Autore: Carmine Cimmino
1870, ma sembra oggi. Anche allora si rastrellavano denari in cambio di interessi più alti della media. In prima fila i soldi degli speculatori del Vesuviano e dell’area Nolana.
Di Carmine Cimmino
Cavour il Sud forse non lo voleva. Ma quando Garibaldi glielo regalò, e Crispi gli comunicò a quanto ammontavano i depositi in argento e d’oro della Sicilia e di Napoli, il Conte fu pervaso tutto dall’ebbrezza paralizzante che oggi attanaglierebbe chi sbancasse il Superenalotto per dieci estrazioni di fila. I forzieri del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, le casse, le case, i muri delle case, i cessi delle case, e perfino i giardini delle case dei “galantuomini“ siciliani e napoletani traboccavano di monete d’oro e d’argento.
Un tesoro
smisurato, che avrebbe potuto cambiare per sempre i destini del Sud, dell’Italia
e della dinastia, se gli ultimi tre Borbone avessero disseminato il regno di
sportelli bancari e avessero promosso investimenti strutturali per la
costruzione di strade, di porti, di ferrovie e di scuole. Se fossero stati,
insomma, una dinastia liberale. Ma non lo furono. E Alì Babà e i suoi ladroni
portarono al Nord quel tesoro, e pagarono i debiti che il Piemonte aveva
contratto per la guerra del ’59: e vi fu chi in Parlamento disse che era giusto
così, che il Sud era obbligato a offrire generosamente il suo oro ai signori
liberatori. Per ringraziarli del dono della libertà.
Poi arrivò il
Bastogi, banchiere livornese, e perfezionò il dissanguamento, drenando, a
vantaggio del Nord, quello che restava della liquidità finanziaria di Napoli e
di Palermo. I politici meridionali, quasi tutti, non aprirono bocca, nemmeno
quando venne decretata l’unificazione monetaria nel segno della lira piemontese,
e si stabilì che un ducato napoletano equivaleva a lire 4, 22. Tacquero quei
tali, e fu un silenzio funesto, anche nel 1866, quando venne imposto il corso
forzoso della moneta, per cui, di fatto, la lira non era convertibile in metallo
prezioso. I “galantuomini“ napoletani che disponevano ancora di liquidità si
spaventarono.
E sul loro spavento
e sulla nascente mania dei “giochi“ finanziari costruì la propria fortuna
Guglielmo Ruffo, principe di Scilla, fondatore della prima banca-usura e
promotore di un fenomeno che in un anno mandò a culo per terra – mi si passi la
volgarità – migliaia di risparmiatori, l’economia di una città già disastrata, e
le illusioni di chi progettava di costruire anche a Napoli una cultura
finanziaria moderna. Nell’autunno del ‘69 il principe incominciò a rastrellare
capitali, che nel gennaio del ’70 ammontavano, secondo il prefetto di Napoli, a
19 milioni di lire: un fiume di danaro, che il Ruffo convogliò nelle sue casse
promettendo “di restituire, dopo il corso di 20 giorni, in oro, il medesimo
valore che era stato dato in biglietti di banca, senza porre a calcolo l’aggio
che allora ascese fino al 18% “.
Per mesi il
banchiere mantenne la promessa, pagando puntualmente gli interessi con i
capitali “freschi“ che gli venivano affidati: il meccanismo è noto, gli “squali“
americani ed europei dei giorni nostri non hanno inventato niente di nuovo.
Quella follia finanziaria fu di tali proporzioni che nel 1870 funzionavano a
Napoli non meno di 60 banche-usura e il primato della Ruffo veniva
attaccato dalla banca Costa, che aveva conquistato la fiducia e i soldi degli
speculatori del Vesuviano e del Nolano. Ma sul finire del 1870 la bolla esplose.
I giornali controllati dal Governo e dai banchieri, diciamo così, patentati
incominciarono a diffondere chiacchiere, dubbi e sospetti, gli investitori,
impauriti, chiesero la restituzione dei capitali, Ruffo non riuscì a
fronteggiare l’emorragia, anche perché il mercato dell’olio e del grano, su cui
egli aveva investito, entrò in travaglio proprio quando partì l’attacco della
stampa.
