F. G.
Fantauzzi
Riappropriazione del fascismo
La
caduta dei muri, e la conseguente inefficacia dei patti di Yalta hanno aperto
un'epoca diversa e peggiore, non l'auspicata nuova era che avrebbe dovuto
imprimere alla storia un corso più rapido e dato al mondo un volto più umano.
Anche il risveglio delle nazionalità conculcate nell'Oriente europeo e in Asia e
i recuperati valori etnici che, in un primo tempo, parvero far propria
l'espressione più genuina dei fermenti che precedono le stabili aggregazioni,
cioè gli Stati fondati su basi etnico-spirituali, sulle tradizioni affettive e
autoctone, sulla cultura, l'arte, la religione e le speranze comuni, si va
risolvendo in uno scissionismo caotico e violento. Nella completa latitanza
europea, ancora una volta, le truppe e la diplomazia americane l'hanno fatta da
padrone.
Per quel che attiene all'Italia, la corruzione generalizzata
funzionale alla prima repubblica, non si vuole debellare e la repellente pratica
del complotto e delle manovre di corridoio è assurta a permanente tratto
distintivo della repubblica nata dalla resistenza.
Avanza su tutti i fronti il mondialismo e si afferma l'inganno
antropologico della innaturale marcia del genere umano verso una società
indifferenziata a carattere planetario. Osservando come vestono giovani, come si
comportano nelle scuole, nelle discoteche e nelle metropolitane, non si può non
convenire nel giudizio del De Gobineau: «Non discendiamo dalle scimmie, ma ci
stiamo avvicinando ad esse».
Nient'affatto nuovo, il mondialismo odierno è soltanto una più
perversa accentuazione dell'etica capitalistica originata dal crollo del
socialismo, incentrata sempre, sulla povertà e sull'impoverimento. In sede
internazionale, la povertà endemica dei popoli poveri deve reggere il peso della
maggiore opulenza di quelli ricchi; in sede nazionale, la crescita
dell'impoverimento delle fasce economicamente più deboli è il prezzo da pagare
per consolidare e aumentare la ricchezza di quelle ricche.
Così descriveva il mondialismo del suo tempo Pio XI: «Non vi è solo
concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme,
di una dispotica padronanza dell'economia in mano a pochi e questi sovente
neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui
però dispongono a loro grado e piacimento... sicché nessuno, contro la loro
volontà, potrebbe nemmeno respirare... non meno funesto ed esecrabile,
l'internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui
la patria è dove si sta bene». (1)
Ancorché realisticamente inevitabile, Maastricht non fa davvero
presagire capovolgimenti catartici o decisive svolte storiche tali da arrestare
la corrente materialistica che tutto sommerge e degrada. I suoi sostenitori
ignorano totalmente l'inesauribile patrimonio culturale e spirituale europeo e
non ambiscono affatto a darsi un minimo di unità politica e un apparato militare
in grado di difenderlo. Ciò è perfettamente logico, atteso che da che mondo è
mondo gli uomini hanno strenuamente difeso soltanto ciò che considerano prezioso
e inalienabile. Radicale negazione della concezione spirituale e religiosa
dell'esistenza umana, il programma di Maastricht si limita al meccanico
livellamento economico-finanziario degli Stati membri dell'UE. Certo, l'Europa è
importante. Ma si deve riflettere sul perché ci si deve entrare e sul come
rimanerci. E non mi pare un modo dignitoso l'entrarvi quasi a dispetto dei più e
il restarci come periferia negletta di super-poteri centrali non
controbilanciabili da parte di uno Stato che abbia svenduto le proprie migliori
industrie alle multinazionali extra-europee, che vanti un debito pubblico enorme
e che è sul punto di essere travolto dalla criminalità e da una secessione che
non demorde dai suoi obiettivi disgreganti.
Una coraggiosa antropologa sostiene che: «La ricchezza dell'Europa è,
al contrario, proprio quella di possedere al suo interno, formatesi durante un
lunghissimo processo storico, in base a scambi, conflitti, invasioni,
rivoluzioni, espressioni artistiche diversissime fra loro. Se c'è una prova che
l'omologazione uccide l'intelligenza questa la si può trovare proprio nella
ricchezza creativa della parte occidentale dell'Europa ...». (2)
Non si tratta quindi, come sempre è avvenuto nella storia, di un
nascere, crescere, vivere amare, soffrire, gioire e morire, bensì di un
programmare il proprio suicidio sin dalla vita pre-natale. E un aborto
inevitabile è pur sempre un aborto. Ma non fu K. Marx a sostenere che l'economia
capitalistica era stata capace di meraviglie non inferiori alle piramidi egizie,
agli acquedotti romani e alle cattedrali gotiche?
