venerdì 30 marzo 2012
Dall’antisionismo fascista alla legge sulla razza
di: Franco Morini
Non passa giorno che i vari media di destra e di sinistra , passando per il centro, trascurino di rinvangare in un modo o nell’altro “l’infamia delle leggi razziali fasciste” del 1938 e, tuttavia, nessuno sembra voler prendersi la briga d’indagare sulle reali cause che hanno indotto Mussolini a tale determinazione. Si tende generalmente a semplificare la questione interpretando in modo univoco la legislazione “razziale” del 1938, come una pedante scopiazzatura delle leggi di Norimberga, effettuata al solo scopo di assecondare l’alleato germanico. Nasce da ciò l’errata proposizione in base alla quale se alle varie formazioni veteromarxiste è più che lecito proclamarsi antisioniste, la stessa facoltà viene negata all’area neofascista in conseguenza di quelle “leggi razziali” che aprioristicamente caratterizzerebbero tout-court il fascismo in senso antisemita.
Distinzione fin troppo comoda, modellata sull’ingannevole quanto superata dicotomia destra-sinistra che, nel caso in questione, viene riciclata dai vari dottor Balanzone del “politicamente corretto” all’unico scopo di disarticolare il potenziale blocco antisionista cercando, se possibile, di far cozzare gli avversi tra loro- meglio ancora se su motivi sostanzialmente condivisi - usando la solita eppur sempre efficace tecnica del divide et impera.
Di qui l’ esigenza di verificare in concreto a chi per filiazione diretta spetti storicamente la primogenitura antisionista e chi siano, eventualmente, i meno indicati a fissare dei paletti su questo terreno.
A tal proposito occorre riportarci a quella “dichiarazione Balfour”, una semplice scrittura privata intercorsa nel 1917 fra Lord Balfour e Lord Rothschild, poi trasformata in atto propedeutico alla legittima creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Tale documento, reso pubblico solo a guerra finita, acquistò un suo peso specifico in seguito al trattato di Sèvres, sottoscritto nell’agosto del 1920 fra le Potenze vincitrici e lo sconfitto ex impero ottomano. Il trattato di Sèvres concedeva infatti ampio mandato sulla Palestina all’Inghilterra la quale, guarda caso, già si era impegnata col finanziere Edmond de Rothschild ad avallare la presenza di un non mai ben definito “Focolare ebraico” (national home) in Terrasanta.
L’ambigua novità venne festosamente canonizzata nel Congresso sionista tenutosi nell’ottobre successivo a Trieste, dove ci si impegnò anche a raccogliere fondi da utilizzare per l’acquisto di terreni in Palestina.
Il clima piuttosto esagitato di quella riunione non sfuggì all’attenzione di Mussolini, che da parte sua gli dedicò un editoriale[1] nel quale, premesso che “ l’Italia non conosce l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai”, egli, pur distinguendo ebrei da ebrei, concludeva nel voler contare sul fatto “che gli ebrei italiani continueranno ad essere abbastanza intelligenti, per non suscitare l’antisemitismo nell’unico paese dove non c’è mai stato”.
Che tale auspicio fosse rivolto ai sionisti e non genericamente agli ebrei, è ampiamente dimostrato dal suo primo intervento come deputato alla Camera, in replica al discorso inaugurale della Corona per la nuova legislatura, il 21 giugno 1921.
Passando a trattare di politica estera , Mussolini, riallacciandosi alla ferma opposizione del Vaticano all’ipotesi della ventilata nascita di uno Stato o focolare ebraico in Palestina, incalzò il Governo ad appoggiare “in questa questione delicatissima, il punto di vista del Vaticano.
Ciò anche nell’interesse degli stessi ebrei i quali sfuggiti ai ‘ progroms’ dell’Ukraina e della Polonia, non devono incontrare i ‘ progroms’ arabici della Palestina, ed anche perché non si determini nelle Nazioni occidentali una penosa situazione giuridica per gli ebrei, in quanto, se domani gli ebrei fossero cittadini del loro [ potenziale ] Stato, potrebbero diventare immediatamente colonie straniere negli stessi Stati[2].
Prima di questo suo intervento, nessun parlamentare italiano aveva affrontato il nascente problema sionista in Palestina. Il fatto che, ad esclusione del Papa, la posizione più critica sul sionismo fosse riconducibile a Mussolini e non altri, evidenzia la precoce attenzione del Duce verso un problema che avrà il suo più drammatico sviluppo nella seconda metà del XX secolo, condizionandone gli eventi fino e oltre i nostri giorni. Sempre in linea con questa sua sensibilità geopolitica, Mussolini convinse l’intero Gruppo parlamentare fascista a sottoscrivere nel giugno 1922 un documento apertamente ostile alla ratifica da parte del Governo italiano, dei mandati anglo-francesi sulla Palestina, Siria e Libano[3] ricevendo per questa sua iniziativa manifestazioni di viva gratitudine da parte del Comitato Nazionalista Arabo.
