Ho avuto il
piacere di conoscere personalmente l'avvocato Sonia Michelacci in uno dei tanti
incontri che l'Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana di Terranova
Bracciolini, in provincia di Arezzo, promuove; in tale occasione ho avuto modo
di assistere ad una sua conferenza sul tema Dal
Corporativismo alla Socializzazione, passando attraverso
l’esperienza nazionalsocialista. Al termine del suo intervento sono rimasto
così piacevolmente colpito dalla qualità delle argomentazioni, tanto da
chiederle di poter riportare il testo integrale del suo intervento su
ControStoria.it, in modo che chiunque potesse successivamente apprezzare sia
l'argomento, sia la tesi riportata.
La Rivoluzione Fascista fu una rivoluzione incompiuta e
tanto lo evidenzia la mancata riforma della legislazione sociale, che vedeva,
come perno sul quale edificare il Nuovo Stato fascista, la ridefinizione del
concetto di diritto di proprietà. La proprietà privata infatti è un feticcio
con il quale tutti i regimi prima o poi devono fare i conti e Mussolini questo
lo sapeva bene tanto è che la Rivoluzione Fascista, che doveva essere una
rivoluzione totale, doveva sfociare, in campo sociale, nella realizzazione
dello Stato Corporativo visto come unica possibile alternativa economica e
sociale alle democrazie liberali e al capitalismo. Con lo Stato Corporativo il
fascismo voleva dare, in maniera energica, una direzione decisamente
anticapitalista alla sua politica.
Lo Stato Corporativo avrebbe dovuto essere responsabile della produzione, doveva dare impulso alla rigenerazione sociale ed etica dei rapporti fra categorie sociali, doveva spezzare il dominio delle leggi capitalistiche del mercato e quindi doveva spezzare le catene che imprigionavano le categorie popolari alla perversa logica del capitale e del profitto. Occorreva realizzare quella 'Civiltà del lavoro' che, con il ribaltamento dei valori borghesi poneva, in nome della volontà totalitaria del fascismo, il Lavoro e il lavoratore ai vertici della nuova scala delle gerarchie e dei valori politici e sociali.
Nella sua ideazione, il corporativismo doveva portare al compimento della rivoluzione sociale e favorire la formazione di nuove aristocrazie promosse dalle milizie sindacali e dal mondo del lavoro. Non va dimenticato che a San Sepolcro si riunirono tante anime variegate che spaziavano dai socialisti, agli anarchici per arrivare ai nazionalisti e ai sindacalisti rivoluzionari di matrice soreliana e fu questo fascio di anime che dette origine al primo fascismo. Proprio il sindacalismo fascista volle considerarsi il legittimo e coerente erede del patrimonio di lotte del sindacalismo rivoluzionario e della sua originale dottrina sviluppata dai suoi esponenti, personaggi del calibro di Arturo Labriola, Alceste De Ambris e Filippo Corridoni.
Il sindacalismo fascista muoveva una feroce critica alle ideologie democratiche e liberali per promuovere una prassi sociale permeata di autentica solidarietà popolare che voleva essere l’espressione di tutto il popolo e non di una specifica classe e si considerava inoltre l’architrave sulla quale doveva sorgere lo Stato Corporativo. In definitiva all’epoca si pensò che senza l’apporto del sindacalismo non avrebbe potuto esserci la corporazione. Il sindacato aveva come sua realizzazione e fine lo Stato fascista nella sua veste corporativa.
Nel 1927, con la Carta del Lavoro, furono poste le basi su cui edificare lo Stato corporativo, ma con essa il fascismo non disconosceva l’iniziativa privata, bensì le attribuiva ulteriormente una funzione sociale e, soprattutto, attribuiva all’individuo un Dovere Sociale poiché tutta la sua vita si sarebbe dovuta compiere in seno alla società e in armonia con essa. Questo dovere sociale doveva costituire l’unica legge morale dell’individuo. Non si nega quindi, con la Carta del Lavoro, il diritto dell’individuo sulla cosa, ma si integra il concetto di diritto con quello di dovere: la proprietà era obbligata a fare quanto di più utile fosse per lo Stato e per i suoi membri.
Emblematica a tal proposito è la IX disposizione della Carta del Lavoro in quanto prevedeva l’intervento dello Stato nella produzione economica solo e soltanto quando fosse mancata o fosse risultata insufficiente l’iniziativa privata, oppure quando fossero in gioco i prevalenti interessi politici dello Stato. Tale intervento poteva andare dal controllo, all’incoraggiamento fino da arrivare alla gestione diretta. Ecco allora che il diritto di proprietà non era più inteso come ius utendi et abutendi, ma come un diritto di gestione della cosa nell’interesse della comunità.
La Carta del Lavoro e la concezione della proprietà come cardine del Corporativismo furono oggetto di numerose e accese discussioni. Ci fu qualcuno come E. Finzi che fece notare come in realtà la Carta del Lavoro non parlasse di proprietà, bensì di produzione e quindi si doveva parlare di azienda intesa come un bene dinamico, che potendo essere oggetto di proprietà doveva supporre una disciplina dei beni unificati dallo scopo comune. Il lavoro quindi doveva definirsi non più oggetto, ma soggetto dell’economia in quanto la proprietà altro non era che il lavoro di coordinamento tra i beni destinati alla produzione e il lavoro inteso in senso più proprio. La struttura corporativa doveva suscitare nel proprietario la sana coscienza del produttore facendo in modo che nella sua azienda si attuasse un processo produttivo adeguato allo sviluppo economico della nazione.