Per abbattere questo mondo -in cui il 20% degli esseri umani consuma
oltre l'80% delle risorse- nacque il fascismo. Esso dunque ci vedrà in perenne e
radicale contrapposizione. In esso nondimeno vivono e operano persone rette e
capaci che aspirano ad un destino più degno. L'arma per combattere la «nuova
barbarie» non può che essere l'incompiuta Rivoluzione di Mussolini, che fu detta
appunto la «rivoluzione della qualità e dell'intelligenza». Non necessariamente
però, al termine «rivoluzione» devesi connettere l'idea di sconvolgimento
violento e di ricorso alle armi ma può, anzi deve, implicare anzitutto il
concetto di trasformazione ontologica dell'uomo, nel senso esistenziale
dell'essere nel mondo e del perché e in qual modo esserci. Mussolini è il
campione di questa rivoluzione. È necessario perciò estrapolare il fascismo dal
contesto della destra conservatrice in cui è stato subdolamente relegato e
restituirlo al popolo che Mussolini soleva chiamare «proletario e fascista»:
proletario, prima che fascista. E deve essere una vera e propria
riappropriazione di ciò che ci appartiene per diritto di fedeltà. Fra le tante
pubblicazioni sull'argomento, il recente libro di G. L. Manco, "La città
fiorita", va decisamente nella giusta direzione. È auspicabile che in tale
direzione vengano orientate ulteriori e più consistenti iniziative non soltanto
editoriali.
I
programmi del '19, le leggi e le enunciazioni della RSI costituiscono la nostra
più preziosa eredità, la sola certezza di crescita civile del popolo italiano e
rispecchiano altresì la sintesi delle istanze dei lavoratori di tutti i
continenti. La soppressione delle società anonime industriali e finanziarie; la
eliminazione di ogni speculazione, delle banche e delle borse; la confisca delle
rendite improduttive; la proibizione del lavoro al di sotto dei 16 anni; il
bando ai parassiti che non si rendano utili alla società; la confisca dei beni
ecclesiastici per devolverli ad istituzioni di assistenza, la terra ai
contadini, con coltivazione associata; la socializzazione di tutte le attività
produttive e non; la statizzazione delle banche d'interesse nazionale e degli
istituti di credito pubblico, la limitazione del diritto di proprietà; il
commercio privato che tocca le necessità vitali del popolo -alimentazione,
abbigliamento, case dei lavoratori, ecc.- sostituito dalla cooperazione; la
trasformazione del diritto «di» proprietà in diritto «alla»
proprietà della casa, non sono «mal digerita letteratura del passato», ma un
«credo» politico per il quale molti sono caduti e punto di riferimento
imprescindibile. Un fondamentale documento illumina il nostro cammino: «Sono da
avversare tanto gli sbandamenti verso il collettivismo bolscevico quanto i
tentativi plutocratici di sopravvivenza attraverso il compromesso. Il sistema
sociale fascista non rappresenta una via di mezzo tra la conservazione
capitalistica e il comunismo. È un sistema nuovo e a sé stante, il quale non si
ferma al di qua del comunismo, sebbene lo supera così come supera la società
capitalista. Eventuali tendenze al collettivismo bolscevico non costituirebbero
affatto un estremismo dinamico rispetto al programma sociale del fascismo
repubblicano: costituirebbero invece un richiamo reazionario verso forme di
super-capitalismo statale quali quelle bolsceviche, che la nostra rivoluzione
considera altrettanto sorpassate quanto una società che si basi sulla
conservazione borghese». (3)
Eredità la cui essenza dobbiamo disseminare e fare fecondare nella
società post-industriale e post-moderna, per dar vita al procedere contestuale
dell'espansione produttiva e dell'evoluzione, sociale, morale e culturale dei
protagonisti del mondo del lavoro, convinti che ogni libertà che non sia anche
sociale ed economica si traduce nella più turpe delle beffe. Per introdurre, di
contro al titanismo acefalo della produzione diretta al solo profitto di pochi,
una più umana concezione del lavoro che renda sempre più partecipativa e feconda
ogni attività. Per cancellare una volta per sempre lo schiavistico concetto di
«mercato del lavoro», travolgendo tutti gli egoismi e gli edonismi, che
permettono la convivenza di obesità e morti per fame. Per riconciliare l'umanità
alle forze trascendenti dello spirito e l'uomo con l'uomo. Per sovvertire
l'economia classica del mercato e trasformarla in una economia che ponga al
centro e fondamento della propria ragion d'essere la persona umana, onde essa
non sia più contro, ma al servizio dell'uomo e perché non si debba più parlare
di errori e orrori economici. Per avviare a soluzione i problemi fondamentali
del genere umano in quanto riguardano la cultura, i valori autentici, le linee
di pensiero e i nuovi orizzonti di senso, attraverso l'adozione di stili di vita
legionari, austeri, alieni da condizionamenti materialistici. Per restituire
consapevolezza al fine, all'importanza e al senso del lavoro come fattore di
elevazione e di miglioramento qualitativo dell'esistenza, un lavoro che non
distolga dagli affetti, ma li rinsaldi e li santifichi nell'attingimento di un
bene comune, che sia davvero di tutti e di ciascuno.
Ma
dobbiamo munirci delle speciali doti di cui il termine tedesco «Sendung»
è così denso da non essere traducibile nella lingua italiana se non con la
fusione delle parole «missione-vocazione-dedizione». Non dogmi, dunque, ma punti
di movenza donde l'azione politica fascista, in quanto ispirata da spirito
legionario, risolve i problemi come essi si presentano. Di tutte le sciagure che
possano accaderci, il distacco dalle origini sarebbe il più grande. Esse
anzitutto ci dicono che esiste un solo fascismo e che esso non è di destra né di
sinistra. Se però, dall'esame dei programmi, delle intenzionalità e delle azioni
concrete dei fascisti, taluno vorrà arguire che il fascismo è un fenomeno
politico-sociale di sinistra, abbia almeno la perspicacia di collocarlo
all'estrema sinistra, atteso che l'odierna sinistra si palesa come un'eterogenea
accozzaglia di rottami di un male inteso marxismo di marca bolscevica e come
guardia bianca della plutocrazia. E prenda atto che esistono concezioni
politiche originali derivanti da profonde analisi della realtà umana e sociale,
che trascendono la vaga e stantia toponomastica parlamentare ottocentesca,
nonché del fatto incontestabile che finora il social-comunismo è stato il più
valido alleato del capitalismo.