Una volta giunto al potere, Mussolini abbassò diplomaticamente i toni della questione, lasciando però campo libero alla stampa, che, a cominciare da quella cattolica , si distinse spesso per la serrata critica al sionismo, e, più in generale, alla politica inglese in Palestina. Anche il tentativo del capo del sionismo revisionista, Jabotinsky, di accreditarsi come filofascista al fine di ottenere la benevolenza di Mussolini, ebbe alterni risultati, il più favorevole dei quali fu una certa tolleranza verso la pubblicazione del periodico “L’idea sionista”, giornale obiettivamente connotato in senso antibritannico in quanto mirava a crearsi un seguito fra gli ebrei fascisti più inclini al sionismo[4].
In realtà, almeno inizialmente gli ebrei fascisti erano per lo più antisionisti così come lo erano la più parte degli ebrei tradizionalisti[5] sicché non meraviglia che all”Idea Sionista” e ai sionisti in generale si contrapponesse proprio un ebreo fascista e antisionista come Ettore Ovazza, col suo giornale “La nostra Patria”. Il fatto è che, nonostante si affermi puntualmente il contrario, la stampa italiana dell’epoca era forse più variegata che non in questa sedicente democrazia.
Coesistettero, infatti, riviste quali l’antigiudaica “Vita Italiana”, l’antisionista “Tevere”, la radical-sionista “L’ Idea sionista”e l’ebraica-antisionista “La nostra bandiera” così come del resto si poteva spaziare dalle pubblicazioni di Croce a destra, fino a quelle di Bombacci a sinistra.. Il limite di tolleranza in effetti non era determinato tanto dall’ideologia in sé, quanto piuttosto dall’eventuale componente extranazionale o addirittura anti-nazionale, ed è per questo che i comunisti erano meno tollerati a causa della loro sudditanza politica ed economica dall’Urss[6] che non per la loro ideologia, così i socialisti per i loro rapporti con la IIa Internazionale in generale e con la Francia radicale in particolare, il che valeva anche per le varie massonerie di ubbidienza inglese o francese.
In ogni caso l’irreversibile svolta antisionista dell’Italia porta la data precisa del 18 marzo 1937, giorno in cui a Tripoli Mussolini brandì la Spada dell’Islam proclamandosi difensore dei Musulmani e venendo riconosciuto come tale da eminenti personalità del mondo islamico.
Un gesto altamente significativo che non lasciava margini a dubbi, tanto da essere così commentato da Abramo Levi: “ come può, chi si dice italiano e fascista, favorire un movimento [ sionista ] a cui sono ostili arabi e musulmani, quando è chiara e nota la politica islamica del Regime?”[7].
E’ perciò fuori discussione che ben prima dell’entrata in vigore delle così dette “leggi razziali”, il fascismo si era già apertamente caratterizzato in senso filoarabo e quindi antisionista, così come specularmente, il sionismo – Jabotinsky compreso -non poteva essere che antifascista, specie da quando l’Italia si era palesemente schierata a favore dei popoli arabi e, in generale, di quelli musulmani.
Arriviamo così alle famigerate – quanto sostanzialmente mal conosciute - “leggi razziali” di cui al D.L. 17 nov. 1938, n.1728. Scopo fondamentale di questa legge non era tanto di colpire gli ebrei, quanto salvaguardare la razza italiana dal meticciato che in quel momento stava rapidamente aumentando, sia a causa delle recenti imprese coloniali che della relativa colonizzazione civile . Recitava, infatti, l’art. 1 che: Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persone appartenenti ad altre razze è proibito. Il divieto non concerneva pertanto la sola razza ebraica ma riguardava tutte le razze non ariane. Inoltre, il successivo art. 2 estendeva limiti a tutti gli stranieri - compresi quelli di razza ariana- il cui eventuale matrimonio con il cittadino italiano era tassativamente subordinato al preventivo nullaosta da parte del Ministero per l’Interno.