Tuttavia la Carta del Lavoro conservava in sé i residui del mondo contro cui era sorta e manteneva inconsapevolmente il compromesso e il contrasto fra liberalismo e socialismo in quanto l’individuo e lo Stato venivano rispettati nella loro reciproca autonomia perché la subordinazione dell’uno all’altro era prevista solo in caso di conflitto. Lo Stato restava fuori dall’individuo e quindi a ben vedere ciascuna categoria produttiva perseguiva interessi distinti. I lavoratori che si identificavano con i sindacati erano esclusi dalla partecipazione diretta alla gestione e i dirigenti delle imprese che non si identificavano né con il capitale né con il lavoro svolgevano mansioni marginali. Le imprese poi si avvalevano di partecipazioni azionarie anonime che per forza di cose non erano direttamente interessate all’impresa: mancava in definitiva una reale identità di interessi.
Intorno al 1929, con il Consiglio Nazionale delle Corporazioni e con l'istituzione delle corporazioni di categoria si cercò di ovviare a questo compromesso. Fu tuttavia il filosofo idealista Ugo Spirito nel 1932 a sostenere senza successo l’identificazione ideale fra individuo e Stato superandone in dualismo: per arrivare al superamento del dualismo individuo-Stato, dice Spirito, occorreva che la corporazione si ponesse come corpo sociale intermedio. Lo Stato quindi non più come ente sovra-ordinato, ma come ente che doveva esprimere la volontà della Nazione nel suo insieme organico. Non più arbitrio privato ma la libertà del singolo veniva affermata nell’organismo statale. Ecco l’identità speculativa fra individuo e Stato! Ciò imponeva una radicale metamorfosi della concezione della proprietà che da privata si doveva trasformare in senso pubblicistico fino a divenire 'sociale'.
In definitiva ciò non era avvenuto con la Carta del Lavoro dove capitale e lavoro si erano giustapposti senza fondersi. Il corporativismo si doveva trasformare e attribuire alla corporazione quella qualità di corpo gerarchico intermedio innalzandosi a sistema corporativo integrale. La corporazione cioè doveva farsi proprietaria, solo così il capitale sarebbe passato dagli azionisti ai lavoratori che avrebbero acquisito la proprietà per la parte loro spettante in base a gradi gerarchici: il capitalista non sarebbe più stato estraneo all’amministrazione della sua proprietà perché, coincidendo con la figura del lavoratore avrebbe amministrato la proprietà egli stesso mentre l’imprenditore si sarebbe posto al vertice della gerarchia corporativa e dello Stato non più inteso come un organo conciliatore, ma come realtà stessa della corporazione considerata nell’ottica del sistema nazionale.
Si poteva così eliminare la lotta di classe e negare il sindacato, un organismo espressione del contesto di quella conflittualità. Si parlò per la prima volta di partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione e alla direzione dell’impresa, il lavoro veniva visto finalmente come fattiva collaborazione fra gli uomini: era necessario restituire all’esperienza sociale il suo carattere organico e dare una interpretazione pubblicistica alla proprietà in coerenza con la concezione etica dello Stato. Nella corporazione si dovevano far coincidere gli interessi dello Stato con quelli del lavoro.
Ugo Spirito venne accusato di paventare una sorta di bolscevismo, quando in realtà la sua teoria era permeata di istanze autenticamente sociali che rappresentavano una sintetica forma di 'socialismo nazionale'. Lo stesso Giuseppe Bottai, ministro dell’economia corporativa, dichiarò un legame ideale con la teoria di Ugo Spirito, ma ne prese le distanze proprio perché auspicando l’abolizione dei sindacati si poneva fuori dalla dottrina del corporativismo (infatti Bottai rivendicava l’autonomia esistente fra impresa, sindacato, corporazione e Stato, elementi che invece Ugo Spirito unificava nella totalità rappresentata dalla Corporazione Proprietaria).
Ugo Spirito tornò sulla questione in seguito per spiegare come in realtà lui non avesse mai inteso sopprimere l’iniziativa privata, bensì negarne il suo esclusivo carattere privato: in fondo nella stessa settima dichiarazione della Carta del Lavoro l’iniziativa e la proprietà privata venivano finalizzate in senso pubblicistico per l’interesse superiore della nazione. Allora, nel 1932, i tempi non erano ancora maturi e nel 1942 la stesura definitiva del Codice Civile sancirà una volta per tutte che la rivoluzione fascista era rimasta una rivoluzione incompiuta: fu una rivoluzione indubbiamente negli intenti e nelle prospettive, ma non lo fu poi nei fatti concreti.
Perché il fascismo torni ad attuare se stesso, anzi ad evolvere se stesso, occorrerà l’onta del tradimento covato nei vertici del regime. Con il 1943 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana il fascismo recupera tutte le sue sopite istanze socialiste e, sia pure in maniera diversa, con la legge sulla socializzazione delle imprese andò incontro alla teoria di Ugo Spirito della Corporazione Proprietaria. Con tutti i dovuti e necessari distinguo, naturalmente. Con la legge sulla socializzazione delle imprese si metteva in discussione l’intero sistema di diritto privato appena codificato, si attuava finalmente quel principio corporativo che durante il trascorso regime non si aveva avuto il coraggio di attuare, cioè il principio della programmazione come processo economico scaturente dal basso, dalla collaborazione di tutti i fattori della produzione.