Riappropriazione del Mussolini rivoluzionario
Per gli scopi appena indicati, è opportuno, a mio avviso, anzitutto
prendere le distanze da coloro i quali hanno finto di credere che a Fiuggi si
sia perpretato un tradimento, poiché ivi si è semplicemente concretizzato un
atto di mero opportunismo politico scaturito da un ragionamento semplicissimo
che presso a poco suona così: «fingere di essere fascisti non paga più, quindi,
smettiamola e passiamo ad altre finzioni». Ciò del resto era perfettamente in
linea con le aspettative di un «ambiente» fuorviato il quale, mentre s'imponeva
alle nostre genti smarrite e confuse per l'azione corrosiva dei media e delle
parrocchie una delle peggiori sventure antropologiche della sua storia, per cui
la Nazione sconterà per secoli le conseguenze devastanti del meticciato, non ha
mosso un sol dito. Ciò è potuto avvenire per aver disatteso certezze
scientifiche inoppugnabili. Uno dei più eminenti scienziati contemporanei
sostiene che «Con l'inizio della differenziazione etnica, anche nella psiche
collettiva si assiste allo sviluppo di divergenze essenziali. Per tale motivo
non è possibile trapiantare lo spirito di un'etnia straniera in globo nella
nostra mentalità, senza grave offesa per questa (...) ogni livellamento produce
la diffusione di odio e di rancore nel represso e misconosciuto, e ha per
effetto di impedire una vera comprensione tra gli esseri umani». (4)
Fiuggi, in sostanza, ha prodotto la fine di uno degli equivoci più
equivoci della politica italiana, il missismo. Di tradimento infatti parlano
soltanto coloro i quali intenderebbero perpetuare lo status quo ante per
altri 50 anni. E tuttavia, per ragioni imperscrutabili, una sola Fiuggi non
basta per essere ricevuti a Gerusalemme e per trattare vantaggiosamente con
l'Ulivo dalle radici giudaiche. Viene imposta perciò una ennesima e più solenne
abiura. Questa avrà luogo in una sede-simbolo, Verona, dove fu approvato lo
storico «manifesto programmatico del PFR».
Fisichella promette un programma tanto «liberal» da potersi
considerare come controrivoluzionario per eccellenza e quindi di sicuro
gradimento del «padrone». Parafrasando Leone XIII, si può affermare che destra e
fascismo sono essenzialmente inconciliabili, così che optare per l'una significa
separarsi dall'altro.
All'evento si annette inusitata importanza: il "Corriere della sera"
del 9/12/97 gli dedica una intera pagina. Il quadro che se ne ricava però assume
toni e aspetti deprimenti. Incerte, sulla scena si muovono prima le comparse, De
Corato, La Russa, R. Costa, Serra e Maceratini, il quale non rinuncia a fare una
furbesca dichiarazione: «va bene -dice- bollare l'esperienza di Salò se
contemporaneamente si fa chiarezza (ma senza bollare; N.d.R.) su episodi come le
stragi delle foibe e i massacri compiuti dai partigiani a guerra conclusa».
Tutto sommato, il miserando spettacolo fa pensare a un padrone che impartisce
l'ordine a dei cani sonnacchiosi e recalcitranti i quali, infine, con la coda
fra le gambe, obbediscono. Ciò nonostante la scialba pagina sembra
improvvisamente vivacizzarsi e conseguire qualche esito comico allorché
l'intervistatore-suggeritore, guadagnato il proscenio (inconsciamente
riferendosi ad Israele, sua patria naturale o d'elezione) afferma che il
fascismo e la RSI furono «dittatura, sopraffazione, odio, morte, guerra,
deportazione ...». Costui, come si vede, se la cava assai male in fatto di
storia patria, ma conosce bene i suoi polli. Infatti, per vincere la ritrosia
anistica, chiama a fargli da «spalla» il vecchio Tremaglia il quale, narrate
banali vicende personali, con un guizzo di inimitabile fantasia bergamasca, alla
volpina domanda: «È ancora fascista?», risponde alla Verdone: «In che senso?» E
precipita nel più squallido avanspettacolo. Resosi subito conto che l'intervista
veniva registrata e che l'enorme gaffe sarebbe apparsa sul più diffuso
quotidiano nazionale, per un attimo il pallore della morte gli s'imprime nel
largo volto di pentito impenitente. Cala la tela. Si spengono le luci. Attori,
comparse e pubblico restano avvolti nella nebbiosa mestizia meneghina. Tutto
sommato una pagina da buttare. Invece, dopo qualche giorno ("Corsera" del
15/1/97), si tenta una replica; Violante dichiara che Fini: «... fa un lavoro di
grande importanza per il Paese», come a dire che il Paese val ben una
passeggiata a Gerusalemme e qualche capocciata sul muro del pianto, ma la
faccenda cade nel nulla: il pubblico ha subìto il lavaggio del cervello, donde
ogni suo componente da homo sapiens è stato ridotto a homo demens.
