Tra coloro che
l’8 settembre, scelsero di continuare la guerra a fianco dell’alleato
tedesco, non possiamo non ricordare gli eroici paracadutisti
Repubblicani. Dalle ceneri della “Folgore”, divisione chiamata con
orgoglio “la più bella del mondo”, era nata la “Nembo” che, si trovava
dislocata in Sardegna e in Corsica, fatta eccezione per un reggimento
occupato in Calabria a contrastare l’invasione degli anglo-americani.
Proprio su quel fronte, tra il 3 e il 4 settembre, nei giorni precedenti
la diffusione della notizia dell’armistizio, ma a firma già avvenuta,
il nemico era sbarcato tra Reggio Calabria e Villa San Giovanni e i
soldati tedeschi combattendo fianco a fianco con i nostri paracadutisti
del III Battaglione 185° Rgt. comandati dal Capitano Edoardo Sala,
avevano contenuto con grande coraggio ed efficacia l’avanzata di due
reggimenti canadesi.
La sera della fatidica data del
tradimento questi fu convocato dal maggiore Ziegler, del reparto tedesco
alleato, che gli comunicò di aver avuto notizia dal suo comando
dell’avvenuta firma di armistizio da parte di Badoglio. Racconta lo
stesso Sala che il discorso terminò con queste parole:
“Dato il valore e la lealtà con cui
abbiamo combattuto insieme con voi in questi giorni, ho deciso di non
procedere al disarmo dei militari italiani. Dirò di più: nell’uscire da
questa tenda lei può fare quel che le detta la sua coscienza. Io non
l’impedirò in alcun modo.”
Il capitano Sala non riuscì a dormire,
la cosa che più attanagliava il suo cuore era l’aver saputo del
tradimento direttamente dagli alleati tedeschi e non dal suo comando che
aveva cercato poi di contattare inutilmente per tutta la notte. La
mattina seguente, all’alzabandiera, i suoi uomini che pur avevano saputo
della notizia che stava circolando, si fecero trovare schierati in
assetto perfetto, ascoltarono in silenzio la sua decisione di continuare
a combattere e non mossero un muscolo nemmeno quando aggiunse che
ognuno di loro era libero di eseguire gli ordini che più riteneva
giusti. Non vedendo reazioni egli terminò con un secco “Rompete le
righe!”, ma nessuno degli uomini si spostò dalla posizione di attenti e
una voce dal fondo gridò “Noi veniamo con voi!”
Così Sala e i suoi uomini iniziarono la
ritirata, risalendo l’Italia, a fianco dei tedeschi, non prima di aver
inviato al comandante di reggimento la seguente comunicazione :
“9 settembre 1943, ore 22.
Signor Maggiore, il nemico non deve
avere le nostre armi e noi le portiamo in salvo perché alla Patria
possono ancora servire e la nostra Fede e la nostra vita, anche.
Per l’onore d’Italia. Capitano Sala”
Durante il tragitto mentre stavano
attraversando un paesino, davanti a una merceria, presa di mira da
qualche ignoto sciacallo, i paracadutisti da un camion videro a terra
delle bobine di nastro tricolore. Si fermarono e le raccolsero, da quei
rotoli tagliarono dei pezzi, uno per ognuno, della dimensione giusta per
poterselo avvolgere attorno al braccio come segno identificativo. In
seguito, appena fu possibile, il nastro venne cucito e ci fu ricamato
sopra la frase del capitano Sala “Per l’onore d’Italia”. In quel momento
di sbandamento totale, grazie alla loro fedeltà, al loro attaccamento
alla bandiera era nato il distintivo che poi divenne comune per tutti i
parà della RSI.
In Sardegna la situazione che si venne a
creare fu più o meno la stessa, nei confronti dell’alleato germanico
tutti i paracadutisti nutrivano sinceri sentimenti di fraterno
cameratismo, i comandi avevano addirittura mense comuni e quando seppero
di dover obbedire all’ordine di armistizio, un profondo sconcerto
pervase la truppa.
Nel libro “Morire per qualcosa” di Belisario Naldini si legge:
“Non saprei qui commentare le reazioni
dei nostri soldati a questa inattesa notizia. Penso possa significare
qualcosa il pianto che eruppe dagli occhi di molti di quei ragazzi, lo
smarrimento che li assalì, il silenzio dei primi minuti nei quali
nessuno voleva, o non poteva credere.”
Tra
il generale Basso comandante di tutta la divisione “Nembo” dislocata in
Sardegna e il comandante della 90 ° divisione tedesca, si pervenne a un
accordo affinché non ci si opponesse allo sgombero delle truppe
germaniche. Il maggiore Mario Rizzatti allora comandante di Battaglione,
rimase profondamente deluso dalla notizia del tradimento perpetrato
alla spalle dell’alleato tedesco. Si appartò come se avesse ricevuto un
colpo, si tolse il cappello, si vedeva la testa completamente rasata, il
viso largo bruciato dal vento e dal sole, chi lo conosceva sapeva che
era infuriato: il suo onore gli impediva di obbedire ciecamente a tale
esecrabile ordine.