Innanzitutto si prevedeva il passaggio delle aziende nevralgiche per l’economia nazionale in proprietà dello Stato e nelle imprese un posto predominante fu assegnato al Consiglio di Gestione, un innovativo istituto che era composto dai soli rappresentanti dei lavoratori. Si riconosceva così al lavoro l’essere elemento determinante del processo produttivo ed economico. Non si rinnega quindi la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma questa non è più l’elemento determinante, occorreva educare il produttore/lavoratore a considerare il lavoro sotto una nuova luce e cioè non più come una fatale maledizione divina, ma come processo produttivo al quale partecipare attivamente tramite la ripartizione dei frutti.
Si arriva ad un rinnovamento della proprietà nel suo contenuto più propriamente etico e nel superamento della concezione individualistica e liberalistica. Il concetto di 'dovere sociale' si sarebbe innestato come elemento costitutivo del diritto soggettivo. La proprietà privata, pertanto, non più intesa come un diritto assoluto, ma come un dovere sociale rivolto alla collettività, occorreva allora distinguere le due diverse realtà dell’impresa e dell’azienda, perché la prima andava letta come unità dinamica comprendente sia l’imprenditore che i lavoratori, cioè tutti i fattori attivi della produzione. Su questa non vi poteva essere proprietà, mentre l’azienda, unità statica composta dai mezzi di produzione, ben poteva rimanere di proprietà dell’imprenditore. Proprietario quindi sì ma dell’azienda e non dell’impresa che invece rimaneva soggetta a tutti i fattori della produzione (non è forse il raggiungimento di quella identità speculativa fra individuo e Stato teorizzata da Ugo Spirito?).
Ecco quindi che il proprietario dei mezzi di produzione doveva inserirsi nel contesto etico degli interessi pubblici e quindi stabilire la destinazione delle cose che mette a disposizione del lavoratore il quale si obbliga per realizzare tale destinazione. Ecco il rapporto di appartenenza: collaborare per il buon andamento della produzione nell’interesse superiore della nazione. La socializzazione riordina così i principi della proprietà frutto ora del lavoro e del risparmio, proprietà sociale allora posta a garanzia e tutela del diritto del lavoro alla gestione diretta delle imprese in parità con il capitale e della partecipazione agli utili. Nella RSI venivano unificati per la prima volta capitale e lavoro, colmando così una lacuna troppo a lungo trascurata nel trascorso regime che aveva tollerato il persistere, all’ombra dei postulati della Carta del Lavoro, della contrapposizione conflittuale tra i datori di lavoro e i prestatori d’opera.
Per Ugo Spirito il compito unificatore era di spettanza della corporazione; nella RSI si toglie la corporazione e rimane l’impresa socializzata in cui i lavoratori eleggono i loro rappresentanti nei consigli di gestione o di amministrazione e in cui il direttore dell’impresa era responsabile politicamente e giuridicamente di fronte allo Stato. La proprietà privata andava a ricoprire una volta per tutte una posizione accessoria rispetto al lavoro. Con l’attuazione del nuovo programma sociale il fascismo aveva imboccato la strada del 'socialismo nazionale' e l’unico esempio concreto in tal senso a cui fare riferimento non era certo quello prospettato dalla proprietà statale offerta dal capitalismo di Stato dell’URSS, ma quello dato dalla proprietà sociale della vicina Germania Nazionalsocialista, esempio a cui, già nel 1934, guardava con interesse Ugo Spirito.
La Germania Nazionalsocialista, infatti non abolì mai la proprietà privata del singolo, ma trasformò la proprietà della produzione da privata in sociale e non con una 'funzione sociale', alla stessa si toglieva così il peso decisivo nella vita produttiva in quanto capitale e lavoro si fondevano all’insegna del presupposto prioritario del 'bene comune'. Nella RSI a tutto questo si era arrivati purtroppo tardi, ma se in precedenza si fosse dato ascolto ad Ugo Spirito, ovvero nel 1932, quali possibilità di sviluppo si sarebbero prospettate?
Nel corso degli anni trenta, nella Germania hitleriana, la rivoluzione sociale voluta dal nazionalsocialismo era quanto mai un fatto compiuto, pensiamo solamente alla riforma effettuata nell’ambito della produzione e nelle fabbriche dal DAF, il Fronte del Lavoro, l’organizzazione diretta da Robert Ley, pensiamo soprattutto alla mentalità tedesca, alla concezione della Volksgemeinschaft dove datore di lavoro e lavoratore dovevano collaborare assieme per lo sviluppo del processo produttivo: entrambi sono lavoratori e collaboratori nel medesimo processo produttivo, dove l’azienda è vista come una Comunità di lavoro nella quale non si può procedere se non secondo i fondamentali concetti di Onore sociale e di responsabilità (mentre in Italia si parla di dovere sociale in Germana si sottolinea l’Onore sociale). Si accosta per la prima volta l’onore al lavoro e si considera lavoratore chiunque si guadagli onorevolmente la vita. Ecco allora che ogni impostazione mentale incentrata sulla lotta di classe era destinata naturalmente a scomparire.