Nulla importandogli che magistrati, poliziotti e funzionari si sbranino a
vicenda; che ministri, presidi, professori e studenti distruggano quel poco che
rimane della sacra istituzione scolastica; che la droga abbia raggiunto i
cancelli degli asili infantili; che i pedofili perseverino nelle loro turpi
malefatte e che il papa porga saluti e benedizioni a tutti tranne a coloro i
quali -come vuole il buon Dio si guadagnano il pane col sudore della fronte;
tale pubblico è a tal segno costernato per le ingiuste accuse rivolte agli
sfortunati Previti e Berlusconi che nessuno si domanda neppure di quale Paese si
tratti.
Invano Altomonte andava ammonendo che: «Se ciò che vuole la
maggioranza è bene, l'ignoranza, la pigrizia e la volgarità creeranno in breve
una comunità di inetti, che esigerà una rapida trasformazione in oligarchia,
come in tutti i regimi apparentemente democratici dell'epoca contemporanea».
(5)
Abiure, delazioni, travisamenti e mascheramenti non nuovi, mediante i
quali l'antifascismo potè costruirsi -come aveva previsto M. Bardeche- un
fascismo a sua immagine e somiglianza: «Nasceranno falsi fascismi. La democrazia
è astuta. Nella sua agonia avrà sudori e incubi, e questi incubi consisteranno
in tirannie brutali e ringhiose, disordinate; ci saranno dei fascismi
dell'antifascismo». Essendosi instaurato con la sua laida creatura un processo
di simbiosi, ora l'antifascismo, congenitamente incapace di produrre il benché
minimo fermento innovatore, non può più fare a meno di essa. E ciò, sebbene non
vi sia violenza più grave alla verità (ampiamente dimostrata da insospettabili
pensatori e storici italiani e stranieri) di presentare ancora il fascismo e i
fascisti come affatto privi di pensiero e di dottrina, eredi di un costume
politico di marca codina e reazionaria, votati alla sola religione della
violenza.
S'impone dunque la necessità di rivificare gli aspetti del Mussolini
demitizzato, senza orpelli, del «figlio del fabbro», dell'uomo che è carne e
sangue del popolo, del socialista rivoluzionario che adotta la camicia nera come
simbolo di umiltà prima che di coraggio, del campione generoso di un'Italia più
giusta e più grande con una missione universale da compiere, dell'ideatore del
movimento più giovane e più significativo del XX secolo, destinato a svolgere
ancora, nel contesto della naturale disuguaglianza degli esseri umani, la sua
funzione plasmatrice di più alte coscienze; del rivoluzionario che attinse luce
interiore ed energia operativa dalle inquietudini, dai fermenti e dalle passioni
di intere generazioni, del Capo di governo che comunica alla Nazione di aver
assicurato il pane al suo popolo con la Bonifica Integrale, del Duce sconfitto
che fonda la prima Repubblica Sociale della storia e che, infine, di contro alle
menzogne partigiane, muore lottando in difesa della sua dignità di uomo.
(6)
È
un compito essenziale.
Nell'opinione pubblica si è gradualmente compiuta la rimozione, nel
senso di deattivazione-inibizione di ricordi e i impulsi suscettibili di
produrre inquietudini e sensi di colpa, del Mussolini rivoluzionario. La lezione
di Mussolini va intesa, invece, come istanza di superamento di tutti gli
egoismi, personali e di gruppo, quale unico mezzo atto rendere possibile
l'avvento dell'«uomo nuovo» nella storia. Tale progetto mussoliniano potrà
attuarsi soltanto se noi (e quelli che verranno dopo di noi) sapremo creare la
convergenza consapevole di spiriti indomiti e incorruttibili nella fondazione di
un vero «Ordine di credenti e di combattenti», il quale sappia assumere come
artico di fede la libertà di tutti, e porsi come obiettivo primario il
bene-essere dell'intera umanità. Poiché la vera libertà, in quanto bene
supremo, nasce soltanto dall'amore per il mondo e per l'uomo, non dalle
pseudo-libertà proprie al materialismo meccanicistico dei «figli del
caos».
È
noto che nel corso del secolo che volge al tramonto, grazie alle tecnologie e ai
media, il genere umano ha subìto mutamenti tanto radicali che non hanno
tralasciato alcun aspetto della sua esistenza. Tuttavia l'umanità non è matura
sotto il profilo socio-culturale ad accoglierli in modo fecondo. Talché essa si
sta docilmente facendo trascinare verso un «mondo di uguali» in cui imperano
individui «più uguali» degli altri che, guarda caso, vivono prevalentemente
negli USA, dove l'1% della popolazione possiede il 61% dei beni ivi esistenti e
dove una popolazione che rappresenta il 6% di quella mondiale, consuma circa il
36% delle risorse disponibili nel Pianeta.
Netta chiusura alla destra conservatrice
L'argomento rende necessario ridestare la memoria storica in chi
tenda a smarrirla e a svilupparla in quanti ne siano privi. Ciò al fine di
individuare e sottoporre a vaglio critico erronei comportamenti del passato che,
anche nel presente, si palesano come esiziali per la prosecuzione di un'azione
politica di per sé non scevra di notevoli difficoltà.
