Pace tra Stalin e Hitler? Perché no? Questa fu l’idea fissa di Mussolini fin dal 1941 come rivela un nuovo studio che ci mostra anche come imprevedibili cambiamenti di fronte furono tentati durante tutta la Seconda guerra mondiale
di Fabio Andriola
Solo la Storia vera sa essere così complicata e affascinante. E la storia della diplomazia segreta durante la Seconda guerra mondiale è un caso esemplare di complicazioni e fascino: un mondo parallelo fatto di segnali trasversali, trattative segrete, voltafaccia progettati o solo minacciati, alleanze ballerine. Un duro esercizio di “real politik” che vide ugualmente impegnati dittatori e presidenti democratici, nazioni grandi e piccole, belligeranti e neutrali. Tutti pronti a seguire senza scrupoli (e in contemporanea) più piani, per scegliere al momento migliore quello più promettente. In barba a ideologie e ad alleanze…
«Io non intendo rivelare al Gran Consiglio - forse l’avrei fatto se la discussione avesse preso corso diverso - gli importanti segreti di carattere militare, che al Führer e a me non fanno dubitare un solo momento della vittoria. E’ prossimo il giorno nel quale i nostri nemici saranno inesorabilmente schiacciati. Io ho in mano la chiave per risolvere la guerra. Ma non vi dirò quale». Parole enigmatiche, quelle pronunciate da Mussolini, davanti al Gran Consiglio, la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. Parole attendibili perché riferite dal principale avversario del Duce in quella drammatica riunione: Dino Grandi, l’uomo che aveva presentato l’Ordine del Giorno intorno al quale si coagulò l’ormai vasto fronte dei dissidenti all’interno del Partito Nazionale Fascista. Ma, come sempre accade, quelle parole per avere un senso veramente attendibile, vanno inquadrate nel contesto storico. Un contesto storico che, in effetti, offre numerosi “ganci” a chi abbia voglia e capacità di mettere insieme i tasselli di un immenso puzzle, destinato forse a non essere mai completo ma che già oggi, comunque, è in grado di rivelare non la verità ma “una verità”. E cioè che forse mai come nella primavera-estate del 1943 la Storia fu così vicina ad un cortocircuito clamoroso, forse non nuovo nello scorrere dei secoli, ma comunque straordinario per il contesto in cui stava maturando: la guerra più sanguinosa e distruttiva mai conosciuta, la Seconda guerra mondiale, lo scontro mortale tra ideologie e visioni del mondo irriducibili. Che però, praticamente per tutto il corso della guerra, vide combattersi governi che d’altro canto non smisero mai di cercarsi, di incontrarsi, di trattare, di litigare, di guardarsi l’un l’altro un po’ offesi per poi riprendere come prima a parlare, sondare, offrire e rifiutare terre, risorse, alleanze, cambi di campo e neutralità più o meno sincere.
La Storia non è fatta solo da quello che è accaduto ma anche da quello che stava per accadere. Perché anche quello che non è avvenuto può aver condizionati gli eventi, le analisi dei leader, le azioni dei generali, l’uso o il non uso di armi rivoluzionarie, la rivelazione anche solo parziale di orrendi crimini… In altri termini, anche i fallimenti spiegano l’evolversi degli avvenimenti; una lunga trattativa abortita può spiegare molto, raccontare i veri interessi in gioco e le effettive strategie messe in campo. Su questa linea si muovono le prossime pagine di questo numero di «Storia in Rete». Si tratta di una lunga anticipazione di un ancor più lungo e denso saggio firmato da due studiosi che hanno già fatto capolino sul nostro giornale. Eugenio Di Rienzo, il maestro, docente di storia moderna all’università della Sapienza di Roma; ed Emilio Gin, l’allievo brillante, che sta iniziando la propria carriera universitaria presso l’ateneo di Salerno. E proprio Di Rienzo e Gin - oltre a «Storia in Rete» - sono stati i protagonisti di una piccola polemica giornalistica che racconta molto più di quanto sembri e che ci ha spinto a dare ampio risalto al tema principale di questo numero.
