lunedì 13 agosto 2018

Livorno e Tombolo: pagine di storia da ricordare

 
 
di Gianluca Padovan
 
Il libro «Tombolo. Disertori contrabbandieri signorine sciuscià: un’avventura del dopoguerra» è scritto Aldo Santini e pubblicato nel 1990 dalla RCS Rizzoli. La quarta di copertina disincanta il possibile lettore sull’effettiva sostanza del contenuto, tutt’altro che roseo: «Tempo di miseria / voglia di ricchezza / un paradiso di violenza: / e Tombolo divenne l’inferno del dopoguerra italiano». Un quadro, questo, purtroppo veritiero.
Di facile lettura, questo lavoro di Santini propone pezzi di cronaca riportata, fatti e fattacci descritti con semplicità, accessibili alla comprensione di chiunque, con note storiche gettate lì, come al porto si getta la lisca di pesce al gatto randagio di turno. Ma ricorda. Ad ogni buon conto ha il pregio di ricordare a noi, menti distratte, un pezzetto di storia patria che avremmo preferito dimenticare. Così come i tanti che preferiscono ignorare le battaglie perdute per colpa di chi ha tradito e vivere meglio con una coscienza pronta a vendersi al migliore offerente.
Cosa c’è da dire su Tombolo? Ben poco. I soldati «alleati», ma in questo caso sostanzialmente gli statunitensi, eleggono Livorno a porto militare e vi scaricano migliaia di tonnellate di materiali di ogni genere. Munizioni, viveri, attrezzature logistiche e in quantità tale che a momenti non sanno più dove metterli. Poi la guerra cessa, ma non l’occupazione. Così il dramma si scatena.

Riporterò qui e là brani di Santini, affinché in ognuno di noi possano stimolare il desiderio di approfondire questo o quell’altro argomento. Solo riprendendo i tasselli della Storia, pulendoli della polvere e dal sudiciume accumulatisi per incuria, per usura, per signoraggio, per tradimento, o peggio ancora per ignoranza, potremo avere un puzzle, nel senso di “rompicapo”, sempre più chiaro e sempre meno “oscuro”, o “latente”.
Antefatti. Il primo passo per la «liberazione dell’Italia» avviene nel 1943 con lo sbarco «alleato» in Sicilia. Oggi, ad esempio, si tende a rimuovere in senso lato e in senso stretto il ricordo dei militari italiani presi prigionieri dagli «alleati statunitensi», allineati contro qualche muro o il parapetto di una trincea ed ammazzati. Prosegue così il calvario italiano della Seconda Guerra Mondiale, che porterà qualche anno più tardi ai fatti di Tombolo. A Gela l’ouverture della sinfonia è così succintamente riassunta da Pedriali: «L’uccisione ad opera di soldati americani di una settantina di militari italiani catturati nella zona di Biscari nel luglio 1943 – come ricordato da Giuseppe F. Ghergo in “Storia militare n. 133, Ottobre 2004 – costituisce un esempio dei purtroppo non infrequenti malvagi comportamenti, che infrangono, non solo le convenzioni internazionali, ma anche quelle regole – diciamo così – di “cavalleria” e di reciproco rispetto che dovrebbero esistere fra soldati di paesi cosiddetti “civili”» (Pedriali F., Gela, luglio 1943, in Storia militare, n. 136, anno XIII, gennaio, Parma 2005, pp. 54-55).
I bombardamenti anglo-americani s’intensificano a partire dal 1943 e le città italiane sono l’obiettivo primario, nella messa in atto del programma «terror bombing». Un altro aspetto, tropo spesso sottaciuto, è quello del processo di deculturazione del vinto. In questo caso del Popolo Italiano. Tale processo parte proprio dalla distruzione del patrimonio storico, artistico e monumentale. Poi, fame e miseria indotte, fanno il resto. I cosiddetti «fenomeni» non sono disgiunti e, soprattutto in una guerra moderna, nulla è lasciato al caso, come taluni « prezzolati soloni da poltrona» pretenderebbero di sostenere, negando recisamente il disegno globale, chiaro e programmato, per l’annientamento dell’Europa.