A queste prime limitazioni , peraltro riguardanti il cittadino italiano di razza ariana, seguiva il capo 2° della legge, che, in subordine, trattava delle limitazioni imposte alle categorie di ebrei di cui ai paragrafi a); b); c); d) dell’art.8. Solo gli ebrei appartenenti alle elencate categorie, pur continuando a conservare la cittadinanza italiana, erano esclusi, al pari degli stranieri, da una serie di diritti-doveri come il servizio militare da una parte e gli impieghi pubblici e di partito dall’altra. In sostanza vennero adottate nei loro confronti quelle cautele a cui lo stesso Mussolini si era riferito nel suo discorso alla Camera del 192, quando aveva denunciato il rischio che il rafforzarsi dell’idea sionista finisse per fare degli ebrei una “colonia di stranieri” all’interno dello Stato. Difficilmente sarebbe maturata la discriminazione nei confronti degli ebrei italiani, se nel frattempo la questione sionista, oltre a consolidarsi ed estendersi in Palestina, non fosse entrata per varie ragioni in aperto conflitto con l’evoluzione geopolitico-mediterranea dell’Italia fascista. Ciò è dimostrato dal fatto che la discriminazione non era indirizzata verso la razza in quanto tale, poiché, a differenza della Germania, in Italia non sussisteva alcuna preclusione di carattere biologico, dal momento che la discriminante fascista era di natura spiccatamente nazional-patriottica. Vennero, infatti, esclusi dai provvedimenti restrittivi gli ebrei che avevano dimostrato un indubbio attaccamento alla Patria (famigliari di caduti nelle varie guerre, mutilati, decorati, volontari e invalidi di guerra) oppure al fascismo (mutilati, invalidi e feriti per la causa fascista, legionari fiumani e iscritti al Pnf dal 1919 al 1922 oltre a quelli del secondo semestre del ’24, cioè del dopo Matteotti); nel complesso, quasi un quarto dei circa 40 mila ebrei italiani venne escluso da quei provvedimenti impropriamente definiti dallo stesso fascismo, almeno per quanto concerne gli ebrei, col termine “razziali”.
La legislazione peraltro non era stata sostanzialmente ostacolata neppure dalla S. Sede[8] con l’esclusione di una coerente opposizione vaticana concernente la norma che vietava il matrimonio fra cittadino italiano e straniero anche se ambedue di religione cattolica.
Inoltre, come rilevato da De Felice, il razzismo italiano si distingueva da quello tedesco, più che per il rifiuto dell’aspetto biologico, anche per il fatto che il regime fascista si proponeva sì di discriminare gli ebrei dagli italiani, come del resto ebrei da ebrei, ma senza con ciò sconfinare in forme di vera e propria persecuzione[9].
Nella prospettiva di un imminente conflitto europeo, il regime non fece altro che cautelarsi in modo logico e legittimo nei confronti di plausibili quinte colonne interne, escludendo i potenziali sabotatori dai più delicati gangli dello Stato (esercito, burocrazia, pubblica informazione e formazione, economia strategica) e, ovviamente, dal partito..
In ogni caso, fino e oltre il 1940 tutto era rimasto ancora su un piano piuttosto aleatorio e la questione ebraico-sionista poteva ancora risolversi positivamente se fosse giunto in porto l’ardito progetto di Mussolini di sistemare in A.O.I. buona parte di quegli ebrei sionisti centro-europei e italiani che avessero aderito a questa soluzione, disinnescando in tal modo quel pressante problema ebraico che non era solo italiano ma, soprattutto, centro europeo[10] L’area prescelta in A.O.I. sembra potersi localizzare nella provincia del Tigrè, fuori cioè dai territori islamici, in una zona dove fra l’altro erano già da tempo insediati quegli Etiopi giudaizzati conosciuti come Falascià. L’avallo di Mussolini all’ipotesi della creazione di un polo ebraico alternativo alla Palestina in A.O.I. rivela che il suo antisionismo era pragmaticamente condizionato dalla particolare congiunzione geopolitica attraversata in quel particolare momento dall’Italia, sicché anche i noti provvedimenti razziali potevano essere rivisti o revocati qualora tale contingenza si fosse in qualche modo dissolta con l’emigrazione sionista in A.O.I. oppure col cessato rischio di uno scontro bellico.
Secondo De Felice, le leggi razziali riguardanti gli ebrei sarebbero appunto nate alla luce del predetto progetto e in tale contesto dovrebbero essere inquadrate, per quanto “vista tramontare la possibilità di risolvere internazionalmente e globalmente la ‘questione ebraica’ si pensò di venire fuori dal vicolo cieco in cui ci si era cacciati allontanando tutti gli ebrei [ stranieri] dal territorio nazionale in un lungo numero di anni e a condizioni economiche per essi non troppo sfavorevoli; in un terzo tempo anche questo progetto fu però abbandonato, certo per il precipitare degli avvenimenti e forse per preoccupazioni di ordine economico-nazionale”[11].