Come i nostri lettori più assidui ricorderanno, lo scorso aprile «Storia in Rete» - sull’onda della crisi libica che ha messo a dura prova i buoni rapporti tra Roma e Parigi - ha dedicato copertina e un ampio dossier alle controverse relazioni Italia-Francia nel corso dei secoli: dalla fine del Quattrocento fino al Caso Battisti e Ustica. In particolare, un articolo - a firma Emilio Gin - ricostruiva i rapporti Italia-Francia alla vigilia dell’ingresso italiano nella Seconda guerra mondiale. Tradizionalmente si parla di “pugnalata alle spalle” del governo fascista ai danni della Francia già messa alle corde dalla guerra-lampo nazista: la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 a Francia e Gran Bretagna viene in genere ascritta dalla “vulgata” storica e dall’agguerrito fronte dello “storicamente corretto” ad una delle più gravi, improvvide e infami decisioni prese da Mussolini. Ora, accade che Gin, sulla base di una montagna di documenti tratti da archivi italiani e stranieri, abbia formulato un’interpretazione un po’ più articolata e diversa. L’ha riassunta così - il 20 giugno scorso - un articolo di Di Rienzo che «Il Giornale» diretto da Sallusti ha tenuto nel cassetto per circa due mesi: «Che le cose non siano andate così e che il “tradimento” italiano, nel giugno 1940, debba essere considerato una vera e propria leggenda storiografica lo dimostra il saggio di Emilio Gin. Dopo l’accordo di Monaco del 1938, i rapporti tra Roma e Parigi divennero per Mussolini il banco di prova su cui saggiare le possibilità d’intesa con l’Inghilterra e l’occasione per rafforzare la sua capacità di manovra nei confronti del Reich. Il crescente espansionismo tedesco orientò però la Francia ad arroccarsi in una miope difesa dei suoi interessi strategici. Questa posizione di chiusura rese impossibile la distensione con l’Italia fascista nonostante le pressioni del premier inglese Chamberlain su Parigi per convincerla ad assecondare le richieste di Palazzo Venezia che non puntavano alla riconquista di Nizza, Savoia, Corsica e all’annessione della Tunisia ma soltanto a ottenere un riequilibrio dei rapporti di forza nel Mediterraneo. In questo modo, l’ostinata intransigenza francese vanificò l’azione diplomatica italiana, rendendo inefficaci le manovre di Mussolini per agire in senso moderatore nei confronti di Hitler. Persino dopo la fine della non belligeranza, il tentativo del Duce di continuare a giocare un ruolo di mediazione si rifletteva nelle regole d’ingaggio stabilite dagli Stati maggiori italiani. Gli ordini che vietavano alla Regia Aeronautica di violare lo spazio aereo dell’Esagono, anche al solo scopo di ricognizione, e quello impartito alla Marina di impegnare il combattimento con le forze navali francesi, unicamente in caso di attacco avversario, appaiono comprensibili solo tenendo presente la volontà di condurre una “guerra simulata” al fine di giungere rapidamente a una soluzione negoziale. D’altro canto la stessa preparazione diplomatica dell’intervento avvenne secondo modalità del tutto inusuali. Come risulta dai documenti diplomatici francesi, Ciano, già alla fine di maggio, anticipò agli ambasciatori alleati e persino a quello statunitense che la decisione di Mussolini di scendere in campo era ormai irrevocabile, con una settimana di anticipo, quindi, rispetto all’apertura delle ostilità».