La
chiusura fu provocata dalla destra con l'adesione all'atlantismo e
all'occidentalismo, e con la sua rinuncia ai valori patriottici e culturali che
furono propri alla destra tradizionale italiana. In secondo luogo, perché essa
nega il principio irrinunciabile su cui si fonda lo Stato fascista, cioè
«l'immedesimazione assoluta della vita dello Stato con quella dell'individuo»,
la quale eleva «ogni cittadino al grado di funzionario pubblico», in quanto «tra
l'homo oeconomicus e il civis, solo per un capriccio dialettico è
possibile isolare la qualità di cittadino dal soggetto dell'economia politica».
(7)
Lo
Stato fascista, pertanto, non è uno Stato da adorare o da temere, retto cioè da
una oligarchia arbitraria di tipo bolscevico, che fa tutto e che pensa per
tutti, ma è un organismo vitale di cui tutti i cittadini sono parte integrante
effettiva, e che tutti, ogni giorno, sono chiamati a migliorare e a far
progredire in ragione dell'azione responsabile, intelligente e libera di
ciascuno.
Per queste ragioni, mentre si preparava la «legge Scelba», la
dirigenza missista decise di attuare la campagna di de-fascistizzazione del MSI,
le cui iniziali connotazioni nazional-rivoluzionarie, recando in sé la sintesi
delle istanze risorgimentali, del socialismo nazionale, del sindacalismo
rivoluzionario e della RSI, avrebbero reso inevitabile l'incontro con i
socialisti, nonostante Nenni, con i socialdemocratici, ad onta di Saragat, e con
i repubblicani mazziniani, di contro le strumentalizzazioni massoniche. Il
pericolo di tale evenienza, scongiurato nel '24 con l'assassinio di Matteotti,
si ripresentava più probabile che mai dopo 30 anni. Conseguentemente, vennero
adottati provvedimenti tali da indurre i fascisti nell'errore di abbandonare il
Movimento, sbattendo la porta. Errore grave quanto si vuole, ma non era
concepibile aderire all'assurda opinione secondo cui l'unità d'intenti si debba
ricercare e garantire attraverso tortuosi compromessi. Ciò contraddice la norma
morale basilare dell'etica legionaria racchiusa nella regola aurea romana,
quindi universale, «ubi exstimatio, ibi amor», non può esservi amore
senza la reciproca stima. Donde l'istanza morale, essendo intrinsecamente
connessa all'agire personale, la philìa (amicizia-amore-affinità) e
quindi la sintonia e l'unità d'intenti può virilmente concretizzarsi soltanto
nell'incontro -cosciente e libero- sulle comuni idealità da perseguire e, ogni
diversa condotta, sganciata da quel presupposto non può che rivelarsi instabile,
foriera di disgregazione e priva di effettiva valenza etica.
La
concezione morale cristiana che pre-suppone la compatibilità fra amore alle
persone e la disapprovazione dei loro comportamenti (il condannare cioè il
peccato e non il peccatore), si regge sulla più smaccata ipocrisia. Il cristiano
Scelba e i suoi cristiani successori, infatti, condannano indiscriminatamente
fascismo e fascisti.
Per i legionari della RSI, la nuova azione politica altro non era che
la trasposizione del militare «modo d'essere per la patria» nel civile «modo
d'essere per gli altri». Non si concepiva, pertanto, solidarizzare e affrontare
rischi e sacrifici accanto ad individui che s'erano trasformati in politicanti
ciechi e sordi ai richiami degli ideali e rinchiusi in una visione tanto
meschina dell'esistenza da ridursi all'istigazione continua alla divisione degli
animi e al reciproco inganno nella sub-umana contesa per le candidature, per
l'affannosa ricerca dei voti, ecc.
Ne
rimasero padroni i faciloni, i tentennanti, gli sprovveduti e gli opportunisti.
Disconoscendo l'intimo legame fra pensiero e azione, gli insegnamenti della
Dottrina erano percepiti come un qualcosa dai contorni concettuali sfumati,
indecisi e avulsi da chiare giustificazioni razionali. Come gli ex-cristiani,
mortificando la figura stessa del Cristo e rinnegandone il Vangelo, erano
diventati demo-cristiani, parimenti gli ex-fascisti, rinnegando la loro
Dottrina, da rivoluzionari divennero uomini d'ordine, sostenitori della
Confindustria, delle forze di polizia, del Vaticano e della Nato. Sono del
parere che certe verità debbano essere palesate interamente, poiché se non le
diciamo noi, i più anziani, come potremmo comunicarle ai più giovani e questi a
quelli che verranno? Chi è il fascista, un eterno dissimulatore o l'uomo del
coraggio e della libera e responsabile capacità di chiamare le cose con il loro
vero nome? Ritengo non sia fuori luogo perciò attirare l'attenzione non tanto
sugli episodi di una sciagurata stagione di transigenza e di collusione con
forze estranee e nemiche, quanto sulla connessione esistente fra la riassunzione
della primigenia identità culturale e politica e la presa di coscienza storica
della infelice temperie etico-morale in cui tale identità fu smarrita.
L'accennato reinserimento, in effetti, consisté in un'operazione verticistica di
cui i caporioni del MSI fruivano di tutti i vantaggi, mentre la base, veniva
confinata nella condizione di «minore età». Condizione poi istituzionalizzata
con la creazione del c.d. «arco costituzionale». Ma non c'è peggior cieco di chi
non vuol vedere. Ben presto anche la base -sempre più eterogenea e disancorata
dallo stile di vita fascista- vedeva, sapeva e si conformava alla condotta del
vertice.
