo girarci alla
larga, nel timore di restare vittima di qualche attentato. Mangiammo in fretta,
poi uscimmo sul corso XXII Marzo. I passanti ci guardavano come si guardano i
moribondi. Mi tornarono alla mente le giornate di dicembre, quando la visita di
Mussolini a Milano aveva scatenato un autentica e incontenibile ondata di
entusiasmo popolare, mentre nessun partigiano aveva osato farsi vivo per le vie
della città. Ma allora il nemico era inchiodato sulla “linea gotica”, adesso
invece stava dilagando nella pianura padana. E la gente aveva paura: ma non di
noi. Aveva paura degli attentati comunisti, dei “gappisti”. Quei dannati
lavoravano in squadrette di 2 o 3. Di tanto in tanto apparivano alla periferia
della città in bicicletta, e quando avvistavano un fascista o un tedesco
isolato gli scaricavano addosso le rivoltelle e fuggivano. Raggiungemmo la
nostra pensione in viale Campania. Preparammo gli zaini, poi tornammo
all’incrocio tra viale Campania e corso XXII Marzo per salire sul tram che ci
avrebbe portato alla stazione centrale. Alla fermata c’erano già una quindicina
di persone. Lentamente, tutti cercavano di scostarsi da noi. Seppi in seguito
che la sera precedente, poco lontano da lì, i gappisti avevano ucciso un milite
e sua moglie. Giunse il tram. Noi salimmo dalla porta anteriore, riservata agli
abbonati e ai militari. Di nuovo vidi i passeggeri allontanarsi e portarsi
verso il fondo. Giungemmo alla stazione, piena di soldati in attesa che i
treni, sempre fermi durante la giornata a causa dei continui attacchi aerei,
cominciassero a mettersi in movimento. Al comando-tappa ci dissero che un
convoglio per la Valtellina sarebbe partito verso le 19. Difficilmente però
sarebbe giunto fino a Sondrio. Dopo Colico, infatti, la linea era stata
interrotta da un bombardamento. Erano appena le 17. Trascorremmo l'attesa al
posto di ristoro. Osservando attorno a me quell’andirivieni di giovani
appartenenti a tutti i reparti dell’esercito repubblicano, guardando le
ausiliarie che, tranquille e sorridenti, cercavano di rendersi utili con panini
e bevande, mi sembrava di essere uscito da un incubo. Eppure, quella era ormai
la realtà. Ma i ragazzi che, lì attorno a me, ridevano, cantavano, scherzavano,
se ne rendevano conto? Lo sapevano sì. Al nostro tavolo vennero a sedersi due
paracadutisti della Decima. “Tentiamo di raggiungere Bologna” ci dissero. “Ma
lo sapete che gli inglesi stanno per occuparla?” obiettammo. “Sì, - fu la
risposta - l’abbiamo saputo oggi. Eravamo in licenza. Allora abbiamo deciso di
rientrare al reparto. Prima di darci per vinti, abbiamo ancora qualche colpo da
sparare. E ora vediamo se ci riesce di partire. Buona fortuna”. Li seguimmo con
lo sguardo mentre uscivano dal posto di ristoro. “Questa è gente che si batterà
- pensai - e lo farà fino all'ultimo. Ma quanto potrà resistere? E quanti di
loro sopravviveranno?”. Sapevo, perché l’avevo visto con i nostri occhi, che
cosa succedeva appena le truppe angloamericane riuscivano a occupare una zona.
Subito dopo sbucavano fuori i partigiani ed era il massacro. Avevo attraversato
vari paesi dell’Appennino tosco-emiliano in cui non era rimasto vivo un solo
fascista o presunto tale. In quel momento, l’altoparlante annunciò che era in
partenza un treno per Lecco-Colico. Decine di uomini si alzarono dai loro posti
in una grande confusione: chi cercava lo zaino, chi il mitra. Erano legionari
della Guardia, marò della Decima, squadristi delle Brigate Nere. Tutto il
salone fu un incrociarsi di saluti e di richiami. Mentre ci affollavamo verso
l’uscita, qualcuno intonò l’“Inno dei Battaglioni M”. Può sembrare incredibile,
eppure fu proprio così: la sera del 19 aprile 1945, quei ragazzi si avviarono
al treno che doveva portarli in Valtellina cantando a squarciagola le loro
canzoni di guerra, e tutti sapevano che andavano lassù per combattere un’ultima
battaglia senza speranza. Il treno verso la Valtellina impiegò 8 ore per
coprire la distanza tra Milano e Colico, fermandosi in tutte le stazioni. I
vagoni erano gremiti, specialmente di soldati. A Lecco salirono numerosissimi
legionari della Guardia, anche loro diretti a Sondrio. Il viaggio fu
tranquillo: i partigiani preferivano restare appollaiati sulle montagna della
Valsassina. A ogni buon conto, negli scompartimenti ci riposavamo a turno. Dopo
la partenza, i canti si erano affievoliti e, ben presto, erano cessati del
tutto. Chi non si era abbandonato al sonno, era immerso nei propri pensieri.
Stavamo andando incontro a un destino che non prometteva nulla di buono.
Eppure, nemmeno uno dei 100 e 100 giovani soldati della Repubblica Sociale che
quella notte si dirigevano verso il “ridotto alpino” volle squagliarsela,
abbandonando il convoglio durante una delle tante, lunghissime fermate
effettuate spesso in aperta campagna. Io non sapevo davvero se avrei più
abbracciato i miei cari, in quel momento non molto lontano dalla zona che stavo
attraversando. Dopo aver oltrepassato Lecco, la tentazione di rivederli fu
acutissima. L’ultima volta che ero andato a trovarli avevo anche salutato un mio
vecchio compagno di scuola, sfollato fuori Como, a Villaguardia. Al momento del
commiato mi aveva detto: “Non tornare a Milano. Resta qui. Vai a rischiare la
pelle per niente. Lo sai anche tu che tutto sta per finire. Posso nasconderti e
metterti al sicuro. Ora te lo posso dire: faccio parte del movimento
clandestino. Ascoltami: mettiti in borghese e torna qui”. Ci eravamo guardati
in silenzio negli occhi, poi avevo ribattuto: “Ti ringrazio, ma non posso
accettare. Tu hai scelto la tua strada, io la mia, e intendo seguirla fino in
fondo. Ho sempre saputo che mi battevo per una causa persa, ma la ritengo
quella giusta. Se dovessi tradire adesso, non mi potrei più guardare allo
specchio. Comunque non dimenticherò mai il tuo gesto. Quando tutto sarà finito,
fa che la mia famiglia non debba subire violenze”. L’avevo scelto io il mio
destino, e adesso non potevo più tirarmi indietro. Il treno era carico di
uomini che, in quel momento, cercavano di superare la mia stessa crisi. E
nessuno scappava.
20 APRILE: Giungemmo a Colico verso le 3 del mattino. La
stazione era oscurata. Una voce, nel buio, ci ordinò di raccoglierci nella sala
d’aspetto. Quando tutti nel salone mi accorsi che eravamo oltre 200. Un
capitano della Guardia salì su una sedia e prese la parola: “La linea
ferroviaria poco più avanti è interrotta. Coloro che sono diretti in Valtellina
dovranno raggiungere a piedi il bivio per Sondrio, 3 km a nord di Colico. Là
attenderanno i camion che li porteranno a Sondrio. Vi consiglio di suddividervi
in squadre e di avviarvi senza perdere tempo. Lungo la strada, lampade e
sigarette spente”. Ci organizzammo rapidamente. Io mi trovai alla testa di 20
legionari della Guardia, Manini di mezzo plotone di squadristi della Brigata
Nera fiorentina “Manganiello”. Uscimmo dalla stazione e ci avviammo lungo la
statale. Coprimmo la distanza in poco meno di tre quarti d’ora, con i mitra
imbracciati e le dita sui grilletti. Ma non accadde nulla. All’alba giunsero i
camion da Sondrio a prelevarci. Arrivai a Sondrio in uno stato d'inquietudine.
La Valtellina mi era apparsa diversa da come me l’avevano fatta immaginare a
Milano. Dov’era il ridotto alpino? In che cosa consisteva? Lungo i 38 km di
strada avevo visto solo case sbarrate, paesi deserti, niente concentramenti di
truppa, niente fortificazioni. Avevo anzi saputo che i nostri presidi già
esistenti lungo la strada, a Delebio, Talamona, Ardenno e Berbenno, erano stati
ritirati su Sondrio. Solo l’abitato di Morbegno era ancora controllato da 60
squadristi della “Manganiello” e da 40 legionari. Le strade di Sondrio
formicolavano di soldati. Udimmo fare progetti, esporre piani. Tornammo a
respirare un'atmosfera di fiducia e di speranza. Andammo a salutare i vecchi
camerati della Brigata Nera di Pistoia, che avevano sistemato lì il loro
comando. Venni così a sapere che oltre Tirano, tra Mazzo e Grosio, erano in
corso combattimenti. 700 uomini stavano contenendo la pressione di agguerrite
bande partigiane che puntavano a interrompere in più punti la vallata allo
scopo di rendere difficile il previsto concentramento di truppe fasciste.