A proposito della distruzione dei nostri monumenti è bene ricordare quanto scrive, ad esempio, Arianna Spinosa: «Con lo sbarco degli Alleati a Salerno il 9 settembre, il processo di liberazione dall’occupazione tedesca nel territorio posto al confine delle regioni Lazio e Campania si caratterizza per l’acredine con la quale s’infierisce sulle popolazioni e su tutto il patrimonio costruito. Di fatto la guerra si svolge in questa parte della penisola per diversi mesi – dal settembre del 1943 al maggio del 1944 – in concomitanza con l’evolversi degli avvenimenti storici, noti come le “battaglie di Cassino”, registrando ampie devastazioni fino alla totale cancellazione delle più importanti presenze monumentali» (Spinosa A., Il territorio a ridosso della Linea Gustav durante la Seconda Guerra Mondiale. Danni bellici e ricostruzione nel Basso Lazio, in de Stefani L. -a cura di- Guerra monumenti ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale, Marsilio, Venezia 2011, pp. 421-433).
Esaminando con la massima serenità i dati di fatto, ovvero ciò che realmente è accaduto nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, occorrerebbe effettivamente scrivere la Storia di quel periodo. Già, perché, piaccia o meno, parlare di pane per focaccia non è descrivere con onestà che cosa si sia servito al desco. Inoltre, perché sottacerlo, ad oggi esistono sul suolo italiano ancora un centinaio di basi militari americane, pertanto dovrei dedurne che la guerra, di fatto, non è ancora terminata. A questo proposito inviterei, chi ne ha voglia, di leggere l’articolo Caporetto: vittoria mancata della massoneria, da me scritto e pubblicato, qualche settimana fa, su «EreticaMente».
«Segnorine!» Così recitava una canzonetta in voga all’epoca: «Povera Italia e poveri italiani / in mezzo al pianto e alle rovine / è tutto in mano agli americani / principiando dalle “segnorine”! / Di tutto loro son corredati / la moneta hanno in abbondanza / e con caramelle e cioccolata / la più onesta donna è conquistata!» (Santini A., Tombolo, Rizzoli, Milano 1990, p. 8). È la canzonetta di un dramma: quello della miseria e della fame. Quasi cinque anni di guerra e ventidue mesi di Campagna d’Italia da parte degli «alleati» (statunitensi, inglesi, francesi, marocchini, ebrei in unità omogenee, polacchi, neozelandesi, italiani dei Gruppi di Combattimento e perfino -per un breve periodo- russi in qualità di piloti d’aviazione, nonché altri ancora) hanno ridotto isole e penisola ad un territorio devastato, affamato e diviso.
Più o meno ogni esercito dei tempi antichi e recenti ha al suo seguito le “vivandiere”. Ogni truppa d’occupazione recluta, per così dire, le dispensatrici d’amore tra le derelitte che nella guerra hanno perso ogni cosa, o che nelle truppe d’occupazione vedono la possibilità, almeno, di poter mangiare due pasti al giorno. La Seconda Guerra Mondiale in Italia porta la distruzione materiale e pure qualcosa di peggio: quella morale. Come dice Santini: «Erano stati i soldati americani a chiamarle “segnorine”, fin dallo sbarco di Salerno, con voce strascicata e dolce, spesso implorante, a volte minacciosa, per chiedere ciò che gli eserciti del passato pretendevano con la forza. “Segnorina” e “paisà”, insieme a “okay”, “emmepì”, “coffi”, erano state le prime parole del glossario che aveva sostituito quello tedesco dell’occupazione, brutale e funereo, “kaputt”, “verboten”, “polizei”, “kommandantur”, “heil Hitler”, “spazieren”. E da tre anni le “segnorine” costituivano ormai l’aspetto più vistoso, se non offensivo, o comunque esasperante, della permanenza americana a Livorno» (Ivi).