È
vero, sono le èlites a guidare i processi di plasmazione delle idee e
degli orientamenti politici, ma è anche vero che, ove le idealità da esse
elaborate non corrispondano alle aspettative esistenziali e psicologiche della
base, tali processi abortiscono. Quando poi un intero contesto umano privilegia
ciò che conviene rispetto a ciò che è giusto e assume la finzione
a permanente modello di vita, non può che crollare alle prime difficoltà.
Infatti vediamo ora la base missistica completamente disorientata e in balia di
tutti i venti.
Dopo la breve parentesi tattico-mimetica dell'Uomo Qualunque, ogni
finzione sarebbe dovuta cessare. Non fu così.
L'aspetto più grave del reinserimento -evidentemente diretto ad
accattivarsi i favori degli elementi più moderati dell'antifascismo, monarchici,
cattolici e liberali- risiede fondamentalmente nel non aver continuato a
contrastare i fraudolenti criteri interpretativi delle vicende italiane del
1943-45. Di fronte alla storiografia prezzolata e manichea della resistenza, era
indispensabile far valere le ragioni di quanti, avendo individuato con assoluto
rigore etico chi era il vero nemico-invasore, non esitarono a combatterlo. Tale
individuazione assumeva perciò il ruolo di fondamento di una verità sulla quale
s'incardinava la responsabilità dinanzi alla storia. Tali ragioni vennero
disattese.
Con riferimento al patto d'acciaio (Italia-Germania, maggio '39) e
quello tripartito (Italia-Germania-Giappone, settembre '40), la locuzione
«tedesco invasore» risulta essere un'invenzione priva di fondamento storico,
giuridico e morale. Tedeschi e Giapponesi erano incontestabilmente nostri
alleati. Né l'unilaterale quanto ignobile rovesciamento del fronte operato dai
Savoia, poteva intaccare la validità di quei patti da essi stessi ratificati. I
Combattenti della RSI, infatti, non possono essere assimilati ai
collaborazionisti degli altri Paesi, né mai si sentirono tali. Viceversa, i
partigiani italiani, visti nel contesto delle varie resistenze europee, sono da
ritenere anomali, perché si opposero ad un nemico anch'esso anomalo, in quanto
formalmente alleato. I sostenitori della RSI non possono del resto affermare,
come fece P. D. La Rochelle: «Ho avuto intelligenza col nemico e mi duole che
esso non fosse intelligente», per il semplice fatto che seguitarono a combattere
accanto ai loro alleati contro il comune nemico. Si trattava, al fine di
ripristinare la concordia degli italiani, di contribuire a scrivere la storia di
quel periodo, senza alimentare false mitologie e di restituire alle loro
effettive dimensioni fatti e personaggi. Ciò detto, fra combattenti della RSI e
partigiani non c'è, né può esservi, alcuna «memoria comune», tranne il fatto che
combatterono e rischiarono sulle opposte sponde del grande fiume dell'attendismo
della assoluta maggioranza dei loro concittadini.
Ad
ogni modo, il fascismo divenne sinonimo di anticomunismo e di «destra al
servizio della nazione». Nazione che ha raggiunto il punto più alto di
smarrimento e di crisi d'identità a seguito della celebrazione sotto l'arco di
Tito del 50° anniversario dello Stato israeliano e della supina accettazione,
come un diritto, della multirazzialità. Si disse -e a molti sembrò una cosa
seria- «muoia la fazione purché viva la nazione». La fazione destinata a perire,
ovviamente, era il fascismo e la nazione da salvare consisteva nei convergenti
interessi del CLN, della massoneria e del Vaticano. Nessun sereno o obiettivo
apprezzamento di quel periodo è possibile, a mio parere, senza rapportarsi a
questo quadro di riferimento storico e psicologico. Donde l'urgenza di difendere
con grande determinazione la nostra fazione, in quanto è la sola garanzia di
sopravvivenza della nazione italiana.
Fu
abolito il saluto romano e ogni altro richiamo al passato. L'interazione fra
segno e idea tuttavia riemergeva sporadicamente nel momento in cui era
necessario qualificarsi nell'imminenza degli scontri durante le manifestazioni
di piazza. Nessuno meglio delle logge e dell'Oltretevere conosce il valore
simbolico del gesto-saluto codificato, in quanto equivalente ad un esporsi, un
riconoscersi, un donarsi: un se gerere che, istituzionalizzato in una
comunità, esprime, realizza e attesta l'identità culturale e la fede politica di
tutti e di ciascuno. Nel suo pratico manifestarsi (si pensi a quanti con il
saluto romano hanno confermato la loro appartenenza dinanzi alla morte), esso si
rivela altresì come attualizzazione della tradizione e della comune
Weltanschauung. Più che in ogni altro saluto, la struttura di segno
significante nel saluto romano, mette a nudo il suo solare contenuto spirituale
di per sé aborrente l'ambiguità di chi compie soltanto opzioni che non possano
coinvolgerlo in precise appartenenze. Ciò vale anche per le scelte
(nell'accezione di cernita tra quel che si vuole serbare da quel che si vuole
scartare) di insegne intenzionalmente surrettizie fatte proprie dai gruppuscoli
sorti ai margini del MSI: asce, rune, croci uncinate, ecc., tutte unite
nell'unico disegno vòlto a negare l'ideale innesto del fascismo alla romanità.
