lunedì 13 agosto 2018

Per l’Onore d’Italia

comandante-salaTra coloro che l’8 settembre, scelsero di continuare la guerra a fianco dell’alleato tedesco, non possiamo non ricordare gli eroici paracadutisti Repubblicani. Dalle ceneri della “Folgore”, divisione chiamata con orgoglio “la più bella del mondo”, era nata la “Nembo” che, si trovava dislocata in Sardegna e in Corsica, fatta eccezione per un reggimento occupato in Calabria a contrastare l’invasione degli anglo-americani. Proprio su quel fronte, tra il 3 e il 4 settembre, nei giorni precedenti la diffusione della notizia dell’armistizio, ma a firma già avvenuta, il nemico era sbarcato tra Reggio Calabria e Villa San Giovanni e i soldati tedeschi combattendo fianco a fianco con i nostri paracadutisti del III Battaglione 185° Rgt. comandati dal Capitano Edoardo Sala, avevano contenuto con grande coraggio ed efficacia l’avanzata di due reggimenti canadesi.
La sera della fatidica data del tradimento questi fu convocato dal maggiore Ziegler, del reparto tedesco alleato, che gli comunicò di aver avuto notizia dal suo comando dell’avvenuta firma di armistizio da parte di Badoglio. Racconta lo stesso Sala che il discorso terminò con queste parole:
“Dato il valore e la lealtà con cui abbiamo combattuto insieme con voi in questi giorni, ho deciso di non procedere al disarmo dei militari italiani. Dirò di più: nell’uscire da questa tenda lei può fare quel che le detta la sua coscienza. Io non l’impedirò in alcun modo.”
Il capitano Sala non riuscì a dormire, la cosa che più attanagliava il suo cuore era l’aver saputo del tradimento direttamente dagli alleati tedeschi e non dal suo comando che aveva cercato poi di contattare inutilmente per tutta la notte. La mattina seguente, all’alzabandiera, i suoi uomini che pur avevano saputo della notizia che stava circolando, si fecero trovare schierati in assetto perfetto, ascoltarono in silenzio la sua decisione di continuare a combattere e non mossero un muscolo nemmeno quando aggiunse che ognuno di loro era libero di eseguire gli ordini che più riteneva giusti. Non vedendo reazioni egli terminò con un secco “Rompete le righe!”, ma nessuno degli uomini si spostò dalla posizione di attenti e una voce dal fondo gridò “Noi veniamo con voi!”
Così Sala e i suoi uomini iniziarono la ritirata, risalendo l’Italia, a fianco dei tedeschi, non prima di aver inviato al comandante di reggimento la seguente comunicazione :
“9 settembre 1943, ore 22.
Signor Maggiore, il nemico non deve avere le nostre armi e noi le portiamo in salvo perché alla Patria possono ancora servire e la nostra Fede e la nostra vita, anche.
Per l’onore d’Italia. Capitano Sala”
Durante il tragitto mentre stavano attraversando un paesino, davanti a una merceria, presa di mira da qualche ignoto sciacallo, i paracadutisti da un camion videro a terra delle bobine di nastro tricolore. Si fermarono e le raccolsero, da quei rotoli tagliarono dei pezzi, uno per ognuno, della dimensione giusta per poterselo avvolgere attorno al braccio come segno identificativo. In seguito, appena fu possibile, il nastro venne cucito e ci fu ricamato sopra la frase del capitano Sala “Per l’onore d’Italia”. In quel momento di sbandamento totale, grazie alla loro fedeltà, al loro attaccamento alla bandiera era nato il distintivo che poi divenne comune per tutti i parà della RSI.
In Sardegna la situazione che si venne a creare fu più o meno la stessa, nei confronti dell’alleato germanico tutti i paracadutisti nutrivano sinceri sentimenti di fraterno cameratismo, i comandi avevano addirittura mense comuni e quando seppero di dover obbedire all’ordine di armistizio, un profondo sconcerto pervase la truppa.
Nel libro “Morire per qualcosa” di Belisario Naldini si legge:
“Non saprei qui commentare le reazioni dei nostri soldati a questa inattesa notizia. Penso possa significare qualcosa il pianto che eruppe dagli occhi di molti di quei ragazzi, lo smarrimento che li assalì, il silenzio dei primi minuti nei quali nessuno voleva, o non poteva credere.”
ERAN FATTI COSI'....STORIE DELLA RSI- nasce RSI 008Tra il generale Basso comandante di tutta la divisione “Nembo” dislocata in Sardegna e il comandante della 90 ° divisione tedesca, si pervenne a un accordo affinché non ci si opponesse allo sgombero delle truppe germaniche. Il maggiore Mario Rizzatti allora comandante di Battaglione, rimase profondamente deluso dalla notizia del tradimento perpetrato alla spalle dell’alleato tedesco. Si appartò come se avesse ricevuto un colpo, si tolse il cappello, si vedeva la testa completamente rasata, il viso largo bruciato dal vento e dal sole, chi lo conosceva sapeva che era infuriato: il suo onore gli impediva di obbedire ciecamente a tale esecrabile ordine.