Nel 1933 in Germania venne istituito il DAF (Frante del Lavoro tedesco) il cui scopo era, per decreto del Führer, la promozione di una reale Volksgemeinschaft produttiva per tutti i tedeschi: il lavoratore veniva poi nel 1934 inserito nei ranghi di questa Comunità (comunità che nel 1932 Ugo Spirito vedeva nella Corporazione). L’organizzazione era articolata sia territorialmente, sia verticalmente, comprendendo in essa tutte le comunità aziendali che operavano in parallelo con i gruppi economici obbligatori e si occupava anche di organizzare la vita dei lavoratori fuori dall’azienda in campo culturale e ricreativo, per esempio con l’istituzione del Kraft durch Freude che voleva dare una impronta comunitaria al di fuori dei momenti lavorativi. Si liberava così il lavoratore dalla riduttiva condizione di 'proletario' attraverso l’etica del lavoro gioioso e una dignitosa vita sociale.
Quindi analizzando l’organizzazione aziendale nazionalsocialista vediamo che l’imprenditore è il capo dell’azienda e gli operai sono il seguito e insieme collaborano per il perseguimento delle finalità aziendali a vantaggio della Volksgemeinschaft. Pertanto concordanza comunitaria degli scopi e corale impegno per il prioritario 'bene comune'. Il capo dell’azienda doveva adoperarsi con il massimo sforzo affinché venisse consentito ai lavoratori di lavorare nelle migliori condizioni possibili, inoltre al suo fianco vigilava il Consiglio dei Fiduciari con il compito di rafforzare la solidarietà cameratesca fra tutti i membri della produzione. Il capo dell’azienda doveva poi collaborare attivamente con esso e fornire tutte le informazioni necessarie perchè il Consiglio dei Fiduciari potesse adempiere alle sue funzioni e dirimere le eventuali controversie che potessero sorgere.
Siccome il punto cardine della concezione nazionalsocialista del lavoro era l’onore sociale e ogni membro della comunità aziendale era tenuto ad agire secondo onestà e correttezza, furono istituiti altresì i Tribunali dell’Onore sociale ai quali erano sottoposti paritariamente i datori di lavoro e i lavoratori, come anche i membri del consiglio dei fiduciari. Perché poi il lavoratore potesse contribuire al massimo rendimento della produzione nel 1936 venne istituita, con decreto del Führer, la gara per il rendimento delle imprese che avrebbe proclamato la cosiddetta 'azienda modello nazionalsocialista': non una gara per incentivare la concorrenza nella redditività, bensì una competizione impostata sulla qualità sociale del lavoro.
Questo modello relegava nel passato le lotte per il lavoro, perché superava l’interesse individuale, superava cioè la conflittualità di classe e vi sostituiva l’impegno solidaristico di tutti volto al benessere della Volksgemeinschaft. Tutto questo portava conseguentemente alla sprivatizzazione del diritto e sopratutto di quello della proprietà. La proprietà privata era vista ora come posizione giuridica data dall’ordinamento nazionalsocialista del popolo al singolo, anche lui espressione della comunità stessa.
Diritto oggettivo pertanto, espressione dello spirito del popolo e non più diritto soggettivo valevole erga omnes: ecco allora che prendeva sempre più forza la lotta contro la schiavitù dell’interesse perché solo il lavoro poteva produrre reddito ed avere la supremazia sul capitale. Mussolini si avvicinò con la socializzazione a questo modello, in effetti ben sapeva che al punto 23 del programma della NSDAP era prevista la partecipazione dei lavoratori ai guadagni, così come Mussolini volle con la legge sulla socializzazione delle imprese. In linea di principio in Germania, ma anche nella RSI; si riconosce comunque la proprietà privata e la si colloca sotto la protezione dello Stato: in fondo la Patria diventa un qualcosa di concreto quando si sta sulla propria terra e quindi quando si possiede qualcosa, procurato però onestamente tramite il proprio lavoro.
Il problema in definitiva non era costituito dalla piccola proprietà ma dai grossi complessi industriali che dovevano, per dirla con Werner Sombart, essere messi sotto il controllo delle pubbliche autorità. La politica agraria non fu da meno: Walter Darrè la fondò sulla concezione del Blut und Boden. Nel 1936 furono istituiti gli Ehrbof che erano dei 'poderi' indivisibili, inalienabili e impignorabili. Le prerogative del proprietario erano notevolmente ridimensionate perché passavano in secondo piano rispetto alle necessità della comunità di popolo, nei confronti della comunità infatti il contadino doveva assumersi precisi doveri e responsabilità.
Eravamo arrivati in campo agrario più che in quello aziendale ad una riduzione della proprietà privata? Assolutamente no, eravamo arrivati così come in campo aziendale alla trasformazione del concetto di proprietà da privato a sociale e tanto lo si può comprendere solo se abbandoniamo una volta per tutte la concezione liberale della proprietà in base alla quale sicuramente l’Ehrbof rappresenterebbe l’abolizione della proprietà privata, perché il proprietario non ne può disporre come meglio gli aggrada, ma se consideriamo che la proprietà non è altro che la posizione del singolo nell’ordinamento giuridico ecco che nell’istituzione dell’Ehrbof la proprietà trova tutta la sua conferma in quanto la stessa proprietà viene posta al servizio della comunità e del bene comune.