La loro comprovata sterilità, se ben si guarda, è il riflesso di tradizioni
culturali e ideologiche divergenti rispetto all'archetipo cui pretendono
riferirsi e rivelano in chi ne fa uso l'attitudine a collocazioni politiche
relativistiche e ambigue.
Mondo davvero singolare quello missista: i capi professavano idee e
approntavano programmi nei quali non credevano affatto, consapevoli però che i
loro seguaci, pur di sottrarsi a più impegnative responsabilità, avrebbero
mostrato di crederci ciecamente.
Più che di adeguamenti organizzativi, quindi, si trattò di complesse
manovre dirette a perseguire arbitrarie commistioni con monarchici e cattolici,
le quali sfociarono in un partito conservatore aggregato agli ambienti più
retrivi e sclerotizzati della società italiana: «il partito delle contesse».
Quei pochi gruppi, che a fatica conservavano senso critico e un buon livello di
«capacità offensiva», vennero sistematicamente impiegati in funzione
anticomunista; ma, se oltrepassavano certi limiti, non si esitava a richiedere
l'opera della polizia politica. Intere generazioni di giovani coraggiosi e
intelligenti vennero sacrificati sull'altare di meschini patteggiamenti di
vertice.
E
non si celiava. A seguito del foglio d'ordini n° 1 del 20/5/59, che rendeva noti
i nominativi dei nuovi componenti la DN della FNCRSI, fra i quali era compreso
quello del deputato del MSI, A. Cruciani, con lettera raccomandata, Michelini
invitò il Cruciani a scegliere entro 48 ore, tra il MSI e il nuovo
incarico.
Come il PCI, per volere di Mosca, non doveva realizzare il c.d.
«sorpasso», il MSI, per volere della Nato, non doveva superare una certa
percentuale di suffragi. Conseguentemente, si registrarono non pochi episodi
paradossali: in alcuni centri il numero dei suffragi elettorali conseguiti dal
MSI risultò essere inferiore a quello degli iscritti (ciò, per ben altre
ragioni, era avvenuto nel '48 in alcuni comuni del confine orientale); in altri,
invece, non pochi «federali» -dietro contropartite di sottogoverno- addirittura
non presentarono le liste a tutto vantaggio della DC.
Forse che i parroci e la DC non erano anticomunisti?
Ai
giovani che domandano come e perché un ambiente umano di prim'ordine sia potuto
cadere tanto in basso, non si può che rispondere con il motto di Mussolini: «Chi
non è pronto a morire per le proprie idee non è degno di professarle». Non si
sfugge: gli italiani in genere e i fascisti in specie, non sono stati degni del
fascismo. In ciò risiede la più grande loro sconfitta.
Restarono nel MSI anche persone apprezzabili, capaci di pensiero
autonomo e di coerenza politica (basti pensare a B. Niccolai), ma in numero
limitatissimo e sempre tenute ai margini. Purtroppo, le iniziative intraprese
all'interno e all'esterno del MSI, dirette ad arginarne il degrado e a dar luogo
ad una inversione di tendenza, sono tutte fallite. Il libro di U. Cesarini "Dai
FAR al doppio petto" descrive efficacemente il periodo di auto-involuzione del
c.d. ambiente. Sagge ed energiche iniziative vennero nondimeno esperite tra la
fine degli anni '50 e i primi anni '60.
Il
14/6/59, assumendo la presidenza della FNCRSI, G. Pini scrisse al riguardo:
«Lasciamo ad altri questa pratica rinnegatrice: lasciamo ad altri lo
sfruttamento a scopo elettorale dell'ingenuo sentimentalismo degli sprovveduti,
incapaci di distinguere la vera distanza delle azioni dalle sue mascherature
esteriori nostalgiche e retoriche. Con tale sistema i professionisti della
politica -molti dei quali non aderirono alla RSI- hanno già trasferito armi,
bagagli e inconsci seguaci sulla sponda opposta a quella di partenza, e là si
dedicano alle più disinvolte combinazioni ...».
A
testimonianza di un'antica e sempre attuale consanguineità e unità d'intenti,
trascrivo parte della seguente mozione: «Il Consiglio Nazionale del Socialismo
Nazionale, riunito a Genova il 31/5/59, rilevato che la FNCRSI nel suo congresso
di Firenze in data 26/4 c.a. è riuscita ad emanciparsi dall'influenza di un
movimento politico resosi sempre più estraneo alle sue ragioni ideali e alle sue
finalità, affidandosi invece alla guida di uomini di indiscussa coerenza
politica.
I
e II (omissis)
III Afferma che fine supremo della sua azione politica nel
prossimo futuro rimane la riunione di tutte le forze che durante l'ultimo
conflitto hanno conosciuto e servito una sola bandiera; esprimono la certezza
che tale riunione potrà essere perseguita e raggiunta soltanto nell'ambito e
sotto l'egida della FNCRSI».
Dunque, non soltanto nella sana teologia vige il principio che
l'Errore non ha diritto di essere professato o tollerato. La manovra di
reinserimento, come è noto, è sfociata nella squalificante partecipazione ad un
governo che allineava la cordata più becera e arrivistica della politica
italiana.
Conclusione
Il
profilo dell'iter diretto al reinserimento, fin qui delineato per sommi capi,
oltre a svolgere una funzione informativa, pone nel dovuto rilievo la nota
dominante della sciagurata vicenda neofascista: la rottura del rapporto fra
l'intenzionalità e la pratica rivoluzionaria del fascismo e la politica
sostanzialmente conservatrice e antifascista della destra missista. Tale
rottura, ancorché vista sine ira et studio, rappresenta il dramma intimo
dei camerati più sensibili e coerenti.