“Mariut” come lo chiamava la madre, era nato a Fiumicello (UD) nel 1892, avrebbe desiderato fare il contadino, lavorare i campi al fianco del padre, ma i genitori vollero farlo studiare e, divenuto maestro elementare esercitò per un breve periodo la sua professione. Intervenuta la prima guerra mondiale, vivendo in territori all’epoca sotto il dominio austro-ungarico, fu arruolato e sarebbe stato costretto a combattere una guerra non sua, se non fosse fuggito grazie all’aiuto del fratello, noto irredentista. Solo nel 1915, quando l’Italia entrò nel conflitto mondiale, si presentò volontario, pronto a farsi onore. Era un uomo coraggioso, ma troppo sincero, per aver criticato l’assurda tattica degli assalti frontali comandati da Cadorna, fu espulso dalla scuola allievi ufficiali di Cormons.
In seguito riammesso, terminò la guerra col grado di Capitano e fu nominato Commissario Prefettizio al suo paese. Si dimise, però, nel 1921 per protesta considerando un vero e proprio furto perpetrato ai danni dei contadini, la manovra del Governo che prevedeva la requisizione dei cereali. Iscrittosi al PNF fu tra coloro che marciarono su Roma. Durante il Regime partecipò fattivamente alle opere di bonifica della “bassa” friulana e alla costituzione di colonie per i meno abbienti: era un entusiasta delle grandi opere che Mussolini stava compiendo durante il ventennio . Nel 1942, nonostante non fosse più un giovanotto, aveva all’epoca compiuto cinquant’anni, fece domanda di ammissione per la scuola paracadutisti di Tarquinia, fu così che la data dell’armistizio lo colse in Sardegna al comando del XII Battaglione della “Nembo”.
Per meglio delineare il carattere di questo uomo così coraggioso e testardo svelo un episodio successo quando, durante la RSI, di ritorno da un corso speciale di addestramento, scrisse una lettera a un’amica in Friuli, in cui raccontando le sue vicissitudini, esprimeva serie critiche verso il Regime e verso il Duce e diceva di “combattere per l’onore della Bandiera e della Patria, non certo per il Governo…” la missiva finì sul tavolo di Mussolini che lo fece convocare dal Capo della sua segreteria particolare, prefetto Dolfin, testimone della vicenda.
Il maggiore Rizzatti giunse a Gargnano insieme ad alcuni suoi ufficiali che non lo abbandonavano un attimo, lo seguivano, lo guardavano con grande affetto e lo spalleggiavano apertamente. Il prefetto gli mostrò la lettera chiedendo spiegazioni, lo osservò attentamente, dal suo sguardo fiero traspariva l’anima di un uomo onesto. Racconta Dolfin che Rizzatti dopo averla riletta disse con molta tranquillità:
“Lo riconosco per scritto tutto di mio pugno: Non ho ho nulla da togliere, né da aggiungere. Se ho compiuto un reato, per aver manifestato quello che penso, sono qui per scontarlo.”
Il prefetto Dolfin parlando con lui, fu ispirato da innata simpatia e, sapendo che il maggiore era un uomo valoroso, volontario di guerra, cercò di capire da cosa fossero motivate le sue lagnanze e lo convinse a scrivere una lettera di scuse in cui esprimere meglio il suo pensiero e le sue ragioni. Trascorsero insieme un’intera notte, in cui Rizzatti, racconta Dolfin :
“scrisse e stracciò una decina di lettere.(…)finalmente consigliato, combinò una lettera che parve possibile. Nulla di straordinario, ma possibile. Eravamo diventati amici”
Nella sua missiva al Duce che conteneva una serie di richieste di materiali, vestiario e armi, si diceva preoccupato per le condizioni dei suoi uomini che continuavano a morire
“…spariamo perché nessuno abbia il diritto di dire che gli Italiani sono tutti vigliacchi! Conosciamo soltanto l’Italia e credo che questo dovrebbe bastare.”
Mussolini, leggendo la lettera che non era né affettuosa, né cordiale, ma sincera, ebbe a pronunciare le seguenti parole
“Questo Rizzatti, cocciuto, testardo, è un Italiano! Uno di quegli italiani che sanno ancora scrivere la storia.”
Poco si sbagliava il Duce nel giudicare quel friulano, pervicace come la gente della sua terra, che dopo la notizia dell’armistizio, aveva convocato i comandanti di compagnia del suo Battaglione e in maniera esplicita, come era solito esprimersi, aveva chiesto loro
“Preferite la comodità di rimanere e il disonore, oppure il sacrificio e il dovere di difendere l’onore militare?”.