E’ ovvio che quello che Gin ha condensato per il nostro giornale in poche cartelle è sostenuto da numerosi documenti e riscontri che probabilmente troveranno posto in un volume in preparazione, di cui farà parte anche il saggio che anticipiamo nelle prossime pagine: un libro a firma Di Rienzo e Gin e che si intitolerà Nel labirinto delle alleanze. Uno studio destinato a far discutere anche perché dall’altra parte si troverà - moltiplicata per mille - la stessa reazione che sul «Giornale» l’articolo di Gin ha scatenato. Complice un lettore straordinariamente attento e sorpreso che ha subito inviato una mail per chiedere lumi di fronte ad una tesi che gli sembrava «molto assolutoria, forse troppo», il decano del quotidiano fondato da Indro Montanelli, Mario Cervi, a sua volta “divulgatore” reo confesso e orgoglioso, ha dato fuoco al proprio scetticismo: «Sono in totale disaccordo con questa impostazione: che rovescia i ruoli, attribuendo alla Francia una testarda volontà guerrafondaia, e al Duce generosi ma frustrati sforzi per placare l’avidità di prede della tigre tedesca. Forse per una mia vecchia tendenza a semplificare, vedo quegli avvenimenti in una prospettiva molto diversa. La bellicosità mussoliniana crebbe non in funzione di ipotetici rifiuti o tergiversazioni della Francia, ma in funzione delle vittorie tedesche. I presunti tentativi di mediazione del Duce - che sono inesistenti nel documento più autentico di quel periodo, il Diario di Ciano - rimangono in ogni caso un accessorio. Colui che aveva preteso il ruolo di comandante supremo delle Forze Armate - in spregio al Re Imperatore - e che si proclamava discendente di Giulio Cesare, fu preso da un sempre più forte desiderio di emulazione, o piuttosto d’imitazione, a mano a mano che la Wehrmacht dispiegava la sua potenza».
Insomma, per Cervi valgono più le elucubrazione psicologiche o psicanalitiche (rinforzate soltanto dal Diario di Galeazzo Ciano o dalle memorie dell’ex ambasciatore francese a Roma, François-Poncet) della documentazione diplomatica dell’epoca. Ma anche senza quella documentazione basterebbe ricordare che già il 20 maggio 1940 (venti giorni prima della dichiarazione di guerra) la nostra ambasciata a Parigi aveva preso contatto col ministero degli Esteri francese per concordare tempi e modi del rimpatrio di funzionari e diplomatici in caso di rottura delle relazioni. Oppure che solo due ore dopo la dichiarazione di guerra, la sera stessa del 10 giugno, in Francia si procedeva all’arresto in massa di italiani che erano già stati “schedati” e individuati da tempo…
Il 24 giugno scorso, Cervi (che bisogna ricordare con Montanelli ha firmato numerosi volumi della “Storia d’Italia”, anzi rivendicando di averli scritti in più di un caso, lui e basta…) ospita la replica di De Rienzo: «Confutare le tesi di Gin sulla base del Diario di Ciano che lei definisce il “documento più autentico di quel periodo” e che è invece un documento, redatto a fini apologetici e poi falsificato con aggiunte posteriori e modifiche, mi pare un po’ riduttivo. La storia e in particolare quella delle relazioni internazionali è una faccenda un po’ più complessa, di cui non si viene a capo con gli slogan del “Mussolini diplomatico” di Salvemini e peggio che mai con le memorie dell’ambasciatore francese a Roma François-Poncet, che contraddice o omette in quel suo scritto, il contenuto dei suoi dispacci inviati al Quai d’Orsay nel 1940. A miei allievi consiglio sempre di andare alle fonti originali e di vagliare sempre la veridicità delle memorie dei protagonisti, più facili da consultare, certo, ma molto spesso svianti». Impermeabile a ogni considerazione di tipo scientifico-documentale, Cervi non arretra di un passo - ma chi lo farebbe a novant’anni…? - e si aggrappa a quello che scriveva e pensava quando ne aveva quaranta, cinquanta, sessanta, settanta…: «…mi guardo bene dal mettere in dubbio la serietà del lavoro di Emilio Gin. Il quale, ne sono sicuro, conosce “la sterminata mole dei documenti diplomatici britannici e francesi” mille volte meglio di quanto la conosca io. Ma so per lunga esperienza che gli esperti nella ricerca di documenti finiscono per non vedere più con chiarezza, dietro quella immane selva cartacea, la sottostante banale realtà dei fatti. L’ho scritto e lo ripeto, da incorreggibile semplificatore. E’ a mio avviso inutile richiamare - come tanti saggisti fanno e come in particolare amano fare i nostalgici del Fascismo - questo o quel papello attestante che la Francia era ostinata o che Londra aveva intralciato il traffico marittimo italiano nel Mediterraneo. La veridicità e rilevanza di simili pagine non m’interessa, o meglio mi sembra un accessorio per specialisti. Quanto a mio avviso - scrivo cose già scritte - la marcia di Mussolini verso la guerra fu in funzione delle vittorie tedesche». Cervi è così montanelliano che da sempre scrive e ragiona come il suo ex direttore, sopravvalutato anche come divulgatore e «testimone dei suoi tempi». E così quello che risponde a De Rienzo suona ancor più familiare perché espone, una volta di più, il modo di argomentare dell’«ala conservatrice» dell’ampio fronte dello «Storicamente Corretto», un ala conservatrice che ha in Montanelli e nei suoi epigoni (non necessariamente nonagenari come Cervi) il suo perno principale.