Le parole di Santini, magari anche di parte, nella loro ingenuità e nel loro stile giornalistico talvolta trasandato, mi fanno venire alla mente ben altre cose. Ben altri comportamenti. Tornano alla mente i pochi e scarni ricordi di guerra che mia madre m’ha riportato. Frasi brevi ma vivide, di chi la guerra l’ha vissuta, subita e non desidera ricordarla. Un giorno parlò dell’occupazione tedesca di Verona, la sua città natale, in questi termini: «I soldati tedeschi erano quasi ad ogni angolo, con le armi pronte. Facevano impressione, nel loro essere soldati. Mi sentivo e ci sentivamo tutti osservati e squadrati quando camminavamo per le vie della città. Ci sentivamo intimoriti dalla loro presenza. Eppure, soprattutto noi donne, sapevamo di poter circolare indisturbate, perché nulla di male ci sarebbe accaduto».
Il «Decimo Porto». La Quinta Armata del generale statunitense Clark occupa Livorno nel mese di luglio del 1944: «Così Livorno cambiò nome. Divenne Leghorn, che poi deriva da El-Ghorn, come gli arabi la chiamavano fin dall’epoca in cui la città toscana era la base dei cavalieri di Santo Stefano e della flotta che combatteva la pirateria saracena, un’autentica Algeri cristiana dove i mussulmani in catene erano migliaia e lavoravano alle opere pubbliche, da schiavi». (Ibidem, p. 10). Ma Livorno è per i “liberatori” il Decimo Porto. Perché?
Ancora una volta Santini c’informa: «Perché questo era il nome assunto da un reparto del Genio Usa per le opere marittime d’oltre oceano. Decimo Porto era stata Biserta in Tunisia. Decimo Porto era stata Palermo dopo lo sbarco in Sicilia. Decimo Porto era stata Napoli dal 1943 all’agosto 1944. E Decimo Porto fu Livorno dal 1° settembre 1944. Napoli fu trasferita ai genieri del Sesto Porto. E in seguito a quelli dell’Ottavo Porto. Decimo Porto era lo scalo strategico numero uno degli Alleati nel Mediterraneo. Decimo Porto significava sbarchi in continuazione di armi, munizioni, automezzi e vettovaglie. Decimo Porto significava abbondanza, ricchezza, sprechi. Significava mercato nero. Significava ruberie, corruzione, rapine a mano armata, assalti dinamitardi» (Ibidem, pp. 10-11). In buona sostanza a Livorno e dintorni vi era talmente tanta abbondanza di materiali che gli stessi soldati americani ne approfittavano. Da soli e con la malavita, sia locale sia d’importazione, vengono organizzate periodiche rapine ai depositi, così da poter garantire un cospicuo giro d’affari. E con gli affari sporchi e i soldi facili s’innesca il largo giro della prostituzione. Ma a Tombolo, alle porte di Livorno, s’innesca anche ben altro.
Così prosegue Santini: «Decimo Porto era diventato una gigantesca calamita per trafficanti, avventurieri, disperati, avanzi di galera, prostitute. Con le salmerie della Quinta Armata arrivarono a Livorno le “segnorine”. E gli sciù-scià. I livornesi ne sentirono parlare per la prima volta. Non sapevano niente di quello che era accaduto a Napoli. Curzio Malaparte non aveva ancora scritto La pelle, il libro che sarebbe uscito nel 1949. Ma seppero subito di Tombolo, la pineta boscosa oltre il Calambrone, serrata tra il mare e la via Aurelia, che giungeva fin verso Pisa (…). La pineta fu trasformata in un enorme deposito della sussistenza alleata» (ibidem, p. 12). Ma non solo: «Le “segnorine” erano il pepe e il sale, la paprika, di Tombolo. Gli dettero la fama ambigua di “paradiso proibito”» (Ibidem, p. 15).