Ugo Spirito nel 1934 quando compose lo studio relativo al 'Corporativismo Nazionalsocialista' e analizzò la partecipazione del lavoratore alla gestione diretta dell’azienda si rese conto di quanta strada ancora doveva essere fatta in Italia e di quanta arretratezza affliggesse l’Italia. La RSI ridusse le distanze, iniziò quel percorso che l’avrebbe portata, se le circostanze del conflitto bellico lo avessero permesso, ad abbattere per sempre la concezione capitalistica del mercato e del profitto. Con la RSI il popolo italiano riprendeva coscienza di sé e partecipava direttamente alla rifondazione della propria Nazione.
http://www.controstoria.it/documenti/dal-corporativismo-alla-socializzazione.html
Lo Stato Corporativo avrebbe dovuto essere responsabile della produzione, doveva dare impulso alla rigenerazione sociale ed etica dei rapporti fra categorie sociali, doveva spezzare il dominio delle leggi capitalistiche del mercato e quindi doveva spezzare le catene che imprigionavano le categorie popolari alla perversa logica del capitale e del profitto. Occorreva realizzare quella 'Civiltà del lavoro' che, con il ribaltamento dei valori borghesi poneva, in nome della volontà totalitaria del fascismo, il Lavoro e il lavoratore ai vertici della nuova scala delle gerarchie e dei valori politici e sociali.
Nella sua ideazione, il corporativismo doveva portare al compimento della rivoluzione sociale e favorire la formazione di nuove aristocrazie promosse dalle milizie sindacali e dal mondo del lavoro. Non va dimenticato che a San Sepolcro si riunirono tante anime variegate che spaziavano dai socialisti, agli anarchici per arrivare ai nazionalisti e ai sindacalisti rivoluzionari di matrice soreliana e fu questo fascio di anime che dette origine al primo fascismo. Proprio il sindacalismo fascista volle considerarsi il legittimo e coerente erede del patrimonio di lotte del sindacalismo rivoluzionario e della sua originale dottrina sviluppata dai suoi esponenti, personaggi del calibro di Arturo Labriola, Alceste De Ambris e Filippo Corridoni.
Il sindacalismo fascista muoveva una feroce critica alle ideologie democratiche e liberali per promuovere una prassi sociale permeata di autentica solidarietà popolare che voleva essere l’espressione di tutto il popolo e non di una specifica classe e si considerava inoltre l’architrave sulla quale doveva sorgere lo Stato Corporativo. In definitiva all’epoca si pensò che senza l’apporto del sindacalismo non avrebbe potuto esserci la corporazione. Il sindacato aveva come sua realizzazione e fine lo Stato fascista nella sua veste corporativa.
Nel 1927, con la Carta del Lavoro, furono poste le basi su cui edificare lo Stato corporativo, ma con essa il fascismo non disconosceva l’iniziativa privata, bensì le attribuiva ulteriormente una funzione sociale e, soprattutto, attribuiva all’individuo un Dovere Sociale poiché tutta la sua vita si sarebbe dovuta compiere in seno alla società e in armonia con essa. Questo dovere sociale doveva costituire l’unica legge morale dell’individuo. Non si nega quindi, con la Carta del Lavoro, il diritto dell’individuo sulla cosa, ma si integra il concetto di diritto con quello di dovere: la proprietà era obbligata a fare quanto di più utile fosse per lo Stato e per i suoi membri.
Emblematica a tal proposito è la IX disposizione della Carta del Lavoro in quanto prevedeva l’intervento dello Stato nella produzione economica solo e soltanto quando fosse mancata o fosse risultata insufficiente l’iniziativa privata, oppure quando fossero in gioco i prevalenti interessi politici dello Stato. Tale intervento poteva andare dal controllo, all’incoraggiamento fino da arrivare alla gestione diretta. Ecco allora che il diritto di proprietà non era più inteso come ius utendi et abutendi, ma come un diritto di gestione della cosa nell’interesse della comunità.
La Carta del Lavoro e la concezione della proprietà come cardine del Corporativismo furono oggetto di numerose e accese discussioni. Ci fu qualcuno come E. Finzi che fece notare come in realtà la Carta del Lavoro non parlasse di proprietà, bensì di produzione e quindi si doveva parlare di azienda intesa come un bene dinamico, che potendo essere oggetto di proprietà doveva supporre una disciplina dei beni unificati dallo scopo comune. Il lavoro quindi doveva definirsi non più oggetto, ma soggetto dell’economia in quanto la proprietà altro non era che il lavoro di coordinamento tra i beni destinati alla produzione e il lavoro inteso in senso più proprio. La struttura corporativa doveva suscitare nel proprietario la sana coscienza del produttore facendo in modo che nella sua azienda si attuasse un processo produttivo adeguato allo sviluppo economico della nazione.
Tuttavia la Carta del Lavoro conservava in sé i residui del mondo contro cui era sorta e manteneva inconsapevolmente il compromesso e il contrasto fra liberalismo e socialismo in quanto l’individuo e lo Stato venivano rispettati nella loro reciproca autonomia perché la subordinazione dell’uno all’altro era prevista solo in caso di conflitto. Lo Stato restava fuori dall’individuo e quindi a ben vedere ciascuna categoria produttiva perseguiva interessi distinti. I lavoratori che si identificavano con i sindacati erano esclusi dalla partecipazione diretta alla gestione e i dirigenti delle imprese che non si identificavano né con il capitale né con il lavoro svolgevano mansioni marginali. Le imprese poi si avvalevano di partecipazioni azionarie anonime che per forza di cose non erano direttamente interessate all’impresa: mancava in definitiva una reale identità di interessi.