Senza volerlo però, Cervi nelle ultime battute si è mostrato in sintonia col “revisionismo” che non perde occasione di criticare forte delle sue letture di qualche decennio fa: in effetti tutte le mosse di Mussolini (così come quelle di ogni altro leader) ancor prima dell’entrata in guerra furono condizionate dalle vicende belliche, dalle fortune e dai rovesci sia degli avversari che degli alleati. Il saggio che Di Rienzo e Gin hanno pubblicato sull’ultimo numero della «Nuova Rivista Storica» (fasc. 1, 2011, pp. 1-88), col titolo Quella mattina del 25 luglio 1943. Mussolini, Shinrokuro Hidaka e il progetto di pace separata con l’Urss, ne offre una documentatissima conferma. Attingendo da una impressionante mole di fonti, archivistiche ma anche di saggi pubblicati all’estero, i due autori disegnano un quadro straordinariamente complesso, sfaccettato e contraddittorio di quella che fu la diplomazia segreta durante la Seconda guerra mondiale. Ma del resto tutta la Storia, come ogni frutto delle relazioni umane, è sempre complessa, sfaccettata e contraddittoria. Poi ci sono i periodi più intensi e quelli più fluidi. Il 1943 appartiene alla prima categoria, sicuramente, tanto è vero che Di Rienzo e Gin scrivono che «agli inizi del 1943, tutti i governi impegnati nel conflitto nutrivano la forte sensazione di essere sul punto di assistere a un generale smottamento del sistema delle alleanze che si era costituito, tra il 1939 e 1942, destinato a portare a un clamoroso capovolgimento degli schieramenti con esiti, fino a quel momento impensabili, sul futuro svolgimento della guerra».
La realtà che emerge da questo studio è quella di una gran confusione dove tutti cercavano di avvicinare tutti: gli spagnoli che si sentono minacciati dalla Germania e si avvicinano all’Inghilterra senza trascurare di mandare una divisione di volontari a combattere con i tedeschi contro i russi ad est; Franco che preme per una pace separata tra anglosassoni e tedeschi in nome di un comune interesse occidentale a fronteggiare il bolscevismo sovietico di Stalin; Mussolini e l’Italia che dopo aver a lungo trattato segretamente con l’Inghilterra si trovava dalla fine del 1941 a premere su Hitler per una pace separata ad est con la Russia e intanto fortificava - con gran scorno dei tedeschi - la frontiera tra Italia e Terzo Reich lungo l’arco alpino [come ha raccontato «Storia In Rete» l'anno scorso nel n. 56]. E per raggiungere il suo scopo, il Duce cercava di triangolare col Giappone (che era in guerra con USA e Gran Bretagna ma non con i russi) al punto che dopo il Gran Consiglio, il 25 luglio mattina, ebbe il suo ultimo incontro con l’ambasciatore giapponese Hidaka. I tedeschi che giocavano al risparmio sul fronte mediterraneo per concentrare il massimo degli sforzi sul fronte russo poi proprio su quel fronte svilupparono al massimo la propria diplomazia segreta di cui è possibile fare una cronologia abbastanza precisa sulla base di una gran mole di segnalazioni diplomatiche provenienti anche da paesi neutrali: Turchia, Svezia, Svizzera, Spagna e Portogallo… Ad esempio, a Mussolini caduto e ancora prigioniero di Badoglio, il 2 settembre 1943 l’ambasciatore giapponese Oshima telegrafava a Tokyo «l’annuncio di una ripresa dei contatti russo-tedeschi e di una prossima missione del ministro degli Esteri nazista Ribbentrop, a Mosca, per pattuire i termini dell’armistizio». E poi ancora il 30 agosto 1944 il corrispondente da Mosca del quotidiano USA «Daily Herald» informava gli inglesi «dell’esistenza di un forte “partito isolazionista” sovietico deciso a rompere l’alleanza con gli anglo-americani per arrivare a un duraturo affiatamento con la Germania».