Le due facce della medaglia chiamata sconfitta. La sconfitta è una moneta. Una moneta che non è di chi ha perduto, ma del vincitore. Su di una faccia, a Tombolo, vi era la «segnorina». Al seguito dell’esercito vincitore, oppure attirata dalle campagne devastate o da borghi e città sventrati dai bombardieri, la ragazza giungeva laddove il cibo e i soldi c’erano. O con un protettore o con la protettrice, si cominciava il «lavoro». Ecco la storia di Pia, una romana che aveva seguito un sergente «gringo», poi dissoltosi: «Per sbarcare il lunario si era affidata alla signora Fernanda, che conosceva un mestiere solo per le sue protette. La Pia non sapeva se tornare a casa o rimanere con la Fernanda che la riempiva di discorsi tipo “ma dove stai meglio di qui?”, “dove vuoi andare? A casa tua? Ma là morirai di fame. Ti tratteranno da mignotta. Qui sei una signora, non ti manca niente, puoi mettere da parte tanti soldi”. Quello di cui non parlava era la contrazione della malattie veneree, come la sifilide, ben presente tra quelle che facevano «il mestiere». A proposito, la parola «gringo» è la contrazione di «green go!», ovvero «uomini in verde andatevene a casa». Gli statunitensi, e soprattutto quelli in divisa militare verde, si sono sempre fatti amare in America Centrale e in quella del Sud.
Sull’altra faccia della moneta vi era la cornucopia, il corno dell’abbondanza. Cornucopia è una parola derivata dal latino: «simbolo della fertilità, raffigurato colmo di frutti e circondato d’erbe e di fiori. Nell’antichità classica era attributo di dei e dee ritenuti dispensatori dei beni della terra, e, tra i Romani, delle divinità cui si attribuiva un significato di prosperità e di augurio» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. I, Roma 1986, p. 958). In Italia e in Toscana la cornucopia americana e era rappresentata dai loro depositi, dalla «Leghorn» conquistata. L’area occupata dal «bengodi» era enorme: «Tombolo non si limitava alla macchia, alla pineta, al bosco. Se per Tombolo intendiamo l’area del proibito, con le varie specialità che erano fin troppo note, allora Tombolo comprendeva anche l’abitato di Tirrenia e mezza Livorno. Dovunque suonavano il “bughi-bughi” per far ballare le “segnorine” e i loro conquistatori, là era Tombolo» (Santini, op. cit., p. 29).
La cornucopia dispensava il suo contenuto in modo semplicissimo: tale contenuto veniva rubato e rivenduto dagli stessi militari americani che avrebbero dovuto custodirlo. Vi era la complicità del sottobosco malavitoso italiano, certamente, ma tutto partiva dall’occupante. Anche ai più ottusi dovrebbe suonare il campanello del risveglio, ovvero giungere a capire che il caos nella sua più ampia accezione, una volta instaurato, si rigenera da solo: non vi sarà più unità di pensiero, meno che meno d’azione. Così si governa un popolo occupato, senza che nemmeno ne abbia la coscienza. Questo non scusa tale popolo, perché il sonno della mente non è mai scusabile.
La distribuzione dei pani e dei pesci. Quell’abbondanza da accattoni era pagata, ovviamente, a caro prezzo, perché non guadagnata con il lavoro. Essa alimentava tutto ciò che poteva essere contrario all’educazione del cittadino e al mantenimento di uno Stato degno di tale nome e alla millantata «repubblica fondata sul lavoro».
A guerra finita da un anno «Tombolo» è in piena attività. I depositi e la Fortezza Nuova, eletta a deposito militare, subiscono continui furti. Si tenta di respingere i continui assalti a colpi di fucile e di mitragliatrice, ma le ruberie proseguono e si tratta di tonnellate di materiale che misteriosamente e miracolosamente s’involano. Qualcuno comincia a chiedersi che cosa, in realtà, accada: «I camion (con la refurtiva a bordo. N.d.A.) prendevano il largo in pieno giorno con la complicità di tutti, ufficiali, autisti, sentinelle, magazzinieri. Raggiungevano il luogo dell’appuntamento con i ricettatori, scaricavano la merce, qualche camion rientrava, qualche altro veniva venduto assieme alla refurtiva, e l’autista disertava. Poi, la notte, si accendeva la luminaria degli spari per giustificare la grande rapina» (Ibidem, p. 74).