Intorno al 1929, con il Consiglio Nazionale delle Corporazioni e con l'istituzione delle corporazioni di categoria si cercò di ovviare a questo compromesso. Fu tuttavia il filosofo idealista Ugo Spirito nel 1932 a sostenere senza successo l’identificazione ideale fra individuo e Stato superandone in dualismo: per arrivare al superamento del dualismo individuo-Stato, dice Spirito, occorreva che la corporazione si ponesse come corpo sociale intermedio. Lo Stato quindi non più come ente sovra-ordinato, ma come ente che doveva esprimere la volontà della Nazione nel suo insieme organico. Non più arbitrio privato ma la libertà del singolo veniva affermata nell’organismo statale. Ecco l’identità speculativa fra individuo e Stato! Ciò imponeva una radicale metamorfosi della concezione della proprietà che da privata si doveva trasformare in senso pubblicistico fino a divenire 'sociale'.
In definitiva ciò non era avvenuto con la Carta del Lavoro dove capitale e lavoro si erano giustapposti senza fondersi. Il corporativismo si doveva trasformare e attribuire alla corporazione quella qualità di corpo gerarchico intermedio innalzandosi a sistema corporativo integrale. La corporazione cioè doveva farsi proprietaria, solo così il capitale sarebbe passato dagli azionisti ai lavoratori che avrebbero acquisito la proprietà per la parte loro spettante in base a gradi gerarchici: il capitalista non sarebbe più stato estraneo all’amministrazione della sua proprietà perché, coincidendo con la figura del lavoratore avrebbe amministrato la proprietà egli stesso mentre l’imprenditore si sarebbe posto al vertice della gerarchia corporativa e dello Stato non più inteso come un organo conciliatore, ma come realtà stessa della corporazione considerata nell’ottica del sistema nazionale.
Si poteva così eliminare la lotta di classe e negare il sindacato, un organismo espressione del contesto di quella conflittualità. Si parlò per la prima volta di partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione e alla direzione dell’impresa, il lavoro veniva visto finalmente come fattiva collaborazione fra gli uomini: era necessario restituire all’esperienza sociale il suo carattere organico e dare una interpretazione pubblicistica alla proprietà in coerenza con la concezione etica dello Stato. Nella corporazione si dovevano far coincidere gli interessi dello Stato con quelli del lavoro.
Ugo Spirito venne accusato di paventare una sorta di bolscevismo, quando in realtà la sua teoria era permeata di istanze autenticamente sociali che rappresentavano una sintetica forma di 'socialismo nazionale'. Lo stesso Giuseppe Bottai, ministro dell’economia corporativa, dichiarò un legame ideale con la teoria di Ugo Spirito, ma ne prese le distanze proprio perché auspicando l’abolizione dei sindacati si poneva fuori dalla dottrina del corporativismo (infatti Bottai rivendicava l’autonomia esistente fra impresa, sindacato, corporazione e Stato, elementi che invece Ugo Spirito unificava nella totalità rappresentata dalla Corporazione Proprietaria).
Ugo Spirito tornò sulla questione in seguito per spiegare come in realtà lui non avesse mai inteso sopprimere l’iniziativa privata, bensì negarne il suo esclusivo carattere privato: in fondo nella stessa settima dichiarazione della Carta del Lavoro l’iniziativa e la proprietà privata venivano finalizzate in senso pubblicistico per l’interesse superiore della nazione. Allora, nel 1932, i tempi non erano ancora maturi e nel 1942 la stesura definitiva del Codice Civile sancirà una volta per tutte che la rivoluzione fascista era rimasta una rivoluzione incompiuta: fu una rivoluzione indubbiamente negli intenti e nelle prospettive, ma non lo fu poi nei fatti concreti.
Perché il fascismo torni ad attuare se stesso, anzi ad evolvere se stesso, occorrerà l’onta del tradimento covato nei vertici del regime. Con il 1943 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana il fascismo recupera tutte le sue sopite istanze socialiste e, sia pure in maniera diversa, con la legge sulla socializzazione delle imprese andò incontro alla teoria di Ugo Spirito della Corporazione Proprietaria. Con tutti i dovuti e necessari distinguo, naturalmente. Con la legge sulla socializzazione delle imprese si metteva in discussione l’intero sistema di diritto privato appena codificato, si attuava finalmente quel principio corporativo che durante il trascorso regime non si aveva avuto il coraggio di attuare, cioè il principio della programmazione come processo economico scaturente dal basso, dalla collaborazione di tutti i fattori della produzione.
Innanzitutto si prevedeva il passaggio delle aziende nevralgiche per l’economia nazionale in proprietà dello Stato e nelle imprese un posto predominante fu assegnato al Consiglio di Gestione, un innovativo istituto che era composto dai soli rappresentanti dei lavoratori. Si riconosceva così al lavoro l’essere elemento determinante del processo produttivo ed economico. Non si rinnega quindi la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma questa non è più l’elemento determinante, occorreva educare il produttore/lavoratore a considerare il lavoro sotto una nuova luce e cioè non più come una fatale maledizione divina, ma come processo produttivo al quale partecipare attivamente tramite la ripartizione dei frutti.