Pensai di fare una breve puntata lì, valutare la situazione e ritornare. Alcuni
camion partirono verso le 18 per Tirano, ed io con loro. Qui, dissi che volevo
raggiungere la zona dove si combatteva. Il comandante mi assicurò che la
mattina seguente mi avrebbe fatto proseguire per Mazzo con una colonna di
rifornimenti. Anche Tirano era piena di soldati: oltre i militi confinari, i
legionari "M", gli squadristi delle Brigate Nere, si erano accantonati
nella cittadina 2 battaglioni di fascisti transalpini della "Milice
Française": 1.600 francesi, divisa di panno azzurro, camicia nera e basco
nero, aria spavalda, ottimo armamento. Alla mensa ebbi modo di conoscere alcuni
dei francesi, ragazzi davvero in gamba. Fu una cena animata da numerosi
brindisi e da una piacevolissima conversazione. Tutti quei ragazzi della
"Milice Française" si batterono accanto a noi fino all’ultimo, ma in
Francia non giunsero mai. Furono massacrati lungo la strada dai partigiani
gollisti, pagando con la vita quella loro fedeltà all’Europa grande e libera
alla quale avevamo brindato tutti insieme a Tirano. A mezzanotte mi ritirai in
albergo.
21 APRILE: Alle 7 partii per Mazzo, che costituiva il perno
di uno schieramento difensivo che si allargava sulla sinistra e sulla destra
della vallata. Le truppe erano al comando del maggiore Vanna, della 3° legione
confinaria. Il paese era tenuto da legionari "M" muniti di mortai e
mitragliere. A sinistra, sulle alture di Roncale e S.Martino, erano appostati
reparti "M" e squadristi della “Manganiello”. Sulla destra, a
S.Matteo e Mortirolo, i battaglioni della legione “Tagliamento” fronteggiavano
le più agguerrite formazioni partigiane. Due km oltre, nel fondovalle, era
Grosio. Quest’ultimo paese costituiva la punta più avanzata del nostro
schieramento, ma era completamente circondato dai partigiani che lo battevano
ininterottamente col fuoco delle loro mitragliere. A Grosio erano asserragliati
un reparto della Guardia, una compagnia di francesi e 60 squadristi della
Brigata Nera di Sondrio. Il resto della Valtellina, fino al passo dello
Stelvio, era in mano ai partigiani. Solo a Bormio, isolatissimi, resistevano
ancora un plotone della confinaria e 50 squadristi pistoiesi. Come
corrispondente di guerra, ero libero di andare dove volevo. Mi unii al gruppo
in partenza per Grosio. La piccola colonna si mosse verso mezzanotte. Pioveva.
Ogni tanto dovevamo gettarci a terra perché dalla montagna i partigiani
lanciavano colpi di mortaio. La marcia durò poco meno di un’ora. Raggiungemmo
indenni il paese. I francesi occupavano una villa all’imbocco del paese, sulla
strada per Mazzo. La Guardia Repubblicana si era sistemata in una casa poco
lontana dalla Brigata Nera, accasermata in un edificio al centro del paese. Mi
venne assegnata una branda e subito crollai.
22 APRILE: Mi svegliai convinto che stesse grandinando.
Dalla montagna i partigiani innaffiavano l’intero paese con una pioggia
ininterrotta di proiettili. Grosio appariva completamente deserta. L’aria era
solcata in continuazione dai sibili dei proiettili in arrivo. I nostri
rispondevano rabbiosamente ma senza alcun risultato positivo: i partigiani
erano perfettamente occultati. Inseguito dal fischio di qualche pallottola
randagia, raggiunsi di corsa l’edificio di 3 piani dove si era barricato il
presidio della Guardia. Tutte le finestre erano murate ed il solaio trasformato
in un nido di mitragliatrici. Le armi erano rivolte verso nord, puntate contro
la montagna. Grosse travi e sacchetti di sabbia erano sistemati anche sopra le
tegole. Le medesime installazioni difensive erano state approntate nella
caserma della Brigata Nera, nel cui solaio si erano piazzati i francesi. Sparse
nelle case del paese, c’erano le famiglie di una ventina di squadristi. Nel pomeriggio
feci presente la necessità di tenere Grosio a tutti i costi per agevolare la
penetrazione verso l’alta valle delle truppe che sarebbero giunte con
Mussolini. “Lei è pazzo, – mi risposero - qui non arriverà nessuno. Radio
Londra ha detto stamattina che tutta la linea gotica è stata travolta e che le
truppe alleate si stanno avvicinando a Milano. E dove sono andati a finire i
nostri? Che cosa aspettano a ritirarsi in Valtellina? Ma vi rendete conto che
le prime colonne avrebbero già dovuto esser qui?”. Il ragionamento filava, ma
non volevo accettarlo per buono. Il sole stava tramontando. Col comandante
pensai che fosse opportuno compiere un giro per il paese e visitare le famiglie
dei fascisti. Furono 2 ore penose. Sui volti delle donne era dipinta l’angoscia,
se non il terrore. “Di notte scendono in paese. - ci sussurrarono alludendo ai
partigiani - Noi ci barrichiamo nelle case, ma abbiamo paura lo stesso. Che
cosa succederà? Dov'è il Duce? È già arrivato in Valtellina?”. Cercammo di
rassicurarle, di tranquillizzarle. Eppure, nonostante la tragicità del momento,
nessuna di quelle donne, madri, spose, figlie di fascisti, ci incitò alla resa.
Nessuna si abbandonò a scene di disperazione.
23 APRILE: La giornata trascorse senza episodi di rilievo:
le solite sparatorie, il solito cecchinaggio. Contammo però, speranzosi, le ore
a una a una. Nel pomeriggio mi recai all’ospedale per visitare 3 nostri
legionari rimasti feriti negli scontri dei giorni precedenti. Avevamo portato
un po’ di sigarette per i nostri feriti. Salutammo i nostri legionari. Non
sapevamo davvero se saremmo potuti tornare a trovarli, e neanche loro lo
sapevano. Ci sentivamo addosso gli occhi di tutti. I feriti, gli altri
ammalati, le suore e gli infermieri, che avevano seguito in silenzio la scena,
ci guardavano andare via. Eravamo sulla soglia quando sentimmo gridare: “Signor
tenente!” Ci voltammo di scatto. Uno dei nostri feriti si era sollevato sul
letto appoggiandosi al braccio sinistro. “Signor tenente – gridò ancora,
levando il braccio destro nel saluto romano - Viva Mussolini!”.
24 APRILE: Altra giornata di attesa spasmodica. Radio Milano
continuava a trasmettere notizie tranquillizzanti, ma Radio Londra dava di ora
in ora indicazioni precise sul dilagare nella pianura padana delle armate
nemiche. Dov’era Mussolini? Quando arrivava Mussolini? Squadristi e legionari
continuavano a chiederselo e a chiedercelo a noi ufficiali con sempre maggiore
insistenza. In mattinata un cuciniere e 4 legionari erano andati ad acquistare
provviste a Sernio, ma nessuno li aveva poi più rivisti. Qualche ora dopo erano
stati trovati in una cantina: massacrati a colpi di pugnale, con gli occhi
strappati e i genitali in bocca. Esasperati, i legionari avevano ordinato agli
abitanti della casa di sgombrare, prima di darle fuoco. Verso mezzogiorno
dovemmo prendere atto di essere tagliati fuori da ogni collegamento. Fino a
ordine contrario avremmo comunque tenuto il paese. Credevamo ancora nella
possibilità che la Valtellina dovesse diventare il ridotto alpino di cui si
parlava. C’era tuttavia da attendersi che i partigiani, imbaldanziti dalla
vittoria ormai imminente delle forze alleate, tentassero su Grosio un attacco
in grande stile. La sera pattugliammo a lungo il paese: silenzio e buio pesto,
porte e finestre sbarrate. Alle 23 ordinammo alle pattuglie di rientrare.