In effetti, non solo non si procedette all’espulsione degli ebrei stranieri come stabiliva la legge, ma si facilitò addirittura l’immigrazione da parte di numerosi altri ebrei stranieri, i quali, proprio nell’Italia delle “infami leggi razziali”, cercavano e trovavano rifugio.
Per quanto concerne gli ebrei italiani, già a breve distanza di tempo (luglio 1939) venne introdotta una nuova norma a integrazione[12] della precedente legge sulla razza in base alla quale veniva inaugurata la curiosa figura giuridica dell’ebreo “arianizzato” da una speciale commissione composta da tre magistrati e due funzionari ministeriali; in plateale difformità dalle risultanze degli atti di stato civile, costoro avevano la facoltà di certificare “l’arianità” di qualsivoglia appartenente alla razza ebraica che avesse inteso ricusare la sua presunta ascendenza. Sempre a richiesta dell’interessato, la commissione aveva inoltre la facoltà di autorizzare la variazione del nome originario per eliminar anche quest’ultima traccia d’appartenenza.
La ratio di questa integrazione normativa mirava a sanare molte posizioni intermedie riguardo a quegli ebrei che, pur non potendo certificare il loro patriottismo, erano comunque considerati affidabili sotto tale profilo.
Si voleva in tal modo evitare quei casi di palese ingiustizia che la legge originaria poteva oggettivamente determinare. Ad una così sollecita revisione delle norme relative agli ebrei, pare non fosse estraneo il suicidio di protesta verificatosi solo dieci giorni dopo la promulgazione della legge sulla razza, del noto editore di origini ebraiche, Fortunato Formiggini. L’editore, pur non avendo aderito formalmente al Pnf, era tuttavia un convinto mussoliniano, così com’era anche decisamente antisionista. Essendo stato il Formiggini a suo tempo volontario di guerra, avrebbe potuto facilmente ottenere di essere positivamente discriminato e anche per questo il suo suicidio colpì non poco Mussolini, il quale aveva peraltro anticipato in un suo discorso, che le ormai progettate leggi razziali avrebbero stupito il mondo per il ponderato senso di umanità che ne avrebbe caratterizzato l’applicazione. Questo per quanto concerne le leggi poiché nella pratica, e quella giornalistica in particolare, non mancarono toni indiscriminatamente antigiudaici, spesso finalizzati alla propaganda diretta a quel popolo arabo che si stava sempre più orientando verso posizioni filonaziste nelle quali apprezzava il forte impulso antiebraico[13].
In ogni caso, per quanto non si possa obiettivamente definire “umanitaria” qualsivoglia forma di razzismo, resta il fatto che nella sua applicazione il razzismo fascista fu il più blando e bonario fra i vari razzismi più o meno espliciti del XX secolo e comunque più blando e bonario di quello adottato dal “democratico” governo sionista nei confronti degli autoctoni palestinesi.
La situazione fin qui descritta mutò improvvisamente a causa del colpo di Stato antimussoliniano del 1943, precipitando poi a seguito dell’ignobile tradimento dell’8 settembre, che inevitabilmente indusse i Tedeschi all’occupazione militare di tutto il Centro-Nord, occupazione interrotta solo con il successivo insediamento ufficiale della RSI.
In questo senso, anche il rastrellamento del ghetto di Roma con la conseguente deportazione di ebrei romani dell’ottobre 1943, altro non fu che la rude replica tedesca alla formale dichiarazione di guerra all’Asse resa nota 48 ore prima dal Governo Badoglio. una infamia che era stata interpretata dai Tedeschi come l’ennesima trama giudaico-massonica, cosa che a nostro parere, non era del tutto campata in aria.
Del resto anche la RSI, al punto 7 dei 18 punti di Verona, aveva pure stabilito che gli ebrei durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica. Considerazione del tutto legittima, tenuto conto che le truppe d’invasione alleate annoveravano fra loro forze anche una “Brigata ebraica”.
Ciononostante da un punto di vista strettamente giuridico non si procedette ad alcuna variazione rispetto a quanto stabilito dalla precedente legislazione, positive discriminazioni e arianizzazioni comprese, in quanto progetti di legge più restrittivi non furono poi emanati sicché anche il punto 7 di Verona non riuscì ad inverarsi in forma giuridica.