Si arriva ad un rinnovamento della proprietà nel suo contenuto più propriamente etico e nel superamento della concezione individualistica e liberalistica. Il concetto di 'dovere sociale' si sarebbe innestato come elemento costitutivo del diritto soggettivo. La proprietà privata, pertanto, non più intesa come un diritto assoluto, ma come un dovere sociale rivolto alla collettività, occorreva allora distinguere le due diverse realtà dell’impresa e dell’azienda, perché la prima andava letta come unità dinamica comprendente sia l’imprenditore che i lavoratori, cioè tutti i fattori attivi della produzione. Su questa non vi poteva essere proprietà, mentre l’azienda, unità statica composta dai mezzi di produzione, ben poteva rimanere di proprietà dell’imprenditore. Proprietario quindi sì ma dell’azienda e non dell’impresa che invece rimaneva soggetta a tutti i fattori della produzione (non è forse il raggiungimento di quella identità speculativa fra individuo e Stato teorizzata da Ugo Spirito?).
Ecco quindi che il proprietario dei mezzi di produzione doveva inserirsi nel contesto etico degli interessi pubblici e quindi stabilire la destinazione delle cose che mette a disposizione del lavoratore il quale si obbliga per realizzare tale destinazione. Ecco il rapporto di appartenenza: collaborare per il buon andamento della produzione nell’interesse superiore della nazione. La socializzazione riordina così i principi della proprietà frutto ora del lavoro e del risparmio, proprietà sociale allora posta a garanzia e tutela del diritto del lavoro alla gestione diretta delle imprese in parità con il capitale e della partecipazione agli utili. Nella RSI venivano unificati per la prima volta capitale e lavoro, colmando così una lacuna troppo a lungo trascurata nel trascorso regime che aveva tollerato il persistere, all’ombra dei postulati della Carta del Lavoro, della contrapposizione conflittuale tra i datori di lavoro e i prestatori d’opera.
Per Ugo Spirito il compito unificatore era di spettanza della corporazione; nella RSI si toglie la corporazione e rimane l’impresa socializzata in cui i lavoratori eleggono i loro rappresentanti nei consigli di gestione o di amministrazione e in cui il direttore dell’impresa era responsabile politicamente e giuridicamente di fronte allo Stato. La proprietà privata andava a ricoprire una volta per tutte una posizione accessoria rispetto al lavoro. Con l’attuazione del nuovo programma sociale il fascismo aveva imboccato la strada del 'socialismo nazionale' e l’unico esempio concreto in tal senso a cui fare riferimento non era certo quello prospettato dalla proprietà statale offerta dal capitalismo di Stato dell’URSS, ma quello dato dalla proprietà sociale della vicina Germania Nazionalsocialista, esempio a cui, già nel 1934, guardava con interesse Ugo Spirito.
La Germania Nazionalsocialista, infatti non abolì mai la proprietà privata del singolo, ma trasformò la proprietà della produzione da privata in sociale e non con una 'funzione sociale', alla stessa si toglieva così il peso decisivo nella vita produttiva in quanto capitale e lavoro si fondevano all’insegna del presupposto prioritario del 'bene comune'. Nella RSI a tutto questo si era arrivati purtroppo tardi, ma se in precedenza si fosse dato ascolto ad Ugo Spirito, ovvero nel 1932, quali possibilità di sviluppo si sarebbero prospettate?
Nel corso degli anni trenta, nella Germania hitleriana, la rivoluzione sociale voluta dal nazionalsocialismo era quanto mai un fatto compiuto, pensiamo solamente alla riforma effettuata nell’ambito della produzione e nelle fabbriche dal DAF, il Fronte del Lavoro, l’organizzazione diretta da Robert Ley, pensiamo soprattutto alla mentalità tedesca, alla concezione della Volksgemeinschaft dove datore di lavoro e lavoratore dovevano collaborare assieme per lo sviluppo del processo produttivo: entrambi sono lavoratori e collaboratori nel medesimo processo produttivo, dove l’azienda è vista come una Comunità di lavoro nella quale non si può procedere se non secondo i fondamentali concetti di Onore sociale e di responsabilità (mentre in Italia si parla di dovere sociale in Germana si sottolinea l’Onore sociale). Si accosta per la prima volta l’onore al lavoro e si considera lavoratore chiunque si guadagli onorevolmente la vita. Ecco allora che ogni impostazione mentale incentrata sulla lotta di classe era destinata naturalmente a scomparire.
Nel 1933 in Germania venne istituito il DAF (Frante del Lavoro tedesco) il cui scopo era, per decreto del Führer, la promozione di una reale Volksgemeinschaft produttiva per tutti i tedeschi: il lavoratore veniva poi nel 1934 inserito nei ranghi di questa Comunità (comunità che nel 1932 Ugo Spirito vedeva nella Corporazione). L’organizzazione era articolata sia territorialmente, sia verticalmente, comprendendo in essa tutte le comunità aziendali che operavano in parallelo con i gruppi economici obbligatori e si occupava anche di organizzare la vita dei lavoratori fuori dall’azienda in campo culturale e ricreativo, per esempio con l’istituzione del Kraft durch Freude che voleva dare una impronta comunitaria al di fuori dei momenti lavorativi. Si liberava così il lavoratore dalla riduttiva condizione di 'proletario' attraverso l’etica del lavoro gioioso e una dignitosa vita sociale.