Non a caso. Fu il
panico. I succhi amari della catastrofe i napoletani li condensarono
nell’espressione “ ‘a banca ‘ o sciulio “, in cui “ sciulio “ forse deforma
Scilla, nome del feudo dei Ruffo e di un mitico voracissimo mostro, e forse
richiama, sarcasticamente, il verbo sciuliare, scivolare. ‘A banca
‘o sciulio è il luogo in cui si puniscono gli stupidi che, spinti
dall’avidità, fanno società con volpini truffatori.
Tra le vittime
della banca Costa – con un danno di 2500 lire, 600 ducati – ci fu anche Agostino
Sergio, napoletano trapiantato da tempo in Sant’ Anastasia, dove possedeva
palazzi e “fondi“. Nel 1858 egli aveva chiesto il permesso di istituire una
cappella con altare per la messa nella sua villa e il vicario foraneo don
Raffaele Notaro gli aveva riconosciuto “condizione molto civile, vistosa
possidenza, bontà di costumi, e religiosità sua, e dell’ intera famiglia.“. “Un
galantuomo“, insomma, che meritava di ornare la sua masseria con una cappella
consacrata. La “vistosa possidenza“ del Sergio derivava dall’intreccio di molti
traffici: in particolare, egli trattava legname “cerquale“ e aveva investito una
parte cospicua dei suoi ducati in un’ impresa che provvedeva alla “manutenzione“
delle strade.
Nel 1883 un Antonio
Sergio condivide con i Riccardi di Cercola l’appalto per l’ ampliamento delle
strade Nola – Marigliano e Nola – San Felice a Cancello, e per la sistemazione
degli alvei di quel distretto. Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1861 la
“casina“ di Agostino Sergio, “sita in Sant'Anastasia, al luogo detto
Capodivilla”, viene saccheggiata, probabilmente dalla banda di Vincenzo Barone.
Gli oggetti rubati, che il Regio Giudice di Sant'Anastasia R. De Filippo elenca
nel suo accurato “notamento“, delineano l'immagine di un corredo ricco ed
elegante:
materassi e cuscini
di lana di Tunisi; 6 cuscini “vecchi di lana del regno, una coverta di vagramma
oscura imbottita di bambagia; lenzuole di tela di lino; un mensale per 20
persone, di un pezzo, di doga fiorata con venti salvietti simili della fabbrica
di Sarno, stimato per un valore di duc.18“ ; “un altro mensale per dodici, di un
pezzo, di damasco forestiere a bouquets, con 13 salvietti simili, che costa
duc.20; "dodici tovaglie di filo, tessuto nostrale, con le lettere A.S. alcune,
e altre con P.A. iniziali “(duc.3,60); quattro camicie da uomo, due di tela e
due di mussolina (duc.1,20). I ladri portano via anche 7 lumi di ottone,"uno
antico a due braccia, cinque più moderni coi cappelletti, ed un altro per cucina
a due becchi ", tutto per il valore di 8 ducati, mentre 20 ducati vengono
stimati "sei dozzine di piatti di cretaglia inglese di prima qualità a disegno
cinese, fondo bianco con rosoni rossi e giro graticolato nero della fabbrica di
New Stone, col numero di fabbrica 3122, e cioè 24 da zuppa, 18 da salvietti, 18
per frutta,12 per dessert".
Grana 80 vale un
mortaio di bronzo con "pistello", 10 ducati 8 tazze "di porcellana dorate e
miniate con figure di animali diversi", 90 grane i tre ferri "da stirare",
mentre per le 5 casseruole, i 4 "ruoti", le 2 "pesciere", la "cocoma" e la
caffettiera viene definita una stima approssimativa, poiché se ne ignora il
peso. Meriterebbe un libro la poesia di questi oggetti, anche perché i loro
proprietari costruirono, con ville, strade e palazzi, l’aspetto del paesaggio in
cui ci specchiamo ogni momento.
(Quadro di J.A.D. Ingres, del 1832: "Louis François Bertin")
(Quadro di J.A.D. Ingres, del 1832: "Louis François Bertin")
Autore: Carmine Cimmino
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