Si spiega così l’apparente paradosso della gappista Capponi e del suo compagno Bentivegna i quali, subito dopo aver effettuato l’attentato di Via Rasella e per quanto ancora non sospettati “per non compromettere [ la ] madre [ della Capponi ] e il palazzo e le persone che ci abitavano [ scelsero] di rifugiarci in una casa di ebrei”[14].
La casa rifugio dei gappisti era situata nella centralissima Piazza Bologna ed era di proprietà della vedova israelita di un ex ardito di guerra poi fervente fascista[15] di qui l’elementare deduzione che si trattasse di una delle varie ebree escluse dai provvedimenti restrittivi per motivi patriottico-fascisti, essendo peraltro anche autrice di un manualetto sul corporativismo edito nel 1935.
Ci siamo volutamente soffermati su quest’ultimo episodio al fine di dimostrare concretamente che la legislazione razziale con i suoi bonari distinguo in quel momento, nel clima esasperato della guerra divenuta anche civile e senza contare con tutto ciò che si era drammaticamente succeduto dal 1938 in poi, era oggettivamente superata e ciò anche a causa dell’ormai insanabile frattura che si era determinata fra l’ebraismo italiano nel suo complesso e le strette ragioni politico-militari della Rsi, che oggettivamente giustificano quanto stabilito dal punto 7 del manifesto di Verona.
Il vuoto legislativo concernente lo status degli ebrei di cittadinanza italiana durante il corso della guerra si è infatti rivelato un fatto spesso nocivo per gli ebrei stessi i quali , specie a seguito dell’intervento germanico in Italia, vennero a trovarsi in un limbo giurisdizionale in quanto spesso esclusi [16] dalle garanzie giuridiche comunque spettanti a quei cittadini considerati appartenenti a nazionalità nemiche.
Note
[1] B. Mussolini “Ebrei, bolscevismo e sionismo italiano” in “Il Popolo d’Italia” del 19 ottobre 1920.
[2] B. Mussolini “Scritti e discorsi” vol. II°, 1931 pp. 178-179.
[3] B. Mussolini “ Italia e Oriente” in “Il Popolo d’Italia del 14 giugno 1922.
[4] “L’idea sionista” era una vecchia testata giornalistica fondata a Modena nel 1901.
[5] Si dichiararono ufficialmente antisionisti i capi delle Comunità ebraiche di Ancona, Ferrara, Livorno, Mantova, Parma, Padova, Pisa, Firenze, Venezia, Torino Genova, Verona, Trieste (Cfr. A Levi “Noi Ebrei” 1937, pp.35- 43).
[6] Quello cui ci opponiamo noi fascisti è la mascheratura bolscevica del socialismo italiano. E’ strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i Vangeli prima in Germania e poi in Russia (N. Tripodi “ Il fascismo secondo Mussolini”, 1971 pag.137.
[7] A. Levi cit. pag.31
[8] Cfr Rapporto dell’ambasciatore in Vaticano Ciano del 10 ottobre 1938 in cui si evidenzia l’apprezzamento della S.Sede per il comma col quale non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione alla data del 1 ott. 1938. Anche nella elencazione dei motivi di discriminazione per gli ebrei di cittadinanza italiana si è notato un grande spirito di moderazione e così pure per le limitazioni poste all’attività degli ebrei ( R. De Felice “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”. 1977 vol. 2°, pag. 669)
[9] R. De Felice cit. vol. 2° pag. 409.
[10] R,De Felice cit .vol. 2° pag.410
[11] Ibid. pag. 411
[12] D.L. 13 luglio 1939, n. 1055.
[13] Un impulsoo antiebraico che però non altrettanto antisionista, considerati i rapporti di collaborazione, per non dire alleanza di fatto, tra la Germania nazionalsocialista e la sionista Agenzia ebraica (Cfr. R. Garody “I miti fondatori della politica israeliana” cap. II° - parte I° pp. 47-61).
[14] Testimonianza di Carla Capponi raccolta da E.A. Cicchino e R. Olivo e dagli stessi riportata in “Via Rasella” 2007, pag. 146.
[15] Id. pag. 179
[16] In mancanza di una legge organica si era cercato di supplire con circolari interne specie da parte del Capo della polizia repubblicana il quale con circolare del 10 dicembre 1943, nuovamente ribadita il 7 marzo 1944. disponeva l’esclusione dall’internamento per gli ebrei ultrasettantenni, tutti gli ammalati indipendentemente dall’età nonché dei membri di famiglie miste. Disposizioni queste vincolanti per gli agenti di P.S. ma non sempre rispettate dall’S.D. germanica
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=13117
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