Così prosegue il giornalista: «Le ruberie alla Fortezza Nuova, nel cuore della vecchia Livorno medicea, ci hanno fatto parlare dei disertori americani. Era proprio quella dei disertori la piaga di Tombolo. Disertori bianchi ma in primo luogo neri. Disertavano perché erano stanchi della disciplina militare. Perché avevano rubato, o rapinato, o preso a pugni un superiore, o perché avevano sparato a qualcuno e non volevano finire sotto processo. Perché credevano di potersi arricchire depredando sistematicamente i magazzini della Quinta Armata. Tombolo era un rifugio sicuro e una piattaforma comoda per le loro scorrerie La M.P. (Military Police, polizia militare americana. N.d.A.) non osava addentrarsi nel folto della pineta, dove il bosco era una trappola per gli indesiderabili. I disertori vivevano con le “segnorine” più sfortunate, o più anziane, meno appetibili, quelle che non avevano trovato una casa a Livorno o a Pisa, e degli amanti fissi, degli ufficiali pronti ad accoglierle nelle loro palazzine di Tirrenia. E i loro alleati naturali erano gli sciù-scià, impareggiabili elementi di raccordo con i ricettatori, con i trafficanti del mercato nero, e bravissimi a segnalare gli arrivi degli sconosciuti» (Ibidem, pp. 76-77).
I retroscena non mancano: «Il segretario di Stato, George Marshal, ha già annunciato il suo piano Erp, l’European Recovery Program, che nel 1948 assumerà il nome di Piano Marshall, diretto “contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos in Europa” ma anche e soprattutto contro il comunismo. Il varo della politica atlantica con il relativo soccorso economico in dollari e materie prime da una parte, seguito dalla nascita del Cominform dall’altra, sta conducendo alla guerra fredda, ai blocchi contrapposti. I moti di razzismo sociale e di intolleranza possono servire molto bene al disegno comunista. L’approvazione di Togliatti ai teppisti livornesi, se di teppisti davvero si tratta, va inquadrata in questo disegno. Le sinistre soffiano sul fuoco dello scontento. L’ondata antiamericana ingrossa. “Yankee go home” scrivono ogni notte le squadre comuniste le squadre di Livorno. Di giorno vengono cancellate le scritte intorno alla sede del Comando americano. Ma l’indomani ricompaiono a caratteri più alti e più marcati. La psicosi di un colpo di Stato all’insegna della falce e del martello sta assumendo toni isterici. Ma una cosa è parlarne oggi, un’altra era vivere allora, giorno per giorno gli sviluppi di una situazione che montava pericolosamente, gonfiata dagli interessi politici delle forze in campo» (Ibidem, pp. 89-90).
Ma, anche qui, occorre vedere bene e fino in fondo quale situazione complessa si sia creata, dal momento che si è territorio d’occupazione straniera. E continuiamo a far parlare Santini: «La politica non guarda tanto per il sottile. E se è vero che Tombolo, i negri, la “segnorine”, le sparatorie intorno ai depositi, l’occupazione delle case e degli alberghi, servono ai comunisti e ai socialisti per attaccare i democristiani e cercare di guadagnare voti, è anche vero che l’antiamericanismo viscerale delle sinistre e le loro dimostrazioni contro tutti i guai provocati dalla permanenza dell’esercito americano, che a Livorno, a Pisa, a Viareggio, nella Toscana litoranea, si compendiano in una sola parola, “Tombolo”, servono ai partiti filoamericani per gonfiare lo spettro del colpo di Stato rosso e ottenere altri aiuti da Washington. Viveri per placare la fame del popolo, e armi per difendere lo Stato democratico da un’insurrezione temuta e fatta balenare da due anni» (Ibidem, p. 108).
Le truppe americane di colore. Pagina dopo pagina il libro di Santini assume un tono e soprattutto un colore diverso. Si assaggiano i retroscena della cosiddetta democrazia americana e degli insoluti problemi creati dalla Guerra Civile americana, o meglio dalla Guerra di Secessione di metà Ottocento (1861-1865).
La 92a Divisione di Fanteria americana, chiamata «Divisione Buffalo», era composta per lo più da americani di colore e da abitanti degli stati del sud, come la Louisiana: «La Buffalo era una divisione di fanteria “segregata”, composta soltanto da negri, oppure da bianchi schedati come negri, condannati alla morte civile, loro e i loro discendenti» (Ibidem, p. 138). Mi si lasci ricordare, a mo’ d’inciso, che il 26 dicembre 1944 le truppe italiane, con la Divisione alpina Monterosa, unitamente alle truppe tedesche della 148adivisione, attaccano le truppe americane e le ributtano indietro di una ventina di chilometri. Tra di esse vi era anche la «Divisione Buffalo».