C’erano poi russi e giapponesi (la Russia dichiarerà guerra al Giappone solo l’8 agosto 1945, due giorni dopo Hiroshima e il giorno prima di Nagasaki, mettendo in atto in quel caso davvero un’autentica “pugnalata alla schiena” ma forse determinando veramente il crollo della volontà di Tokyo di resistere, più delle atomiche) interessati a garantirsi a vicenda la frontiera che li separava. E, i giapponesi furono sempre all’avanguardia per promuovere anche con i tedeschi una pace sul fronte orientale per avere più respiro grazie ad un impegno totale della Germania contro inglesi e americani. E i russi - il vero ago della bilancia della Seconda guerra mondiale - avevano orecchie attente nonostante per decenni si sia voluta negare - per ignoranza o per convenienza perché non bisognava parlar male della Russia dei Sovieti - la sola possibilità teorica di una pace tra Stalin e Hitler. Scrivono Di Rienzo e Gin: «Ancora alla fine degli anni Sessanta, d’altra parte, l’eventualità di un appeasement tra Stalin e Hitler era stata scartata o nettamente sottovalutata, con pochissime eccezioni di scarso rilievo scientifico, nelle opere classiche dedicate alla diplomazia del secondo conflitto mondiale».
L’accelerazione, in questo senso, è dell’autunno 1942, quindi ancor prima della sconfitta tedesca a Stalingrado che tuttavia non ferma i contatti segreti (così come non fermerà la spinta offensiva tedesca), contatti che si basavano, al di là degli slogan della guerra ideologica che pure si combatteva, su visioni realistiche della situazione. Ad esempio, si legge nel saggio di Di Rienzo e Gin: «Le crescenti difficoltà militari e le loro gravissime ripercussioni sul fronte interno avevano condotto a una rapida, quanto inaspettata, convergenza della Germania sulle posizioni giapponesi, manifestasi chiaramente già nel colloquio tra Goebbels e Alessandro Pavolini svoltosi alla metà di marzo del 1942. Secondo il circostanziato appunto del 19 di quel mese, inviato a Mussolini dal ministro della Cultura popolare, il Reich appariva propenso a trasformare lo scontro con la Russia da guerra di annientamento a guerra di contenimento della minaccia bolscevica, i cui obiettivi primari consistevano nella neutralizzazione del potenziale bellico sovietico e nel controllo diretto o indiretto di alcune aree economicamente strategiche (Ucraina e Caucaso) in grado di fornire uno stock di derrate alimentari e di materie prime indispensabili ad alimentare il conflitto contro USA e Regno Unito».
Contatti e semplici “voci” erano poi alimentate e sfruttate abilmente da Stalin (ed è facile supporre che Mussolini abbia fatto lo stesso per tenere in “caldo” i canali di trattativa con la Gran Bretagna) per premere sugli anglo-americani che ritardavano di continuo l’apertura dal tanto atteso “secondo fronte” (accadrà solo nel giugno ‘44 con lo sbarco in Normandia) necessario ad alleggerire la pressione tedesca sull’URSS. Non a caso, l’ambasciata italiana in Finlandia informava Roma, il 23 luglio 1942 che «secondo indicazioni di fonte bene informata, Ministro degli Stati Uniti ha confidato a Incaricato d’Affari spagnolo a Helsinki che, in recente colloquio tra Stalin ed Ambasciatore degli S.U. ed Ambasciatore d’Inghilterra recatisi a Mosca, Stalin avrebbe posto ultimatum per costituzione immediata secondo fronte, basato su minaccia conclusione trattative con la Germania, che sarebbero già in corso con mediazione Ambasciatore del Giappone a Kuybyshev. Ambasciatore inglese e americano avrebbero precisato, a parte immediata attuazione secondo fronte, che, a giudizio esperti anglo-sassoni, destino URSS appare segnato». E nell’ottobre successivo, l’ambasciatore italiano a Stoccolma, Renzetti, riferiva che «aggiungo essere mia convinzione personale che tedeschi mantengono qui con ogni cura contatti ufficiosi che attraverso zone intermedie si estendono sino a rappresentanti paesi nemici». L’ambasciatore d’Italia a Berlino, Alfieri, pochi giorni dopo rincarava la dose parlando: « … di “voci numerose e contraddittorie, circolanti insistentemente anche a Berlino, relative ad intelligenze in corso tra Russia e Germania per raggiungimento di una composizione del conflitto, le quali, pur essendo attribuite qui alla propaganda avversaria e come tali ufficialmente destituite di credito, sono state raccolte con interesse particolare da Tokio».