25 APRILE: Fui svegliato poco dopo l’alba dal fuoco intenso
e in pochi minuti fummo appostati alle feritoie. Dalle montagne pioveva su
Grosio una tempesta di proiettili, ma le strade del paese apparivano deserte.
Un legionario disse: “Forse sparano tanto perché stanno arrivando le nostre
colonne da Tirano”. Perché no? Forse stavano davvero giungendo, con Mussolini,
le decine di migliaia i soldati della Repubblica Sociale. Forse il ridotto
alpino stava diventando una realtà. Schivando il tiro nemico, corremmo verso la
strada per Mazzo. Se arrivavano, li avremmo visti. Ma non si scorgeva
assolutamente niente. Le pallottole fischiavano da tutte le parti. Ci
appostammo e cominciammo a sventagliare, ma il nostro era un tiro
inevitabilmente impreciso mentre i partigiani, in posizione dominante, sapevano
molto bene dove mirare. Il fuoco non accennava a cessare. I partigiani, pur
disponendo di abbondanti rifornimenti, non potevano concedersi il lusso di gettare
via i colpi. Tutti quei fuochi d’artificio, quindi, potevano solo significare
che i nostri avversari consideravano la fine della guerra ormai imminente e
davano fondo alle scorte. Ci venne una gran voglia di sapere che cosa stava
succedendo nel resto della vallata e, soprattutto, nel restante territorio
della Repubblica Sociale. Tornammo nella caserma con la speranza di captare
qualche trasmissione radio. Erano le 11.30 del 25 aprile. Radio Milano taceva.
Lontanissima, ci giunse la voce di Radio Trieste. Parlava di combattimenti in
corso e incitava la popolazione a unirsi ai battaglioni della R.S.I. nella
lotta contro gli slavi. Tentammo ripetutamente di captare Radio Milano.
Finalmente, poco prima di mezzogiorno, poche parole chiaramente diffuse dissiparono
l’incubo: “Ente Italiano Audizioni Radiofoniche EIAR:. qui parla la radio della
Repubblica Sociale Italiana...” Lanciammo un urlo e ci abbracciammo. Milano era
ancora in mano nostra, e Mussolini poteva raggiungere tranquillamente la
Valtellina. No, non sarebbe finita tanto presto, e quei bischeri lassù sulle
montagne facevano male a sprecare tanti proiettili. Mentre eravamo tutti lì che
sognavamo ad occhi aperti l’arrivo del Duce e delle formazioni che l’avrebbero
accompagnato, un parroco di una frazione della montagna chiese di parlare col
comandante del presidio della Guardia. “Sono latore – disse – di un’intimazione
di resa per voi e per tutte le altre forze fasciste di Grosio. Se entro le ore
20 di questa sera non avrete deposto le armi, i partigiani vi attaccheranno e
vi fucileranno tutti. Vi scongiuro, non vi irrigidite inutilmente. Per voi non
c'è più alcuna speranza”. “State perdendo il vostro tempo, reverendo. - lo
interruppe il tenente - Se quelli là vogliono le nostre armi, se le vengano a
prendere!”. Poi, quando il sacerdote uscì, si rivolse a me con un’espressione
soddisfatta. “Finalmente sono riuscito a dirla anch’io questa frase. - esclamò
- L’avevo letta su tanti libri di guerra e di avventure e sentita pronunciare
al cinema. Be’, adesso mi sento eroe anch’io”. Scoppiammo a ridere. La voce di
Radio Milano e l’episodio del sacerdote ci avevano messo di buon umore. Fu una
mezz’ora serena, quella. L’ultima. Fuori, intanto, continuavano a sparare. Ci
consultammo: “Vedrai che non attaccano. Non hanno mai osato affrontarci in
campo aperto e non oseranno proprio ora che sentono di avere la vittoria a
portata di mano. Chi sta per vincere, non vuole più morire. E sanno che, se si
fanno sotto, molti di loro ci lasceranno la pelle”. D’accordo con i francesi,
decidemmo che al tramonto tutti i familiari dei fascisti che l’avessero
desiderato sarebbero stati trasferiti dalle loro abitazioni negli edifici della
Brigata Nera, della Guardia e dei francesi. I partigiani erano capaci di
catturarli come ostaggi e farli camminare davanti a loro durante l’attacco.
Casi del genere si erano già verificati. Il pomeriggio trascorse velocemente
tra una sparatoria e l’altra. Radio Milano non trasmetteva più. Da Mazzo non
giungeva alcuna notizia. Ci recammo a visitare donne e bambini per invitarli a
trasferirsi negli edifici da noi presidiati. “Avvisateci se vi ritirate da
Grosio. – ci sentimmo ripetere da chi non accettò – Non vogliamo finire nelle
mani dei partigiani. Vogliamo venire con voi”. Suonarono le 18, le 19. Alle 20
eravamo tutti appostati, i mitra fuori le feritoie. Grosio, quella sera del 25
aprile, faceva paura. Fuori, silenzio assoluto. Attaccano? Non attaccano?
Maledetti, perché non si fanno vedere? Attendemmo con i nervi tesi per più di
un’ora. Verso le 21 raggiunsi il tenente. Era pallidissimo. “Radio Milano non
trasmette più, – mi disse – è tutto il pomeriggio che tace. Che cosa starà
succedendo? Dov’è Mussolini? Dov’è?”. Più tardi giunse da Mazzo una staffetta
con notizie poco incoraggianti. Tutte le truppe avrebbero dovuto ripiegare
dalla zona e raggiungere Sondrio. Il ripiegamento era stato studiato in maniera
che noi di Grosio potessimo ritirarci nella notte seguente mentre loro, da
Mazzo, ci avrebbero protetti col tiro delle mitragliere. Sentivo che la tragedia
stava giungendo a conclusione. Perché ritirarci su Sondrio se il nostro compito
era quello di tenere la media valle in previsione di altre forze? Era la fine:
la fine di tutto. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
26 APRILE. Alle 7 del mattino, mentre tutto crollava, mi
trovai a comandare un reparto di Brigata Nera. Radunai gli uomini. Li feci
liberare di tutto il superfluo e distribuii a ciascuno grossi quantitativi di
munizioni e di bombe a mano. Verso le 10 mi recai al comando francese per definire
le modalità del ripiegamento. Tornai in caserma. Gli squadristi erano calmi e
ai loro posti. Gli anziani erano molto più turbati dei giovani. “Sono fascista
dal 1920 - mi disse uno con gli occhi lucidi - Ho creduto in Mussolini come in
Dio. Se Mussolini muore, il fascismo è finito. Povera Italia!”. Poco dopo
mezzogiorno mi sedetti a mensa con gli squadristi. L’atmosfera era abbastanza
calma e distesa. A un certo punto, un legionario accese la radio. Le solite
voci straniere, disturbi vari. “Eppure - disse - a quest’ora Radio Milano
dovrebbe trasmettere”. Nel silenzio, si udivano pallottole infrangersi contro i
muri dell'edificio. Ed ecco, dall’altoparlante, scaturire una voce:
“Attenzione, attenzione: un’automobile percorre le vie della città con a bordo
traditori fascisti. Arrestateli! Uccideteli!”. Mi sentii gelare il sangue.
Un’opprimente sensazione di morte mi piombò addosso come un macigno. Eccola, la
fine: l’aspettavo ormai da tanti giorni, ma ora che la vedevo davanti, mi
sentivo soffocare. Udii mormorare: “Mio Dio...”. Alcuni squadristi si erano
alzati da tavola, bianchi in volto, smarriti. La radio riprese: “Qui parla
Radio Milano Liberata. Il Comitato di Liberazione Nazionale dirama il seguente
comunicato alla popolazione...”. Uno sovrastò la voce della radio gridando: “I
miei bambini! A Milano ci sono mia moglie e i miei bambini: li uccideranno! Ci
uccideranno tutti!”. Quasi fuori di me, impugnai la rivoltella e fracassai
l’apparecchio con 2 pallottole. “Che Milano sia caduta - dissi subito con la
voce che mi tremava - non significa nulla. Era una notizia che ognuno di noi si
aspettava ormai da giorni. E’ terribile, lo so. Ma noi siamo qui in Valtellina
con un compito ben preciso. Resistere finché avremo una cartuccia da sparare.