Era amato come un padre dai suoi giovani soldati, i suoi occhi erano talmente chiari che sembravano emettere un bagliore metallico mentre li guardava, ma erano occhi buoni e si inumidirono quando, rispondendo alla sua domanda, tutti gli ufficiali scelsero di restare al suo fianco con la truppa e di lasciare la Sardegna a testa alta insieme ai tedeschi.
Al contrario, molti dei paracadutisti rimasti agli ordini di chi aveva obbedito si sentirono dei vili e dei traditori. Ricordando un’incursione aerea degli americani avvenuta su popolazione civile inerme, il tenente Carlo Bianchi racconta nel suo libro “Un’isola che si chiama Sardegna”:
”…Mi mandarono a Gonnosfanadiga, un paesetto ai piedi del monte Linas, che proprio non si prestava a infondere sentimenti filo americani con il ricordo ancora vivo del tragico carosello aereo che aveva fatto, nelle sue strade prese d’infilata, più di cento vittime, per la maggior parte fanciulli.”
Nel 1944 dopo lo sbarco di Anzio, si rese necessario l’invio al fronte di Nettuno del Reggimento Paracadutisti, 1500 uomini in tutto, e il comando venne affidato al maggiore Rizzatti che, arrivato sul fronte, trovò in pieno corso l’offensiva del nemico.
La sera del 3 giugno giunto a Castel di Decima, attestò il comando in una grotta, sulla via principale che portava al castello e tenne rapporto coi suoi ufficiali per organizzare una linea di difesa. Erano le sei del mattino successivo quando prese inizio un attacco di sorpresa da parte di autoblindo inglesi, che nel giro di qualche ora erano giunti a pochi metri dalla sua posizione. Il maggiore Rizzatti avendo capito che se non fosse riuscito a fermarli la situazione per i suoi parà, circondati da due lati, sarebbe divenuta disperata, in un coraggioso tentativo, seguito dal suo porta ordini Massimo Rava di soli diciotto anni, uscì dalla grotta, iniziò a sparare col mitra e a tirare bombe a mano contro il mezzo blindato fermo davanti all’ingresso. Fu raggiunto in pieno da una raffica nemica, cadde a terra e morì insieme al suo fedele soldato e a due sottufficiali germanici .ERAN FATTI COSI'....STORIE DELLA RSI- nasce RSI 012
L’eroico gesto del comandante diede il la ai paracadutisti che, guidati dal capitano Sala, sferrarono il loro contrattacco e a colpi di “panzerfaust” distrussero le sei autoblinde sulla strada, fermando l’azione nemica.
Ebbero così il tempo di battere in ritirata e riparare verso Roma, ma non quello di dare degna sepoltura ai loro caduti. Abbandonando il fronte li avevano lasciati nella grotta composti uno accanto all’altro avvolti in teli da tenda. Gli abitanti del luogo, dopo qualche giorno, li seppellirono alla meno peggio nel terreno antistante la grotta, ma il medico del paese, giunti gli alleati, forse per ingraziarsi i “liberatori”, adducendo motivi sanitari, fece disseppellire i corpi e, versatavi sopra della nafta, li incendiò. I resti, senza fossero restituite piastrine, né documenti di riconoscimento, furono trasportati a Roma con l’identificativo “sconosciuto” e gettati in una fossa comune al Verano.
Morto eroicamente e dimenticato da tutti voglio ricordare il maggiore Rizzatti attraverso le parole del figlio, sergente Alessandro Rizzatti, che, passando al seguito del suo battaglione in ritirata dal fronte, lo aveva incontrato poche ore prima:
“Il colloquio è breve: “Come va?” Rispondo: “Credo non vada tanto bene.” “Stai attento sai, ricordati di sparare per primo” dice mio padre accarezzandomi, poi prosegue: “Avanti, in bocca al lupo.” Lo saluto sull’attenti per l’ultima volta.”
I paracadutisti si distinsero sempre per il portamento perfetto e finita la guerra, fra tutti i prigionieri, furono quelli che avevano le uniformi più curate e in mano nemica furono uniti al punto da conservare la dignità di appartenenza al loro reparto anche quando venivano separati. Durante un interrogatorio un ufficiale badogliano chiese a un parà cosa fosse quel nastro appeso al braccio e lui con orgoglio rispose “Ciò che resta dell’Onore d’Italia”
Molti degli ufficiali sopravvissuti sopportarono il carcere e il campo d’internamento di Coltano, fra questi il capitano Gino Bonola comandante della Compagnia comando Reggimentale del “Folgore” che in quei tristi giorni scrisse le parole di una canzone cantata da tutti i prigionieri:
“…Se l’ira cieca, se l’odio tetro,
al tuo passare ti segna a dito,
rispondi senza guardare indietro

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1 commento:



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