«Subito dopo la disfatta di El Alamein e il successivo sbarco anglo-americano in Algeria e Marocco dell’8 novembre 1942, anche Mussolini moltiplicava i suoi sforzi personali, già operanti dal luglio-agosto, per favorire un approccio con l’Unione Sovietica, persuaso, ormai, dell’improcrastinabile necessità di concentrare la parte principale dell’apparato bellico germanico sullo scacchiere mediterraneo» scrivono Di Rienzo e Gin. E non mancano segnali che vanno letti e contestualizzati in quest’ottica: il 2 dicembre 1942 Mussolini alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni polemizzò duramente con l’inglese Churchill e con l’americano Roosevelt ma non nominò mai il dittatore sovietico. Fece anche pressioni su Hitler tramite Ciano riscuotendo solo uno scatto d’ira del cancelliere tedesco. Uno scatto di difficile comprensione - o forse solo poco sincero - perché in quelle stesse settimane in effetti russi e tedeschi continuavano ad incontrarsi soprattutto nei sobborghi di Stoccolma.
In questo quadro, ovviamente, non va neanche dimenticato che nel gennaio 1943 Mussolini decise di procedere ad un profondo rimpasto militare e governativo che lo portò, non a caso, ad assumere personalmente il ministero degli Esteri. Un modo per dare più peso all’azione italiana anche perché nel frattempo Ciano era stato mandato come ambasciatore in Vaticano, una nomina in genere equiparata ad una defenestrazione ma che invece, forse, voleva mettere una persona di fiducia in un luogo strategico dato che molte linee della diplomazia parallela passavano dai Palazzi vaticani.
Anche nel suo nuovo ruolo di ministro degli Esteri, Mussolini scriverà tra il marzo e l’aprile 1943 due lunghe lettere a Hitler per spingerlo a chiudere il capitolo russo. E sul tema tornerà ancora nell’incontro di Klessheim (aprile 1943) e poi in quello di Feltre (19 luglio 1943). E, infine, il mattino del 25 luglio, poco prima di essere arrestato, incontrandosi con l’ambasciatore giapponese a Roma. Mussolini insomma insisteva e sapeva che, nonostante le apparenze, Hitler era un “finto sordo” da questo punto di vista. Anche perché importanti gerarchi nazisti erano su questa lunghezza d’onda: Himmler, Goering, Goebbels…
Una cosa curiosa: anche i militari che il 20 luglio 1944 tentarono di uccidere Hitler - per mano del colonnello von Stauffenberg - e prendere il potere erano in linea con l’idea di una pace con l’URSS. Correnti trascurate dagli storici ma accennate nel saggio di Di Rienzo e Gin che parlano di un anima “nazional-bolscevica” presente nel Nazismo fin dalle origini e mai cancellata nonostante le purghe interne al partito all’inizio anni Trenta: «Un report dell’OSS americano del primo febbraio 1945, trasmesso anche al governo britannico rivelava, infatti, che von Stauffenberg avrebbe allacciato, in funzione di quell’obiettivo, stretti rapporti con il Nationalkomitee Freies Deutschland (una creazione del KPD [Kommunistische Partei Deutschlands, Partito Comunista di Germania] dove, dopo la sconfitta di Stalingrado, erano confluiti molti prigionieri di guerra tedeschi) e con l’ambasciata russa a Stoccolma. Secondo il programma politico del putsch, i congiurati, una volta eliminato il Führer e formato un governo di salute pubblica, avrebbero immediatamente cessato le ostilità sul fronte orientale, senza neanche concordare preventivamente questa mossa con la dirigenza sovietica. I militari golpisti erano stati, infatti, persuasi da Friedrich Adam Freiherr von Trott zu Solz (un leader della resistenza interna, inviato in missione presso l’ambasciata inglese in Svezia), che l’URSS avrebbe concesso alla Germania migliori condizioni di pace di quelle ipotizzabili da parte del Regno Unito e degli Stati Uniti (…) gli appelli di Stalin potevano trovare un fecondo terreno di coltura nelle pulsioni “nazional-bolsceviche” ancora presenti in alcuni settori non minoritari del mondo politico germanico. Questi impulsi, come aveva attestato una nota del ministero degli Esteri francese del 23 dicembre 1939, erano ancora fortemente vitali tra i ranghi del NSDAP, anche dopo la purga del 1934, che aveva definitivamente liquidato l’ala anticapitalista del partito guidata dai fratelli Otto e Gregor Strasser, favorevole a una stabile intesa con l’URSS, nella quale, prima della violenta rottura con Hitler, iniziata nel febbraio 1926 e consumatasi definitivamente nel dicembre 1932, avevano militato da protagonisti anche Goebbels e Himmler».