Resistere attorno a Mussolini, per l'onore della nostra bandiera. C’è qualcuno
che si vuole arrendere? Faccia pure. I partigiani sono a 100 metri da noi. Io
non lo tratterrò di sicuro. Da questo momento è meglio non avere traditori fra
i piedi”. Nessuno fiatava. Mi sedetti. Allora uno degli squadristi più anziani
mi riempì di vino il bicchiere: “Bevici su, tenente, sei pallido come tutti. Ma
sta’ tranquillo: qui non ci sono né vigliacchi né traditori. E beviamo tutti,
perdio, alla salute di quelli di noi che porteranno la pelle a casa!”. Tentai
di mangiare, senza riuscirci. Pensavo a Milano, alle strade ed alle piazze di
Milano: la vedevo come avevo visto Roma, Viterbo, Siena durante le mie missioni
oltre le linee: piena di soldati di tutte le razze, piena di bandiere nemiche,
piena di uomini di colore a braccetto con le nostre ragazze. Piena di
prostituzione, vergogna e miseria. Cercai di farmi forza. Uscii dalla caserma e
andai dal tenente. Lo trovai cupo. Anche lui aveva sentito la radio. “Siamo
all’ultimo atto - mormorò - Speriamo che a Sondrio non perdano la testa.
Speriamo che almeno noi, quassù, si possa combattere ancora”. Si decise di
preparare il ripiegamento. Le famiglie che volevano seguirci e che non si
trovavano già al sicuro nelle caserme, in serata si sarebbero portate prima
nella caserma della Brigata Nera e da lì alla villa occupata dai francesi.
Rendemmo inutilizzabile tutto quello che non avremmo potuto portare con noi.
Verso le 17 cominciò a piovere, il che non ci dispiacque affatto. Dopo il
tramonto, alla spicciolata, i famigliari dei fascisti raggiunsero la nostra
caserma. C’erano donne di tutte le età, numerosi bambini. Anche la madre 80enne
e inferma di uno squadrista. Invano il figlio la scongiurò di fermarsi. “Ti
porteremo all’ospedale. Là nessuno oserà toccarti”. Niente, volle venire con
noi. “Desidero restare con gli italiani, non coi partigiani” ribatté testarda e
commovente Per trasportarla, le preparammo una barella. Alle 22 iniziò il
ripiegamento: eravamo circa 300 persone. Nella vallata tutto era silenzio. Dopo
circa 500 metri sentimmo alle nostre spalle raffiche di mitra. I partigiani,
accortisi che in paese non c’era più un fascista, si erano decisi a
“liberarlo”. Da Mazzo, le armi degli "M" risposero. In breve tutta la
vallata fu un fuoco incrociato. Raggiungemmo Mazzo alla mezzanotte del 26
aprile. Ci dissero che poche ore prima Radio Milano Liberata aveva ingiunto a
tutti i fascisti che ancora resistevano di arrendersi. “A partire dalla
mezzanotte di questa sera - aveva specificato il comunicato - tutti i fascisti
sorpresi con le armi in pugno, saranno immediatamente fucilati”. Un coro di
maledizioni e di insulti aveva accolto queste parole. Intanto in magazzino
avevano avuto la bella pensata di dare fondo alle riserve di viveri. Con la farina
e un po’ di uova venne preparato un centinaio di pasticcini. I legionari
mangiavano e cantavano: “San Marco, San Marco, cosa importa se si muore...”.
27 APRILE: Verso l’alba, mi gettai su un materasso steso a
terra. Ma alle 6 i reparti si stavano adunando per trasferirsi a Tirano. Mi
accorsi che eravamo almeno in 700, tutti armati fino ai denti. La colonna si
compose rapidamente: carro armato in testa, poi i camion del battaglione
"M" con le mitragliere, quindi i reparti appiedati, seguiti da 3
pullman pieni di donne e bambini. Infine, altri reparti appiedati e, di
retroguardia, 2 autoblindo. La marcia durò un paio d’ore. La lunga colonna si snodò
in perfetta disciplina e senza subire alcun attacco, da Mazzo a Tirano. I
legionari e gli squadristi, il dito sul grilletto, marciavano cantando: “Le
donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia nera...”. A Tirano
trovammo ad attenderci altri nostri reparti. Il maggiore Vanna chiamò a
rapporto gli ufficiali. Ci disse che non riusciva a comunicare con Sondrio e
che dovevamo immediatamente prepararci per quest’altra marcia di trasferimento.
Eravamo, adesso, più di 1.000 (tutta la compagnia “Pesaro” del battaglione
“Guardia del Duce”, 150 militi confinari, circa 300 legionari della Guardia e
oltre 400 squadristi delle Brigate Nere di Firenze, Pistoia, Cremona e
Sondrio). Alle 10, l’imponente colonna imboccò l’ampio vialone che, diritto
come una lama di coltello, conduceva al santuario della Madonna di Tirano e poi
verso Sondrio, che eravamo tutti convinti che di raggiungere in un’ora. La
prima raffica ci colse quando la testa della colonna si trovava a meno di 200
metri dal santuario. Ma non tutti si resero conto di quanto stava accadendo.
Alcuni la confusero con il rombo dei motori. Ce ne volle una seconda più
micidiale perché fosse chiaro che i partigiani ci avevano teso una imboscata.
Saltammo giù dai camion per ripararci dietro gli alberi, sulla sinistra del
viale. “Bel colpo – pensai - questa volta ci hanno fregato davvero". I
legionari "M" addetti alle mitragliere, ammirevoli per coraggio e
calma, completamente allo scoperto sotto il tiro nemico puntavano le loro armi
contro la montagna. Si scatenò l’inferno. Sparavamo tutti, ma come al solito
noi sparavamo alla cieca. Loro, invece, potevano mirare comodamente. I mortai
cominciarono a martellare la montagna. Vidi un anziano maresciallo della
Guardia piombare a terra. Lo portammo al riparo di un muretto. Una pallottola
di mitragliera gli aveva troncato il piede sinistro. “Non vi preoccupate, - si
mise a gridare - andate avanti. Viva il Duce! Viva l’Italia!”. Mi colpirono le
grida di quel vecchio fascista. Avevo letto tante volte sui libri e nelle cronache
di guerra, di soldati feriti che invocavano il Duce, ma francamente avevo
sempre creduto che quegli episodi fossero parto della fantasia. Non ritenevo
possibile che uno, con la carne dilaniata, potesse trovarne la voglia e il
tempo. E ora, invece, l’avevo lì davanti a me quel vecchio soldato ferito che,
mentre tutto crollava, invocava ancora il suo Duce e la sua patria. Passò
mezzogiorno. Noi sempre dietro gli alberi, loro sempre lassù a tirare al
bersaglio. Ripensando agli avvenimenti di quella mattina, si può affermare
senza esagerazione che quel combattimento mutò probabilmente il corso della
storia. Se infatti fossimo giunti a Sondrio, avremmo immediatamente proseguito
verso il lago di Como per andare incontro a Mussolini. E il Duce, la mattina
del 27 aprile, si trovava ancora libero, sulla sponda destra del lago.
L’imboscata partigiana, perfettamente ideata e condotta allo scopo di impedire
il congiungersi della nostra colonna con i 3.000 fascisti che presidiavano
Sondrio, tolse ogni possibilità di riuscita a questo piano. Le formazioni
fasciste in Valtellina perdettero ore preziose e non furono in grado di coprire
rapidamente quei 40 km che separavano la città dalla riva destra del lago, e di
raggiungere in tempo Mussolini. A Sondrio, infatti, dopo avere atteso
inutilmente il nostro arrivo per tutto il pomeriggio del 27 aprile, e di fronte
alla realtà del mancato arrivo delle truppe destinate al ridotto alpino, i
fascisti, sottoposti per di più a un ricatto, accettarono di discutere le
condizioni di resa, proprio mentre il Duce veniva catturato a Dongo. Alle
15.30, mentre il combattimento continuava, Vanna impartì a tutti i reparti
l’ordine di ripiegare su Tirano. Un legionario si portò in mezzo al viale e,
fuori di sé, cominciò a tirare contro la montagna gridando: “Venite fuori,
vigliacchi! Fatevi vedere! Fatevi vedere!”. Venne colpito al ventre ma continuò
a sparare finché un secondo proiettile lo fecero crollare. Sistemammo i feriti
sopra alcune brande requisite e, costeggiando il viale, ripiegammo su Tirano. A
Tirano avvertii tra gli uomini un diffuso senso di scontentezza e di
disorientamento. Tutti volevano agire, e al più presto. Vidi i militi confinari
e i legionari della Guardia togliersi dalle mostrine i gladi ed applicarsi i
fascetti delle Brigate Nere. “Abbiamo deciso che se dobbiamo morire - dissero -
vogliamo farlo portando il simbolo che ci è più caro”. Verso le 19, tutte le
formazioni si radunarono nel vasto cortile della caserma Torelli. Vanna prese
la parola: “Io non sono più riuscito a mettermi in contatto con Sondrio. Non so
quindi che cosa stia accadendo. Ma so con assoluta certezza che il Duce doveva
raggiungerci qui, in Valtellina. Intendo andargli incontro. Tra poco, col
favore delle tenebre, uscirò da Tirano e cercherò di portarmi il più possibile
verso il Lago di Como. Non obbligo nessuno a venire con me. Vi invito anzi a
ricordare che, secondo quanto già trasmesso da Radio Milano, ognuno di noi, se
colto con le armi in pugno, è passibile di immediata fucilazione. Non
considererò un vile chi vorrà deporre le armi e col consegnarsi ai partigiani.