Quindi analizzando l’organizzazione aziendale nazionalsocialista vediamo che l’imprenditore è il capo dell’azienda e gli operai sono il seguito e insieme collaborano per il perseguimento delle finalità aziendali a vantaggio della Volksgemeinschaft. Pertanto concordanza comunitaria degli scopi e corale impegno per il prioritario 'bene comune'. Il capo dell’azienda doveva adoperarsi con il massimo sforzo affinché venisse consentito ai lavoratori di lavorare nelle migliori condizioni possibili, inoltre al suo fianco vigilava il Consiglio dei Fiduciari con il compito di rafforzare la solidarietà cameratesca fra tutti i membri della produzione. Il capo dell’azienda doveva poi collaborare attivamente con esso e fornire tutte le informazioni necessarie perchè il Consiglio dei Fiduciari potesse adempiere alle sue funzioni e dirimere le eventuali controversie che potessero sorgere.
Siccome il punto cardine della concezione nazionalsocialista del lavoro era l’onore sociale e ogni membro della comunità aziendale era tenuto ad agire secondo onestà e correttezza, furono istituiti altresì i Tribunali dell’Onore sociale ai quali erano sottoposti paritariamente i datori di lavoro e i lavoratori, come anche i membri del consiglio dei fiduciari. Perché poi il lavoratore potesse contribuire al massimo rendimento della produzione nel 1936 venne istituita, con decreto del Führer, la gara per il rendimento delle imprese che avrebbe proclamato la cosiddetta 'azienda modello nazionalsocialista': non una gara per incentivare la concorrenza nella redditività, bensì una competizione impostata sulla qualità sociale del lavoro.
Questo modello relegava nel passato le lotte per il lavoro, perché superava l’interesse individuale, superava cioè la conflittualità di classe e vi sostituiva l’impegno solidaristico di tutti volto al benessere della Volksgemeinschaft. Tutto questo portava conseguentemente alla sprivatizzazione del diritto e sopratutto di quello della proprietà. La proprietà privata era vista ora come posizione giuridica data dall’ordinamento nazionalsocialista del popolo al singolo, anche lui espressione della comunità stessa.
Diritto oggettivo pertanto, espressione dello spirito del popolo e non più diritto soggettivo valevole erga omnes: ecco allora che prendeva sempre più forza la lotta contro la schiavitù dell’interesse perché solo il lavoro poteva produrre reddito ed avere la supremazia sul capitale. Mussolini si avvicinò con la socializzazione a questo modello, in effetti ben sapeva che al punto 23 del programma della NSDAP era prevista la partecipazione dei lavoratori ai guadagni, così come Mussolini volle con la legge sulla socializzazione delle imprese. In linea di principio in Germania, ma anche nella RSI; si riconosce comunque la proprietà privata e la si colloca sotto la protezione dello Stato: in fondo la Patria diventa un qualcosa di concreto quando si sta sulla propria terra e quindi quando si possiede qualcosa, procurato però onestamente tramite il proprio lavoro.
Il problema in definitiva non era costituito dalla piccola proprietà ma dai grossi complessi industriali che dovevano, per dirla con Werner Sombart, essere messi sotto il controllo delle pubbliche autorità. La politica agraria non fu da meno: Walter Darrè la fondò sulla concezione del Blut und Boden. Nel 1936 furono istituiti gli Ehrbof che erano dei 'poderi' indivisibili, inalienabili e impignorabili. Le prerogative del proprietario erano notevolmente ridimensionate perché passavano in secondo piano rispetto alle necessità della comunità di popolo, nei confronti della comunità infatti il contadino doveva assumersi precisi doveri e responsabilità.
Eravamo arrivati in campo agrario più che in quello aziendale ad una riduzione della proprietà privata? Assolutamente no, eravamo arrivati così come in campo aziendale alla trasformazione del concetto di proprietà da privato a sociale e tanto lo si può comprendere solo se abbandoniamo una volta per tutte la concezione liberale della proprietà in base alla quale sicuramente l’Ehrbof rappresenterebbe l’abolizione della proprietà privata, perché il proprietario non ne può disporre come meglio gli aggrada, ma se consideriamo che la proprietà non è altro che la posizione del singolo nell’ordinamento giuridico ecco che nell’istituzione dell’Ehrbof la proprietà trova tutta la sua conferma in quanto la stessa proprietà viene posta al servizio della comunità e del bene comune.
Ugo Spirito nel 1934 quando compose lo studio relativo al 'Corporativismo Nazionalsocialista' e analizzò la partecipazione del lavoratore alla gestione diretta dell’azienda si rese conto di quanta strada ancora doveva essere fatta in Italia e di quanta arretratezza affliggesse l’Italia. La RSI ridusse le distanze, iniziò quel percorso che l’avrebbe portata, se le circostanze del conflitto bellico lo avessero permesso, ad abbattere per sempre la concezione capitalistica del mercato e del profitto. Con la RSI il popolo italiano riprendeva coscienza di sé e partecipava direttamente alla rifondazione della propria Nazione.
http://www.controstoria.it/documenti/dal-corporativismo-alla-socializzazione.html
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