Insomma, l’alleanza anti nazista era meno solida di quanto comunemente si creda - esattamente come non lo era l’Asse Roma-Berlino-Tokyo - e su quelle crepe ora l’Italia, ora il Giappone, ora la stessa Germania cercavano di battere. Un esempio, purtroppo poco più che accennato dai due autori, è rappresentato dalla scoperta delle Fosse di Katyn, la foresta nei pressi di Smolensk, in Russia, dove vennero ritrovati i resti di circa 12 mila ufficiali polacchi massacrati dai sovietici nell’aprile 1940. La scoperta venne annunciata con gran clamore dai tedeschi il 25 marzo 1943 e provocò un piccolo terremoto nel campo opposto: il governo polacco in esilio - protetto e ospitato dalla Gran Bretagna - ruppe le relazioni diplomatiche con Mosca (che, non dimentichiamo, aveva invaso la Polonia d’accordo con Hitler nel 1939, ma senza buscarsi la dichiarazione di guerra dei “garanti dell’indipendenza polacca” Londra e Parigi) e il gran sbraitare di Stalin che si trattava solo di una mossa propagandistica dei nazisti non sembrò convincere molto Londra e Washington che tuttavia hanno fatto finta di credere alla versione russa - e cioè che il massacro era opera dei tedeschi - fino alla fine degli anni Ottanta. Su questo tema è possibile andare un po’ più avanti ricordando come ha fatto il mai troppo rimpianto Franco Bandini nel suo libro - pubblicato postumo e straordinariamente ricco di notizie e intuizioni su quei mesi decisivi - «1943: l’estate delle tre tavolette» (Gianni Iuculano Editore). In quel libro Bandini dedica un capitolo a Katyn non a caso intitolato «Il Grimaldello di Katyn» [vedi anche «Storia in Rete» n. 41] e dove si sostiene che Katyn per i nazisti non fu una “scoperta” ma un “messaggio in codice” inviato al Cremlino e anche a Londra. Dopo aver ricordato che poco prima dell’annuncio in zona si erano visti sia l’ammiraglio Canaris, capo dei servizi segreti tedeschi, e qualche giorno dopo addirittura Hitler in persona, Bandini scrive: «… nessuno ad oggi ha rivelato che le fosse identificate o addirittura già localizzate attraverso le “voci” erano una quarantina, nove abbastanza recenti e le altre risalenti addirittura alla Guerra Civile tra bolscevichi e russi bianchi prolungatasi a tra il 1918 e il 1921. Ne vennero aperte soltanto due, nelle quali si trovavano esclusivamente ufficiali e civili polacchi. Ma la trentina “non recente” non fu toccata, o se lo fu, nessuno ne ha mai fatto parola. Dal che deriva, senza alcun dubbio, che l’intera operazione venne accuratamente perimetrata e finalizzata ad un obbiettivo non globale, ma limitato ad inserire un cuneo tra polacchi e sovietici, nel momento in cui erano in questione il profilo ed i confini di un possibile arrangiamento tra tedeschi e russi. Era insomma, una risposta, non un fortuito incidente (…) Nessun artificio dialettico avrebbe mai potuto diminuire la forza dell’esplosione di indignazione che sarebbe conseguita alla scoperta, in quelle fosse, di quaranta, cinquanta o sessantamila cadaveri di civili russi, uomini, donne e bambini. Se questo non accadde, dobbiamo chiedercene il perché, specie per ciò che riguarda i tedeschi e, segnatamente, i congegni mentali di Hitler. La scoperta delle fosse “polacche” gli dette un buon mezzo di pressione su Stalin in vista di possibili trattative, ma quella delle “fosse civili” gli mise in mano un potente elemento di ricatto a lungo termine».