“Mariut” come lo chiamava la madre, era
nato a Fiumicello (UD) nel 1892, avrebbe desiderato fare il contadino,
lavorare i campi al fianco del padre, ma i genitori vollero farlo
studiare e, divenuto maestro elementare esercitò per un breve periodo la
sua professione. Intervenuta la prima guerra mondiale, vivendo in
territori all’epoca sotto il dominio austro-ungarico, fu arruolato e
sarebbe stato costretto a combattere una guerra non sua, se non fosse
fuggito grazie all’aiuto del fratello, noto irredentista. Solo nel 1915,
quando l’Italia entrò nel conflitto mondiale, si presentò volontario,
pronto a farsi onore. Era un uomo coraggioso, ma troppo sincero, per
aver criticato l’assurda tattica degli assalti frontali comandati da
Cadorna, fu espulso dalla scuola allievi ufficiali di Cormons.
In seguito riammesso, terminò la guerra
col grado di Capitano e fu nominato Commissario Prefettizio al suo
paese. Si dimise, però, nel 1921 per protesta considerando un vero e
proprio furto perpetrato ai danni dei contadini, la manovra del Governo
che prevedeva la requisizione dei cereali. Iscrittosi al PNF fu tra
coloro che marciarono su Roma. Durante il Regime partecipò fattivamente
alle opere di bonifica della “bassa” friulana e alla costituzione di
colonie per i meno abbienti: era un entusiasta delle grandi opere che
Mussolini stava compiendo durante il ventennio . Nel 1942, nonostante
non fosse più un giovanotto, aveva all’epoca compiuto cinquant’anni,
fece domanda di ammissione per la scuola paracadutisti di Tarquinia, fu
così che la data dell’armistizio lo colse in Sardegna al comando del XII
Battaglione della “Nembo”.
Per meglio delineare il carattere di
questo uomo così coraggioso e testardo svelo un episodio successo
quando, durante la RSI, di ritorno da un corso speciale di
addestramento, scrisse una lettera a un’amica in Friuli, in cui
raccontando le sue vicissitudini, esprimeva serie critiche verso il
Regime e verso il Duce e diceva di “combattere per l’onore della
Bandiera e della Patria, non certo per il Governo…” la missiva finì sul
tavolo di Mussolini che lo fece convocare dal Capo della sua segreteria
particolare, prefetto Dolfin, testimone della vicenda.
Il maggiore Rizzatti giunse a Gargnano
insieme ad alcuni suoi ufficiali che non lo abbandonavano un attimo, lo
seguivano, lo guardavano con grande affetto e lo spalleggiavano
apertamente. Il prefetto gli mostrò la lettera chiedendo spiegazioni, lo
osservò attentamente, dal suo sguardo fiero traspariva l’anima di un
uomo onesto. Racconta Dolfin che Rizzatti dopo averla riletta disse con
molta tranquillità:
“Lo riconosco per scritto tutto di mio
pugno: Non ho ho nulla da togliere, né da aggiungere. Se ho compiuto un
reato, per aver manifestato quello che penso, sono qui per scontarlo.”
Il prefetto Dolfin parlando con lui, fu
ispirato da innata simpatia e, sapendo che il maggiore era un uomo
valoroso, volontario di guerra, cercò di capire da cosa fossero motivate
le sue lagnanze e lo convinse a scrivere una lettera di scuse in cui
esprimere meglio il suo pensiero e le sue ragioni. Trascorsero insieme
un’intera notte, in cui Rizzatti, racconta Dolfin :
“scrisse e stracciò una decina di
lettere.(…)finalmente consigliato, combinò una lettera che parve
possibile. Nulla di straordinario, ma possibile. Eravamo diventati
amici”
Nella sua missiva al Duce che conteneva
una serie di richieste di materiali, vestiario e armi, si diceva
preoccupato per le condizioni dei suoi uomini che continuavano a morire
“…spariamo perché nessuno abbia il
diritto di dire che gli Italiani sono tutti vigliacchi! Conosciamo
soltanto l’Italia e credo che questo dovrebbe bastare.”
Mussolini, leggendo la lettera che non era né affettuosa, né cordiale, ma sincera, ebbe a pronunciare le seguenti parole
“Questo Rizzatti, cocciuto, testardo, è un Italiano! Uno di quegli italiani che sanno ancora scrivere la storia.”
Poco si sbagliava il Duce nel giudicare
quel friulano, pervicace come la gente della sua terra, che dopo la
notizia dell’armistizio, aveva convocato i comandanti di compagnia del
suo Battaglione e in maniera esplicita, come era solito esprimersi,
aveva chiesto loro
“Preferite la comodità di rimanere e il disonore, oppure il sacrificio e il dovere di difendere l’onore militare?”.