Santini raccoglie così la voce di un attore di colore del Michighan, John Kitzmiller: «Molti negri che hanno disertato e che a Tombolo sono braccati dalla M.P., che hanno trasformato Tombolo in una specie di giungla, e che ormai sono dei fuorilegge, perché hanno rubato, hanno rapinato, hanno ucciso, hanno violentato, perché hanno tradito la bandiera americana, e tutti, sicuramente, finiranno male, in galera o sotto un palmo di terra, in fondo sono vittime del regime degli Stati Uniti. Le trasmissioni della “Voce dell’America”, che ascoltate anche voi Italiani, ripetono che negli Stati Uniti c’è una effettiva democrazia, che la dignità umana è garantita a tutti i livelli, che tutti i cittadini, qualunque sia il colore della loro pelle, godono uguali diritti. Non è vero niente» (Ivi).
Questi brevi stralci dovrebbero indurre noi, oggi, dopo settant’anni, a profonde riflessioni sulla nostra condizione attuale e sul nostro futuro immediato.
Tra Pound e Arar. L’Arar era l’Azienda Rilevamento Alienazione Residuati ed ebbe la sua parte nelle faccende livornesi, toscane e di tutt’Italia, nel sordido dopoguerra. A partire dal 1945 da azienda annessa alle Ferrovie dello Stato divenne un ente parastatale. Ma non si trattava solo di alienare armi, bensì tutto quanto di superfluo rimaneva dopo la guerra in termini di materiale e del più svariato. Inizialmente, tra gli articoli più ambiti, vi erano le gomme d’auto e di camion, ma ben presto ci si accorse che qualcosa non marciava per il verso giusto: «Con l’Arar nacquero le prime corruzioni di Stato. Oggi non destano alcuna meraviglia, ma allora, freschi come eravamo di democrazia, si pensava che le mani dei nostri governanti, dei nostri amministratori, dei rappresentanti delle associazioni e degli enti pubblici, fossero pulite, e che lo rimanessero nel tempo. Pura illusione» (Ibidem, p. 216).
Forse che il malcostume era davvero alle porte, come diceva Ezra Pound ai microfoni italiani? Santini ci parla anche di lui: «Gli americani avevano preso Pound il 3 maggio, dopo aver liberato Rapallo, la cittadina in cui il poeta dell’Idaho viveva dal 1924. Lo avevano accusato di alto tradimento. E sembrava che il suo destino fosse di morire impiccato. Qual era stata la sua colpa? Pound non si era limitato a chiamare Mussolini “il vecchio Muss”, a vedere nel fascismo “la forza primitiva che avrebbe riscattato il mondo dalle sue lordure” (…). Da radio Roma aveva letto, o fatto leggere, quattrocento cartelle dattiloscritte, sparando contro tutto e tutti. Contro l’alta finanza americana “responsabile di tutti i massacri della nostra epoca”, contro gli ebrei che definiva “vermi giudei”. La sua rubrica aveva per titolo “Vi parla lo zio Ez” e più volte inneggiò Hitler che “stava rinnovando il mondo dalle fondamenta” (…). Quando “zio Ez” fece di Rapallo “l’ombelico del mondo” (ma lui pronunciava “umbelico”), l’usura divenne la sua ossessione. Lo ossessionava l’esosità del sistema bancario americano ed europeo. Affermava che gli interessi bancari sono simili all’usura, di diverso dall’usura hanno soltanto il nome, e che questa usura è imposta dalla lobby ebraica per influenzare il potere politico, economico e industriale dell’Occidente e ottenere un unico, terribile risultato: accendere una nuova guerra» (Ibidem, pp. 131-133).