Un altro elemento rimasto sottotraccia nel saggio di Di Rienzo e Gin (ma bisogna comunque aspettare il libro completo) è quello delle relazioni diplomatiche messe in campo da Mussolini nel 1943 per premere sulla Germania e “costringerla” a firmare una pace con la Russia. Oltre che al Giappone, il Duce guardava con attenzione ai “paesi minori” dell’Asse (Romania, Bulgaria, Ungheria), paesi verso i quali già in passato l’Italia aveva richiamato invano l’attenzione di Hitler per offrire loro un progetto politico generale per il dopoguerra. Tra questi, anche per la tradizionale vicinanza all’Italia, si distinguevano per insofferenza e, nei limiti del possibile, per dinamismo gli ungheresi e i rumeni. Il 10 luglio 1943, a poco più di una settimana dal convegno di Feltre con Hitler, Mussolini ricevette alla Rocca delle Caminate, la sua residenza in Romagna, sui colli appena sopra la natia Predappio, il vicepresidente del Consiglio di Bucarest, Mihai Antonescu. Che un incontro del genere sia avvenuto non a Palazzo Venezia ma in Romagna già la dice lunga sulla voglia di Mussolini di parlare con discrezione, lontano dai mille pettegolezzi della capitale. Da tempo i rumeni tentavano di fissare con l’Italia una linea politica comune per influenzare le ardite, e sanguinose, scelte strategiche di Hitler ad est. Come si dice in caso di incontri diplomatici, «l’identità di vedute» fu completa: la guerra andava combattuta non solo con le armi ma anche con la politica e, forte del consenso dei paesi danubiani, Mussolini assicurò che avrebbe presto riproposto ad Hitler l’idea della pace ad est, in attesa che sulla questione si pronunciasse una riunione di tutti i governanti dell’Asse, convocata anche per dare una risposta alla Carta Atlantica. Ad ogni modo, il rumeno disse che se non si poteva contare più sulla Germania allora, a tutti i costi, bisognava cercare da soli la via per la pace. Mussolini annuì.
E’ noto che Mussolini aveva deciso - forse già in quei giorni e sicuramente dopo il vertice con Hitler a Feltre del 19 luglio - che avrebbe comunque portato fuori l’Italia dalla guerra «entro il 15 settembre». Come? Non lo sappiamo ancora. Il “golpe” del 25 luglio impedì probabilmente lo svolgersi di un piano che Mussolini aveva sicuramente in mente ma che probabilmente richiedeva più tempo e più forza militare per potersi dispiegare al meglio. Resta il fatto che invece che al “15 settembre ‘43″ si arrivò - e come si arrivò… - all’ “8 settembre ‘43″ quasi che una fazione “filo anglosassone” avesse battuto sul tempo una fazione “filo russa”. Ancora una volta, l’Italia in rotta verso una meta si trovo sballottata da una tempesta troppo potente e finì su lidi forse più scomodi, duri, ostili di quelli che sperava di raggiungere. Ma neanche l’8 settembre ruppe definitivamente i fili che troppi avevano tessuto negli anni precedenti. E che infatti continueranno a ripresentarsi (e a resistere fino alla primavera 1945) già negli stessi giorni della tragedia italiana, tragedia che vista in un’ottica globale si riduce ad un tassello, un semplice e importante tassello di un quadro molto complicato. Ma che grazie anche al lavoro Di Rienzo e Gin sta per diventare meno indecifrabile.
(Pubblicato sul numero di luglio-agosto di - © «Storia in Rete»)http://www.nuovarivistastorica.it/?p=2985#
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