Stiamo ormai combattendo una lotta senza più nessuna speranza. Nemmeno quella
di trasformare la Valtellina in un ridotto alpino. Ma io, lo ripeto, andrò
incontro a Mussolini. Chi vuole venire con me, faccia un passo avanti”. Tutti
noi presenti, più di 1.000, avanzammo di un passo. Erano le 19.30. Fu un
momento indimenticabile. Ero certo che, data la tragicità di una situazione che
non consentiva più vie d’uscita, molti avrebbero rinunciato, e nessuno avrebbe
potuto rimproverare loro una simile decisione. Non uno, invece, si era tirato
indietro. Sentii la commozione prendermi alla gola. Non c’erano fanfare che
suonassero né bandiere al vento in quel cupo tramonto del 27 aprile a Tirano.
Rimaneva soltanto, in ogni cuore, la tragica certezza che tutto era finito.
Eppure quei 1.000 italiani di ogni età e condizione sociale avevano rinunciato
in piena coscienza alla salvezza, ben sapendo che l’unico premio a quella loro
appassionata fedeltà sarebbe stata, come infatti per molti di loro fu, una
morte atroce. Il maggiore Vanna aveva gli occhi lucidi. Non era il solo. Non
credeva che tutti si sarebbero offerti volontari. D’altra parte non era
possibile affrontare le incognite di una marcia come quella con 1.000 uomini.
Occorse una selezione. Tutti quelli oltre 40 anni e gli ammogliati furono
esentati. "Mi occorrono non più di 200 uomini - disse a noi ufficiali -
Con questi voglio raggiungere Sondrio. Se nel capoluogo si sono già arresi, mi
darò alla montagna e cercherò di raggiungere il lago di Como. Mussolini non è
ancora caduto prigioniero. La radio l’avrebbe comunicato. Quindi, il Duce è di
certo in qualche località tra Milano e la Valtellina. Dovunque sia, voglio
raggiungerlo. Signori ufficiali, scegliete gli uomini. Si parte tra un’ora”.
“Legionari – disse poi a tutti – solo una parte di voi potrà seguirmi. Spero di
rivedervi tutti. Se ciò non fosse possibile, desidero comunicarvi che avete
offerto, in queste ore decisive, una superba prova di disciplina e fedeltà. E
ora leviamo insieme il grido della nostra passione: Italia! Italia! Italia!”.
Mille voci risposero compatte: “Italia! Italia! Italia!”. “Saluto al Duce!”
ordinò Vanna. Un solo urlo gli rispose: “A noi!”. In quel momento nessuno
poteva immaginare che Mussolini si trovava a poche decine di km da Tirano, già
prigioniero dei partigiani, mentre in tutta l’Italia del nord decine di
migliaia di fascisti cadevano massacrati. Lentamente, il vasto piazzale interno
della caserma Torelli si andò sfollando. Restarono solo i prescelti, 270 in
tutto. Ognuno di noi si caricò fino all’inverosimile di munizioni e bombe a
mano. Poco prima della partenza, vidi anche il tenente. Mi sembrò sereno. “Ho
messo i miei al sicuro - disse - e poi, io sono nato qui a Tirano. Mi conoscono
tutti. Non ho mai fatto del male a nessuno. Non credo che vorranno farne a me o
alla mia famiglia”. Nemmeno io lo pensavo: era un brav’uomo, me l’avevano detto
tutti. Si era iscritto al Fascio mosso solo da un amore infinito per la patria.
Invece, quando lo salutai, non gli restavano nemmeno 2 giorni di vita. Nel
pomeriggio del 29 aprile, dopo la resa delle forze fasciste a Tirano, alcuni
partigiani lo prelevarono da casa sotto gli occhi di moglie e figli. Poi lo
costrinsero a correre davanti a loro per le vie della cittadina, sparandogli
tra le gambe. Alla fine lo gettarono contro un muro e l’ammazzarono a colpi di
bombe a mano. Intanto la colonna Vanna lasciò la caserma Torelli poco dopo le
21.30. Silenziosamente superammo il ponte sull’Adda e ci trovammo nel folto
della boscaglia. Per un’ora la marcia proseguì senza alcun incidente, tranne un
piccolo scontro con i partigiani appostati presso il ponte di Stazzona. Poi
superammo l’Adda e ci portammo sulla statale, dove ci congiungemmo con una
trentina di squadristi che sarebbero dovuti restare a Tirano. “Signor maggiore
– si scusarono con Vanna – non ce la facevamo a restare a Tirano mentre voi
andavate incontro al Duce. Abbiamo deciso così di disobbedirvi e di
raggiungervi”.
28 APRILE: Verso l’alba giungemmo in vista di S.Giacomo. Ci
intimarono l’alt le SS che tenevano sotto controllo il nodo stradale con
l’Aprica. Il maggiore Vanna ebbe un breve colloquio con un capitano, poi ci
chiamò a rapporto. “Il comandante tedesco – ci disse – mi ha comunicato che,
secondo le ultime notizie, Sondrio si sarebbe arresa ieri sera. Ma c’è di
peggio: Mussolini sarebbe stato catturato ieri pomeriggio dai partigiani sul
lago di Como. Se tutto ciò è vero, siamo probabilmente gli ultimi che, tra
Milano e Sondrio, continuano a combattere. Ora intendo sentire il vostro
parere. Dobbiamo continuare?”. Dovevamo. Nessuno di noi voleva accettare
l’eventualità che Mussolini fosse prigioniero dei partigiani. Impossibile,
assurdo. Dovevamo raggiungerlo. Il Duce, di sicuro, resisteva da qualche parte.
Se i nostri capi a Sondrio si erano arresi senza lottare fino in fondo, peggio
per loro. Saremmo penetrati in città, avremmo liberato i nostri camerati e
avremmo fucilato il generale Onori e il federale Parmeggiani per alto tradimento.
Queste furono le decisioni che prendemmo all’alba del 28 aprile a S.Giacomo. E
non eravamo pazzi, ma solo convinti che non poteva, non doveva finire così.
Volevamo concludere in bellezza, con le armi in pugno, attorno a Mussolini.
Superammo il posto di blocco. Le SS ci guardavano con aria assente. “Per noi la
guerra è finita – ci avevano detto – Aspettiamo solo che qualcuno ci comunichi
dove dobbiamo andare a deporre le armi”. Li squadrammo dall’alto in basso: noi
non ci sentivamo ancora sconfitti. E i partigiani? “Saranno nascosti – sentivo
dire – Hanno vinto loro e non hanno ancora il coraggio di mostrarsi”. Si
mostrarono, invece, un’ora più tardi, quando la nostra colonna imboccò il lungo
rettifilo che terminava al bivio con Ponte Valtellina. Non sparavano, ma si
limitavano ad osservarci. E nemmeno noi sparavamo. Quando, verso le 10,
giungemmo al bivio di Ponte Valtellina, il maggiore Vanna ci comunicò le sue
decisioni: “I partigiani ci tallonano da vicino. Non è prudente né utile
marciare allo scoperto. E' opportuno concederci una sosta di qualche ora a
Ponte Valtellina dove c’è, o almeno dovrebbe esserci ancora, il comando della
mia legione, la 3° Confinaria. Ci fermeremo lì fino al tramonto. Se non si
verificano fatti nuovi, riprenderemo la marcia su Sondrio. Il paese si trova a
un km da qui, sulla nostra destra. Può darsi che sia già in mano ai partigiani.
In questo caso bisogna riconquistarlo”. Ponte Valtellina era sì in mano ai
partigiani, ma appena ci videro scapparono via. Non ci fu nemmeno bisogno di
sparare: quei pochi che furono raggiunti dai nostri ragazzi gettarono le armi a
terra e vennero liquidati a calci nel sedere. Erano le 10.30. Il comando della
3° Legione era asserragliato nella ex Casa del Fascio, divenuta poi sede del
municipio. Dal portone ci corsero incontro ufficiali, militi, ausiliarie. Ci
abbracciammo commossi. Entrammo nell’edificio e le ausiliarie ci prepararono un
pasto caldo. Piazzammo le armi tutt’attorno. Messi insieme, eravamo oltre 300.