La rivolta del Popolo. Verso la metà del 1946 la gente comune, il Popolo, comincia ad averne abbastanza. Nei mesi successivi e soprattutto, nel 1947 comincia la caccia alle «segnorine», ai loro protettori e alla malavita che guida il gioco. Ma sono esternazioni sporadiche, talvolta di facciata. Il cancro da rimuovere è alla base, ben oltre la portata dei semplici cittadini che lavorano: «Le leggi erano state mandate in vacanza da una guerra che aveva portato il fronte in tutto il territorio del paese. Il dopoguerra era troppo profumato di dollari. E la ricchezza improvvisa dei trafficanti, degli avventurieri, umiliava la povertà della gente comune. Le “segnorine” che ostentavano la loro scelta di vita e i loro piccoli, ingenui lussi, costituivano la provocazione più vistosa di quegli anni tumultuosi» (Ibidem, p. 70).
Ma non è solo la città di Livorno ad averne abbastanza e il 25 agosto 1946 Mestre si ribella: «La notte tra il venerdì e il sabato, a Mestre, ci sono stati dei gravi disordini. Centinaia di giovani hanno dato la caccia alle “segnorine” che si accompagnavano con i soldati inglesi dell’Ottava Armata. Le hanno prese a schiaffi, le hanno spogliate, le hanno obbligate a correre nude nelle strade del centro. I soldati hanno reagito, difendendole come potevano. I disordini sono degenerati. È intervenuta la polizia, sono arrivati i camion militari per imbarcare soldati e ragazze e sottrarli alla furia popolare. La polizia ha ovviamente preso posizione contro i civili. E i civili hanno aperto una sassaiola contro militari e agenti. Sassaiola è un termine generico. Sono state lanciate pietre ma anche paletti, zappe, badili e mattoni presi da un cantiere di costruzioni. Un mattone ha centrato il parabrezza di un camion mandandolo in frantumi. L’autista ha perduto il controllo del pesante veicolo che è precipitato in un canale. L’autista e un altro soldato sono riusciti a salvarsi. Decine di contusi sono stati ricoverati negli ospedali dell’Ottava Armata e in quello municipale di Mestre. Gli scontri e la caccia alle “segnorine” sono ripresi con più acredine la domenica. Ed è andata molto peggio. Si è sparato» (Ibidem, p. 69).
Quanti civili sono stati uccisi dalla Militry Police? Quanti sono rimasti feriti? Quanti tradotti in galera? L’invito, a chi ora legge, è di andarsi a documentare sui fatti che vanno dal 1943 al 1945, nonché dell’immediato dopoguerra, in tutta Italia. Si vada a sfogliare i giornali dell’epoca, si legga e si trascriva. Ciò che accadde non va scordato.
La «liberazione alleata». Ecco ulteriori stralci dal libro Tombolo, su cui occorrerebbe ulteriormente riflettere. Su cui occorrerebbe stendere ulteriori ricerche, sollevando finalmente il telo di menzogne stesoci sopra dalla fine della guerra ai nostri giorni.
«Nell’isola d’Elba l’arrivo delle forze liberatrici fu terrorizzante. L’Elba non fu liberata ma presa d’assalto e saccheggiata con tutte le violenze che accompagnano di regola i saccheggi. E il 17 giugno 1944, dopo un bombardamento aero-navale, il Comando delle operazioni nel Mediterraneo mandò i reparti marocchini e senegalesi dell’esercito gollista a conquistare l’isola napoleonica (…) e quando entrarono nei primi borghi ripristinarono un antico diritto di guerra: fare piazza pulita di tutto quello che trovavano, cose e persone» (ibidem, p. 20). E ancora, più avanti: «Altro episodio. In val di Denari un contadino, quando vide che i marocchini stavano per impadronirsi della figlia nascosta nel vigneto, sparò contro i soldati due fucilate a pallettoni dandole modo di scappare. Fu subito ammazzato sul posto, falciato dai mitra. Per due giorni, il 17 e il 18 giugno, le truppe di colore del generale Juin imperversarono sfrenatamente, da un capo all’altro dell’isola. Gli elbani hanno sempre testimoniato malvolentieri sui saccheggi e sulle violenze subiti. Non hanno protestato. Non hanno accusato. Negli anni dell’immediato dopoguerra si sono limitati a non riconoscere la festa della Liberazione» (Ibidem, p. 21).
Cos’altro aggiungere?

http://www.ereticamente.net/2014/06/livorno-e-tombolo-pagine-di-storia-da-ricordare.html


1 commento:



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