Era amato come un padre dai suoi giovani
soldati, i suoi occhi erano talmente chiari che sembravano emettere un
bagliore metallico mentre li guardava, ma erano occhi buoni e si
inumidirono quando, rispondendo alla sua domanda, tutti gli ufficiali
scelsero di restare al suo fianco con la truppa e di lasciare la
Sardegna a testa alta insieme ai tedeschi.
Al contrario, molti dei paracadutisti
rimasti agli ordini di chi aveva obbedito si sentirono dei vili e dei
traditori. Ricordando un’incursione aerea degli americani avvenuta su
popolazione civile inerme, il tenente Carlo Bianchi racconta nel suo
libro “Un’isola che si chiama Sardegna”:
”…Mi mandarono a Gonnosfanadiga, un
paesetto ai piedi del monte Linas, che proprio non si prestava a
infondere sentimenti filo americani con il ricordo ancora vivo del
tragico carosello aereo che aveva fatto, nelle sue strade prese
d’infilata, più di cento vittime, per la maggior parte fanciulli.”
Nel 1944 dopo lo sbarco di Anzio, si
rese necessario l’invio al fronte di Nettuno del Reggimento
Paracadutisti, 1500 uomini in tutto, e il comando venne affidato al
maggiore Rizzatti che, arrivato sul fronte, trovò in pieno corso
l’offensiva del nemico.
La sera del 3 giugno giunto a Castel di
Decima, attestò il comando in una grotta, sulla via principale che
portava al castello e tenne rapporto coi suoi ufficiali per organizzare
una linea di difesa. Erano le sei del mattino successivo quando prese
inizio un attacco di sorpresa da parte di autoblindo inglesi, che nel
giro di qualche ora erano giunti a pochi metri dalla sua posizione. Il
maggiore Rizzatti avendo capito che se non fosse riuscito a fermarli la
situazione per i suoi parà, circondati da due lati, sarebbe divenuta
disperata, in un coraggioso tentativo, seguito dal suo porta ordini
Massimo Rava di soli diciotto anni, uscì dalla grotta, iniziò a sparare
col mitra e a tirare bombe a mano contro il mezzo blindato fermo davanti
all’ingresso. Fu raggiunto in pieno da una raffica nemica, cadde a
terra e morì insieme al suo fedele soldato e a due sottufficiali
germanici .
L’eroico gesto del comandante diede il
la ai paracadutisti che, guidati dal capitano Sala, sferrarono il loro
contrattacco e a colpi di “panzerfaust” distrussero le sei autoblinde
sulla strada, fermando l’azione nemica.
Ebbero così il tempo di battere in
ritirata e riparare verso Roma, ma non quello di dare degna sepoltura ai
loro caduti. Abbandonando il fronte li avevano lasciati nella grotta
composti uno accanto all’altro avvolti in teli da tenda. Gli abitanti
del luogo, dopo qualche giorno, li seppellirono alla meno peggio nel
terreno antistante la grotta, ma il medico del paese, giunti gli
alleati, forse per ingraziarsi i “liberatori”, adducendo motivi
sanitari, fece disseppellire i corpi e, versatavi sopra della nafta, li
incendiò. I resti, senza fossero restituite piastrine, né documenti di
riconoscimento, furono trasportati a Roma con l’identificativo
“sconosciuto” e gettati in una fossa comune al Verano.
Morto eroicamente e dimenticato da tutti
voglio ricordare il maggiore Rizzatti attraverso le parole del figlio,
sergente Alessandro Rizzatti, che, passando al seguito del suo
battaglione in ritirata dal fronte, lo aveva incontrato poche ore prima:
“Il colloquio è breve: “Come va?”
Rispondo: “Credo non vada tanto bene.” “Stai attento sai, ricordati di
sparare per primo” dice mio padre accarezzandomi, poi prosegue: “Avanti,
in bocca al lupo.” Lo saluto sull’attenti per l’ultima volta.”
I paracadutisti si distinsero sempre per
il portamento perfetto e finita la guerra, fra tutti i prigionieri,
furono quelli che avevano le uniformi più curate e in mano nemica furono
uniti al punto da conservare la dignità di appartenenza al loro reparto
anche quando venivano separati. Durante un interrogatorio un ufficiale
badogliano chiese a un parà cosa fosse quel nastro appeso al braccio e
lui con orgoglio rispose “Ciò che resta dell’Onore d’Italia”
Molti degli ufficiali sopravvissuti
sopportarono il carcere e il campo d’internamento di Coltano, fra questi
il capitano Gino Bonola comandante della Compagnia comando Reggimentale
del “Folgore” che in quei tristi giorni scrisse le parole di una
canzone cantata da tutti i prigionieri:
“…Se l’ira cieca, se l’odio tetro,
al tuo passare ti segna a dito,
rispondi senza guardare indietro
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