Trascorsero così 3 ore. Poi, verso le 15, un primo allarme: “I partigiani!”. Li
vedemmo scendere verso il paese. Non si trattava, questa volta, dei 4 fessi che
avevamo preso a calci poche ore prima. Era gente addestrata, disciplinata, che
si muoveva secondo ordini precisi. Ci tenemmo pronti al combattimento, ma
l’ordine era di non sparare per primi. Venissero avanti loro. Nel volgere di 20
minuti fummo completamente circondati, ma la cosa che più ci preoccupava era
una constatazione: se i partigiani si sentivano così liberi nei loro movimenti,
ciò poteva solo significare che non restavano più fronti su cui erano
impegnati. In altre parole: Sondrio e gli altri presidi della Valtellina si
erano probabilmente arresi. Suonarono le 16.30. In quel momento udimmo il rombo
di più automobili che salivano verso Ponte Valtellina. Erano 3 vetture che
portavano, ben visibili, alcune bandiere bianche. Si fermarono nel piazzale
antistante l’ingresso e alcuni borghesi scesero. Con loro, il generale Onori e
il federale Parmeggiani. I nostri due capi erano in divisa, ma non portavano
più la rivoltella alla cintura. Sentii lo stomaco che mi si chiudeva. Allora
era vero: Sondrio si era arresa. 3.000 uomini, decine di mitragliatrici, 3
batterie: più niente. Maledetti, traditori, ora ve la facciamo vedere noi!.
Uscimmo in massa sul piazzale. Tenevamo i mitra imbracciati. Nessuno parlava,
ma bastava poco per provocare un massacro. Alla fine il generale Onori venne
verso di noi. “Và via, – gridammo – và via, traditore!”. “Nessuno ha tradito,
ve lo garantisco - rispose pallido Onori - non c’è più niente da fare, è
finita. Mussolini è prigioniero dei partigiani da ieri pomeriggio. Non arriverà
più in Valtellina. In queste condizioni, ho il dovere di impedire inutili
spargimenti di sangue. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Se Mussolini fosse
arrivato qui, la lotta sarebbe continuata. Solo stanotte, quando mi sono reso
conto della reale situazione, ho accettato le proposte di resa che ci venivano
offerte tramite il vescovo di Sondrio. Sono proposte oneste e onorevoli. Entro
pochi giorni, tutti coloro che non si sono macchiati di reati comuni saranno
muniti di un salvacondotto e lasciati liberi. Abbiamo accettato, anche a nome
di tutte le forze fasciste in Valtellina. Ora dovete ubbidire”. Per qualche
istante il silenzio fu generale, poi scoppiò un tumulto: “No! No, perdio! Le
armi a queste carogne non le diamo. Non è vero che Mussolini è prigioniero. Vi
siete messi d’accordo con quelli là”. Le parole giungevano chiare anche ai
borghesi che rimanevano in disparte: uno di loro si mise a ghignare. Qualcuno
si precipitò verso di lui urlando: “Non ridere, maiale! Non ridere o ti
ammazzo!”. Lo fermammo appena in tempo. Gridammo tutti. Non volevamo
arrenderci. Sapemmo poi che le stesse scene di rivolta e disperazione erano accadute
anche a Sondrio, quando ai reparti era giunto l’ordine di deporre le armi. Ci
ritrovammo nuovamente dentro, nella vasta palestra del comando. “Non dobbiamo
arrenderci - ci dicevamo - Dobbiamo attendere la notte e darci alla montagna.
Non crediamo ai patti di resa. Non sono soldati quelli che li hanno
sottoscritti. Sono banditi. Non manterranno fede agli impegni presi. Ci
massacreranno. Preferiamo morire con un'arma in pugno che come topi in
trappola". In quel momento entrò nella palestra il maggiore Vanna. Teneva
la rivoltella in pugno e si mise a urlare: “Che cosa siete? Soldati o pazzi
furiosi? Lo so che questo è il momento più brutto della nostra vita, ma
dobbiamo sopravvivere. Capito? Io credo che loro manterranno fede ai patti. Ci
voglio credere. Sono italiani come noi. Non massacreranno i fratelli vinti. E
poi sappiate che, se non ci arrendiamo, mettiamo in pericolo le famiglie dei
fascisti in tutta la vallata. I capi del Comitato di Liberazione Nazionale ci
hanno fatto sapere che, se non deponiamo le armi, loro non rispondono di quello
che possono combinare le bande ancora sulle montagne”. “Eccolo il ricatto! –
gridammo – E voi vi fidate di questa gentaglia?”. “Sì, – riprese – mi fido.
Credetemi, ragazzi, non c'è altro da fare”. Si interruppe. Si portò una mano
davanti agli occhi. Piangeva. Piangevamo tutti. Poi qualcuno disse: “Ma le
nostre insegne... quelle no, quelle no! Bruciamole!”. Prendemmo i gagliardetti
del Fascio di Ponte Valtellina e quello della 3° legione. Ci ponemmo tutti
attorno: il maggiore Vanna, il colonnello Fattori stretto alla moglie che
singhiozzava disperata, Parmeggiani, pallido, in un angolo, Ramoino, Giombetti,
Paganella, Canova, Cazzola… Sono tutti morti, per ordine di quelli che avevano
sottoscritto solennemente i patti di resa. Bruciammo le insegne. Poi, con
quanto fiato ci restava, intonammo “Giovinezza” e l’“Inno dei battaglioni M”.
Era l'ultima volta, ormai ne eravamo consapevoli. Quando finimmo di cantare,
sentimmo provenire dall’esterno voci confuse. Udimmo pronunciare distintamente
il nome di Mussolini. Sperammo ancora nel miracolo. “Arriva il Duce!” gridò
qualcuno. Corremmo fuori. Era arrivato, invece, a bordo di una motocicletta, un
partigiano. Gridava: “E’ morto! E’ morto, vi dico. L’ho visto io! L’hanno fatto
fuori!”. “Ma chi è morto?” domandammo smarriti. “Mussolini! Mussolini!” rispose
quello. Capimmo che non mentiva. Erano le 17.30 del 28 aprile. Mi sentii
svuotato. Una stanchezza enorme, infinita, un desiderio pazzo di gettarmi per
terra, di non udire più niente. Vidi le facce stravolte degli altri. Mi sembrò
di sognare. Mussolini morto? No, non era possibile. Eravamo automi, esseri
ormai svuotati di qualsiasi volontà. Ma piuttosto che consegnare le armi,
preferimmo ridurle in mille pezzi. In fila per uno, fummo poi obbligati a
uscire dalla sede del comando per trascorrere la notte nelle aule di una scuola
poco lontano. Ci trovammo chiusi tra 2 file urlanti di partigiani o pseudo
tali. Un uragano di mazzate, di legnate, di insulti. Mi ritrovai alla fine
senza pistola, senza zaino, senza orologio. Ma non sentivo dolore fisico. In
quei momenti non si prova niente: ci si augura solo di morire. E poi la notte.
Ci stiparono in 70 dentro un’aula. Con noi c’erano alcune ausiliarie. I
partigiani continuarono a entrare per ore e ore, ubriachi, pazzi di furore. Ci
puntavano i mitra allo stomaco, gridando: “Tutti gli uomini contro il muro.
Guardate, adesso, che cosa facciamo delle vostre ausiliarie. Venite qua,
puttane!”. Gli stupri di gruppo, tra le urla delle poverette, proseguirono
tutta la notte.
29 APRILE: La mattina ci incolonnarono per quella che fu la
marcia della disperazione da Ponte Valtellina a Sondrio. 9 km. tra una folla
urlante che inveiva, ci sputava addosso, ci aggrediva a ogni passo. Noi eravamo
i delinquenti, noi gli assassini, noi i traditori... Noi che indossavamo ancora
il grigioverde e avevamo sempre avuto per bandiera un tricolore, quel tricolore
che non vedevo più perché attorno a me c’erano solo bandiere inglesi,
americane, e bandiere rosse, un uragano di bandiere rosse. Le ausiliarie si
erano tolte le giacche grigioverdi e marciavano spavalde in camicia nera tra
gli insulti. Attraversammo Sondrio e ci fermammo accanto a un edificio sul
quale si leggeva: “Istituto De Simoni”. Ci condussero verso un palazzotto basso
lì vicino, in galera. Nessuno di noi era ancora riuscito ad accettare la realtà
che stava vivendo. Molti non dormivano da 3 giorni. Da oltre 30 ore eravamo
digiuni. Il carcere era ormai pieno. In piccole celle destinate ad un solo
detenuto, ci stiparono in 24. Eravamo in gabbia.