Ad
ogni modo, bisogna tener presente che sono ricomparsi biechi personaggi e hanno
ripreso (se mai l'abbiano lasciata) l'antica loro funzione di «lazzari» del
padrone.
Allo stesso tempo mentre, con aggiustamenti di mera forma, la
politica italiana s'illude di rinnovarsi, assume connotati sempre più precisi e
concreti il disegno della rifondazione della DC, quale grazioso dono per il
giubileo adveniens. È il sistema antifascista italiano che s'inabissa
lentamente in quel mare di menzogne e di frodi da esso stesso alimentato per
oltre mezzo secolo.
È
bene tenersi lontani da questo sfacelo. Il nostro compito sta nel riproporre al
mondo -con serenità e convinzione- la «guerra del sangue contro l'oro». E non si
pensi ai soliti fascisti guerrafondai, ché le opere del regime furono opere di
pace. Quella che fu chiamata «guerra del sangue contro l'oro» non è una guerra
di carri armati, di navi e di aeroplani; essa è bensì un virile richiamo alla
dignità dell'uomo in ordine ad un'esistenza più umana e più giusta, e un
promuovere l'opposizione e lo scardinamento del sistema mondialista,
intollerabilmente oppressivo da parte dei forti sui deboli. Essa è, dunque, una
contro-guerra che, come una benefica luce, deve essere irradiata sin negli
interstizi delle drammatiche tensioni in cui è costretta a vivere gran parte
dell'umanità. È un compito straordinariamente impegnativo, ma irrinunciabile, in
quanto è strettamente concatenato alle intenzionalità originarie del movimento
socialista prima e di quello fascista poi.
È
vero: siamo pochi e poveri, ma, come la storia e l'esperienza insegnano, in
tutti gli inizi di faccende serie e importanti, i primi non furono mai né ricchi
né tanti.
Alcuni dati significativi:
*
circa il 50% della popolazione mondiale è sottoalimentata; il 20% degli esseri
umani consuma oltre l'80% dei prodotti; gli arsenali militari dispongono di una
potenza distruttiva di circa 6.000 volte superiore a quella impiegata nel corso
della IIª guerra mondiale; in Egitto il 18% di proprietari terrieri possiede
oltre il 70% dei suoli coltivabili; in Bangladesh i piccoli agricoltori
costituiscono il 70% delle imprese agricole, ma possiedono meno del 29% della
terra; in alcuni Paesi dell'America Latina la situazione è persino peggiore.
Mentre in Danimarca il reddito annuo pro capite è di 20.000$, in Mozambico esso
scende a 80$ e in più di 100 Paesi è inferiore a 500$.
Non v'è dubbio che l'esplosione demografica sarà la grande
protagonista del XXI secolo. Stime attendibili assicurano che nel 2.050 la
popolazione mondiale raddoppierà e che il popolo italiano, persistendo
nell'attuale tendenza alla ricerca del denaro ad ogni costo, del successo e dei
piaceri effimeri, è destinato a scomparire.
L'esodo disperato del Curdi è soltanto la punta dell'iceberg
che si abbatterà sulle fatiscenti strutture del mondo capitalista e che produrrà
sconvolgimenti inimmaginabili. Se, nel breve periodo, l'Europa non troverà le
idee e la forza per ricollocarsi a centro e guida della radicale trasformazione
appena iniziata, ne verrà inesorabilmente travolta. Il declino dell'Impero
romano, infatti, ebbe inizio quando non era più né impero né romano. Come
stabilisce la Dottrina: «L'impero non è soltanto un'espressione territoriale o
militare o mercantile, ma spirituale e morale».
In
tale contesto la «guerra del sangue contro l'oro», può sviluppare le sue
potenzialità liberatrici e concorrere efficacemente nel capovolgere tutti i
sistemi di potere in atto. Ad essa si schiudono grandi orizzonti: la possibilità
di essere condivisa e convissuta da miliardi di uomini oppressi e affamati i
quali, attraverso l'imparziale ripartizione dei beni esistenti e futuri e la
socializzazione di ogni attività produttiva, potranno realizzare -nel proprio
territorio e in sintonia con la proprie tradizioni e inclinazioni- l'inappagata
esigenza di giustizia e di benessere che li assilla. Solo allora i termini di
indipendenza, di autogoverno e di libertà non saranno più privi di
significato.
F. G. Fantauzzi
Note:
1)
Lett. Enc. "Quadragesimo anno", 15/5/31;
2)
I. Magli, "Contro l'Europa", Ed. Bompiani, Milano '97, pag. 40;
3)
da "Dottrina e documenti", edito dal Gruppo romano della FNCRSI, Terni,
'68;
4)
cf. B. Hannah, "Vita e opere di C. G. Jung", Ed. Rusconi, Milano '80, pp.
316-317;
5)
P. F. Altomonte, "Lo Stato di popolo", Ed. R. Giuliana, Roma '76, pag.
55;
6)
In ordine alla morte del Duce esiste una ricostruzione suffragata da rilievi
scientifici e circostanziali inoppugnabili, tali da renderla attendibile e
idonea a dimostrare la falsità delle precedenti versioni spurie.
7)
U. Spirito, "Il corporativismo", Ed. Sansoni '70, pp. 258-261.
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