30 APRILE: Il giorno successivo trascorse per noi tutti in
una atmosfera di crescente quanto assurda speranza. Ci sorreggeva l’illusione
che i capi antifascisti volessero davvero rispettare i patti di resa. Ci chiamavamo
da una cella all’altra e ci scambiavamo notizie. Parlammo di un mucchio di cose
senza importanza. Inconsciamente, ognuno di noi cercava di distrarsi, di non
pensare. Ma verso il tramonto l’inquietudine e l’angoscia tornarono a
sopraffarci. Che cosa stava succedendo fuori dal carcere? Tutta quella
tranquillità non ci annunciava nulla di buono. E venne l’ora di dormire, o
meglio di fingere di dormire. Credo fossero suonate da poco le 22 quando
avvertimmo urla di decine e decine di persone provenire dall’ala principale del
carcere. Avevano portato via il capitano Marchetti, della confinaria per farlo
comparire davanti a un tribunale del popolo. Alcuni domandarono cosa fosse un
tribunale del popolo. Io ne avevo sentito parlare: lo componevano i più fanatici
tra i capi partigiani comunisti. La procedura la inventavano lì per lì. L’unica
pena prevista era la morte, e la sentenza veniva eseguita subito. “Non fatevi
illusioni, – dissi - quei tribunali giudicano esclusivamente sotto il profilo
politico. A loro basta provare che l’imputato è un fascista. E lo mandano al
muro”. “Delinquenti! - sentii mormorare - Hanno vinto loro, ora fanno quello
che vogliono. Facciano pure. Se credono di vederci tremare, se sperano di
vederci implorare pietà, si sbagliano di grosso. Per quanto mi riguarda, non ho
niente da rinnegare, niente di cui dovermi pentire. Possibile che tra i nostri
nemici non ce ne sia uno onesto?”. Una prima risposta l’avemmo la notte stessa:
Marchetti era stato condannato a morte.
1 MAGGIO: Verso le 11, ci condussero in cortile. Incontrammo
una sessantina di nostri camerati. Il carcere ne ospitava in quel momento
almeno il doppio. Anche l’istituto tecnico “De Simoni”, vicino al carcere, era
pieno di fascisti: almeno 600. Molti altri li avevano portati nel Castello, una
massiccia costruzione che sovrasta Sondrio. Che cosa, però, stesse succedendo
negli altri centri della vallata, nessuno lo sapeva bene. In Val Masino, a
Tirano, a Bormio, molti dei nostri erano stati uccisi dopo la resa. Era ormai
evidente che i patti non sarebbero stati rispettati e che i capi del CLN erano
complici nelle uccisioni. Ci fu raccontato quanto era accaduto la sera prima al
capitano Marchetti. Condotto davanti al tribunale del popolo, nei locali del
teatrino dell’ex Casa del Balilla, era stato accusato di essere fascista, di
aver partecipato a rastrellamenti ed essere un torturatore di patrioti. Lui
aveva confermato la sua fede politica e negato di avere mai torturato nessuno.
“Portatemi qui questi patrioti, - aveva detto - li voglio vedere in faccia. Io
ho la coscienza di avere fatto il mio dovere, di avere servito la mia patria”.
Ma i partigiani sentenziarono la condanna a morte. “L’hanno portato via
all’alba – terminò l’ufficiale che ci stava raccontando l'episodio – Prima di uscire
dal carcere mi ha incaricato di dire a voi tutti che moriva da italiano e da
fascista, come era sempre vissuto”. Seguì qualche istante di silenzio, poi ci
rivolgemmo al generale Onori: “Eccoli i patti di resa che avete firmato! Non
dovevamo arrenderci. Bisognava aspettare gli americani e cedere le armi solo a
loro”. Onori ribattè: “Mi sono comportato secondo coscienza. Delle mascalzonate
che fanno, dei delitti che commettono, risponderanno loro, prima o poi, davanti
alla storia. Avevo il dovere che si spargesse inutilmente del sangue. Anch’io
sono qui come voi, e la mia vita è di sicuro più in pericolo della vostra”. I
partigiani entravano nel carcere, ghignando felici. Per tanti mesi avevano
dovuto battere i tacchi davanti a noi. Ora finalmente ci avevano in pugno e
potevano farci quello che volevano, addossandoci le accuse più atroci e
strampalate. Urlavano come ossessi. A me, che ero giunto in Valtellina solo il
20 aprile, uno gridò che mi conosceva e che 2 mesi prima avrei strappato ai
partigiani non so quanti occhi. L’accusa era talmente idiota, che scoppiai a
ridere. Mi coprirono di insulti, garantendomi che la mia ora era suonata, che
mi avrebbero fatto a pezzi. Ma non sarebbe toccato a me, quella sera, comparire
davanti al tribunale del popolo. Toccò al capitano Cattaneo, accusato di
torture, sevizie, massacri. Quando il tribunale emise il verdetto di morte,
gridò con quanto fiato aveva in gola: “Vigliacchi! Viva l’Italia!”.
2 MAGGIO: Ricevemmo la visita di un sacerdote, durante il
ventennio fascista zelantissimo cappellano della Milizia e adesso partigiano
dalla testa ai piedi. Ci illustrò minuziosamente che cosa era successo in
piazzale Loreto. La visione di Mussolini appeso per i piedi ci tormentava
tutti. Cercammo di immaginare che cosa poteva avere sofferto moralmente e
fisicamente, negli ultimi istanti della sua vita, quell’uomo che per tanti anni
aveva lottato e lavorato nell’illusione di fare grande e felice il popolo
italiano. Nel valutare l’immensità della tragedia vissuta da lui, ognuno di noi
poté concludere che il proprio dramma personale era, a confronto, ben poca
cosa. Giunse la sera. Alle 20 ci giunse un richiamo: “Ragazzi, stasera tocca a
me”. Era Alfredo Paganella. Ci guardammo in faccia allibiti. Paganella davanti
al tribunale del popolo? Paganella era un valtellinese molto conosciuto per
essere sempre stato un combattente onesto e leale. Ora, secondo la nuova legge
dei vincitori, chi aveva fatto il suo dovere e difeso la sua terra era soltanto
un criminale da calunniare ed uccidere. Insieme a lui, veniva giudicato anche
Canova, giovane ufficiale delle Brigate Nere. L’attesa fu tormentosa. Nessuno
riuscì a dormire. Poco dopo mezzanotte tornarono. Li avevano condannati a morte
tutti e 2. Ormai imperava la sola legge della giungla. A onor del vero anche
tra i partigiani valtellinesi c’era stato chi aveva tentato di opporsi al
massacro, ma fatto sta che quasi 500 dei nostri pagarono con la vita, nei primi
13 giorni di maggio, la loro fedeltà a Mussolini e all’Italia. La strage
infuriò ovunque: Tirano, Morbegno, Ardenno, Castione, Bagni Val Masino. I
terrificanti particolari di questi eccidi li apprendemmo alcune settimane dopo.
3-12 MAGGIO: Alle 11 ci portarono nel cortile. Nessuno
parlava. “Guardate lassù” disse uno. Levammo la testa verso l’ultimo piano
dell’Istituto “De Simoni”, che sovrastava il cortile del carcere. Le finestre
erano gremite di nostri ragazzi. Tutti guardavano verso l’ingresso della
prigione. I legionari affacciati alle finestre avevano teso le destre nel
saluto romano. Davano l’addio a Paganella e Canova, che stavano andando a
morire. L’incubo della morte dominava ormai tutti i nostri pensieri ma nessuno
imprecò contro la sorte o sputò sul suo passato. Non avevamo niente da
rinnegare, ci uccidessero pure. Il 3 maggio si concluse con la condanna a morte
del tenente Ramoino e dei sergenti Giombetti e Coniglio della confinaria. Li
vennero a prendere verso le 2 del mattino. Li ammazzarono tutti e 3 sulla
strada che conduce a Tirano, alla luce dei fari di un camion. Quando, la
mattina seguente, la giovane moglie di Ramoino giunse al carcere, recando
felice in mano il telegramma della concessione della grazia, si sentì
rispondere che suo marito l’avevano fatto fuori durante la notte. Era fin
troppo chiaro che nulla e nessuno potevano impedire alle squadre appositamente
organizzate dal partito comunista di agire liberamente. Da quel giorno, le
notizie dei massacri cominciarono a pervenirci a getto continuo. Sapemmo così
della strage di Ardenno: nel pomeriggio del 4 maggio alcuni partigiani si erano
presentati alla ex Casa del Fascio, trasformata in campo di concentramento, e
avevano portato via 8 fascisti, nessuno dei quali era stato condannato dal
tribunale del popolo. Vennero prelevati con un pretesto qualsiasi e trasportati
ad Ardenno. Lì furono mitragliati dopo essere stati costretti a scavarsi la
fossa. Poi, il 6 maggio, avvenne la strage di Buglio in Monte: 13 in una volta
sola, prelevati in parte dalla ex Casa del Fascio e in parte dal carcere. A noi
tremavano le gambe: ma non era la paura che si può provare durante un
combattimento, bensì quella di morire come una bestia in gabbia, ucciso da
gente che non sa nemmeno come ti chiami e che cosa hai fatto. Verso il
tramonto, Cazzola, il capitano valtellinese delle Brigate Nere cui i partigiani
avevano rotto la testa durante la marcia da Ponte a Sondrio, ricevette la
citazione a comparire davanti al tribunale del popolo. Tornò 2 ore dopo
impazzito: l’avevano assolto. Nessuno aveva potuto accusarlo di nulla. “Tornerò
a casa mia. Vi aspetto tutti. Forse il peggio è passato. Non morirà più
nessuno. Passeremo una giornata indimenticabile. E cercheremo di cancellare
questi giorni, queste ore. D’accordo, ragazzi?”. La mattina seguente lo vennero
a prendere. Ci salutò incoraggiandoci. Lo ammazzarono 3 ore dopo. Lo misero
insieme ad altri 14 fascisti prelevati dall’ex Casa del Fascio. I 15 vennero
fatti salire su un camion e avviati verso Bagni Val Masino. Arrivati a metà
strada, furono obbligati a scendere. Dovettero scavarsi la fossa. I partigiani
li mitragliarono alle gambe e, mentre quegli sventurati urlavano implorando il
corpo di grazia, li irrorarono con decine di litri di benzina. Li bruciarono
vivi. Il 9 maggio portarono via il maggiore Vanna. Anche lui, la sera
precedente, era stato assolto dal tribunale del popolo, ma venne prelevato
verso la fine di maggio da alcuni partigiani giunti appositamente da
Domodossola per fargli la pelle. E poi la strage di Castione: altri 11. Le
nostre fila si assottigliavano di ora in ora. Un giorno, non ricordo se il 10 o
l’11 maggio, erano giunti in carcere alcuni sacerdoti. Chiesi di poterne
avvicinare uno e fui accontentato. Subito, mi domandò: “Figliolo, ti sei
pentito?”. Lo guardai con aria stupita e interrogativa. “Pentito di che?”
chiesi. “Ma di essere stato fascista”. Mi alzai di scatto: “E perché dovrei
pentirmi? Non ci penso nemmeno, e lei non può parlarmi così. Sono giorni e
giorni che vedo morire i miei amici. Ho chiesto di comunicarmi perché, quando
dovesse toccare a me, voglio andarmene a posto con Dio, ma non posso pentirmi
di essere stato e di essere ancora fascista. Ho servito fedelmente la mia idea,
e forse per questo ci lascerò la pelle. E lei dovrebbe essere l’ultima persona
al mondo a convincermi che mi sono battuto, e che forse muoio, per niente. Vada
all’inferno!”. Non riuscii a frenare la rabbia. Come? Anche i preti contro di
noi? Possibile che fossero impazziti tutti? Sì, erano impazziti tutti. Avevo
ragione io. Avevo ragione perché non avevo mai fatto del male a nessuno. Non avevo
tradito, non avevo sparato alle spalle, non avevo rubato. Avevo solo rischiato
di persona per difendere l’onore del mio popolo e la libertà della mia terra.
Andassero tutti al diavolo. Raccontai l’episodio ai miei compagni. Quelli che
si erano messi in nota per confessarsi, ci rinunciarono.
12-13 MAGGIO: Quel giorno, verso sera, giunse a uno dei miei
compagni di cella, la solita citazione a comparire davanti al tribunale del
popolo. Incominciò una nuova veglia funebre. Stavo impazzendo. Tutti noi, se
quell’incubo non finiva, saremmo impazziti. All'alba del 13 maggio avvertimmo
il solito agghiacciante rumore di serrature. La nostra porta venne spalancata e
apparvero 2 carabinieri. Vederli e pensare di esser salvi fu una cosa sola. La
loro apparizione, dopo quei maledetti 13 giorni di furore e di sangue, dopo
tutta quell’orgia di rosso, di facce patibolari che ci venivano a scegliere per
il macello quotidiano, di prelevamenti notturni, di massacri indiscriminati, mi
restituì il senso dell’ordine, della legge. Venimmo presi da una specie di
vertigine. Poi mi guardai: la divisa, le mani, gli scarponi. Da quanto tempo
non mi toglievo gli scarponi? E la divisa? Tentai di fare un conto: è stato a
Grosio che mi sono vestito per l’ultima volta. Sono 18 giorni che non mi
spoglio. Il tribunale del popolo, maledetto chi l’ha inventato, non funziona
più. Guardai gli altri: gira la testa a me, figuriamoci a chi si sentiva già
morto e sepolto.
20 MAGGIO: Nei giorni che seguirono, molta acqua venne però
a raffreddare le speranze che si erano accese in noi la sera del 13 maggio. I
partigiani non prelevavano più nessuno dal carcere, ma giungevano continuamente
notizie terribili dai campi di concentramento sparsi per tutta la Valtellina. I
primi giornali che riuscimmo a leggere ci offrirono la precisa visione di
quanto stava accadendo in tutta Italia: ogni fascista era un criminale. Anzi,
il termine fascista era ormai considerato un autentico insulto, un oltraggio.
Le descrizioni che si facevano di noi erano semplicemente orripilanti,
abilmente orchestrate dalla regìa comunista per creare attorno a noi
un’atmosfera pesantissima di odio e repulsione. E in quell’atmosfera avremmo
dovuto affrontare i tribunali speciali costituiti dalla rinata democrazia per
giudicare i fascisti. Le Corti d’assise straordinarie contemplavano una tale
serie di reati per cui, a pensarci bene, tre quarti del popolo italiano sarebbe
dovuto finire in galera. Anche l’essere stati Figli della Lupa poteva essere
considerato un reato. La legge, infatti, era retroattiva, punendo fatti e
azioni che, quando si erano verificati, fruttavano elogi, decorazioni e
promozioni. Mi consolavo pensando che tutto quanto stava accadendo era
un’autentica mostruosità, che i traditori, le spie, i collaboratori erano quelli
che si erano schierati a fianco degli angloamericani, non quelli come me
rimasti fedeli a un’alleanza che portava sì la firma di Mussolini, ma anche
quella di re Vittorio Emanuele III, quel bravo sovrano che ora sovvertiva
tutto. Il 20 maggio, nella stanza dei colloqui, incontrai mio padre e mia
sorella. Ci abbracciammo piangendo. Seppi che la mia famiglia non aveva subito
persecuzioni, ma mio padre era stato epurato. Mia sorella mi invitò a togliermi
la divisa ed indossare un abito borghese. “Portatelo indietro - ribattei
infuriato - La camicia nera non la tolgo. Voglio tenerla alla faccia di questi
farabutti”. Mia sorella si mise a piangere. “Per carità. Ne stiamo passando già
abbastanza. Ma ti rendi conto che sei in prigione? Che gli inglesi ti cercano?”.
Mi sentii gelare il sangue. Gli inglesi mi stavano cercando? Tornai in cella.
Avevo con me l’abito borghese. La giornata seguente, alle 15, mi condussero al
comando alleato. Mi ero tolta la camicia nera. Camminammo per un quarto d’ora.
Mi guardavo attorno e provavo un profondo senso di smarrimento. Le strade piene
di gente che sentivo ostile, i partigiani ancora agghindati a festa, le
camionette nemiche. Non era il mio mondo quello, non era più la mia Patria.
Raggiungemmo il comando inglese. Un ufficiale cominciò a interrogarmi.
L’inglese conosceva ogni particolare.......
(Il diario di Giorgio Pisanò é uno dei più sconvolgenti e
veritieri resoconti di quella che fu la tragedia degli Italiani della R.S.I.!
La parte su riprodotta é tratta dal libro "La gioventù che non si é
arresa", libro documento di rara efficacia e rigore morale e storico. Si
invita pertanto l'appassionato cultore di verità storiche a leggere le opere di
Giorgio Pisanò reperibili nelle librerie.)
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