di Gianluca Padovan
Il libro «Tombolo. Disertori contrabbandieri signorine sciuscià: un’avventura del dopoguerra»
è scritto Aldo Santini e pubblicato nel 1990 dalla RCS Rizzoli. La
quarta di copertina disincanta il possibile lettore sull’effettiva
sostanza del contenuto, tutt’altro che roseo: «Tempo di miseria / voglia
di ricchezza / un paradiso di violenza: / e Tombolo divenne l’inferno
del dopoguerra italiano». Un quadro, questo, purtroppo veritiero.
Di
facile lettura, questo lavoro di Santini propone pezzi di cronaca
riportata, fatti e fattacci descritti con semplicità, accessibili alla
comprensione di chiunque, con note storiche gettate lì, come al porto si
getta la lisca di pesce al gatto randagio di turno. Ma ricorda. Ad ogni
buon conto ha il pregio di ricordare a noi, menti distratte, un
pezzetto di storia patria che avremmo preferito dimenticare. Così come i
tanti che preferiscono ignorare le battaglie perdute per colpa di chi
ha tradito e vivere meglio con una coscienza pronta a vendersi al
migliore offerente.
Cosa
c’è da dire su Tombolo? Ben poco. I soldati «alleati», ma in questo caso
sostanzialmente gli statunitensi, eleggono Livorno a porto militare e
vi scaricano migliaia di tonnellate di materiali di ogni genere.
Munizioni, viveri, attrezzature logistiche e in quantità tale che a
momenti non sanno più dove metterli. Poi la guerra cessa, ma non
l’occupazione. Così il dramma si scatena.
Riporterò
qui e là brani di Santini, affinché in ognuno di noi possano stimolare
il desiderio di approfondire questo o quell’altro argomento. Solo
riprendendo i tasselli della Storia, pulendoli della polvere e dal
sudiciume accumulatisi per incuria, per usura, per signoraggio, per
tradimento, o peggio ancora per ignoranza, potremo avere un puzzle, nel
senso di “rompicapo”, sempre più chiaro e sempre meno “oscuro”, o
“latente”.
Antefatti.
Il primo passo per la «liberazione dell’Italia» avviene nel 1943 con lo
sbarco «alleato» in Sicilia. Oggi, ad esempio, si tende a rimuovere in
senso lato e in senso stretto il ricordo dei militari italiani presi
prigionieri dagli «alleati statunitensi», allineati contro qualche muro o
il parapetto di una trincea ed ammazzati. Prosegue così il calvario
italiano della Seconda Guerra Mondiale, che porterà qualche anno più
tardi ai fatti di Tombolo. A Gela l’ouverture della sinfonia è così
succintamente riassunta da Pedriali: «L’uccisione ad opera di soldati
americani di una settantina di militari italiani catturati nella zona di
Biscari nel luglio 1943 – come ricordato da Giuseppe F. Ghergo in
“Storia militare n. 133, Ottobre 2004 – costituisce un esempio dei
purtroppo non infrequenti malvagi comportamenti, che infrangono, non
solo le convenzioni internazionali, ma anche quelle regole – diciamo
così – di “cavalleria” e di reciproco rispetto che dovrebbero esistere
fra soldati di paesi cosiddetti “civili”» (Pedriali F., Gela, luglio 1943, in Storia militare, n. 136, anno XIII, gennaio, Parma 2005, pp. 54-55).
I
bombardamenti anglo-americani s’intensificano a partire dal 1943 e le
città italiane sono l’obiettivo primario, nella messa in atto del
programma «terror bombing». Un altro aspetto, tropo spesso
sottaciuto, è quello del processo di deculturazione del vinto. In questo
caso del Popolo Italiano. Tale processo parte proprio dalla distruzione
del patrimonio storico, artistico e monumentale. Poi, fame e miseria
indotte, fanno il resto. I cosiddetti «fenomeni» non sono disgiunti e,
soprattutto in una guerra moderna, nulla è lasciato al caso, come taluni
« prezzolati soloni da poltrona» pretenderebbero di sostenere, negando
recisamente il disegno globale, chiaro e programmato, per
l’annientamento dell’Europa.
A
proposito della distruzione dei nostri monumenti è bene ricordare
quanto scrive, ad esempio, Arianna Spinosa: «Con lo sbarco degli Alleati
a Salerno il 9 settembre, il processo di liberazione dall’occupazione
tedesca nel territorio posto al confine delle regioni Lazio e Campania
si caratterizza per l’acredine con la quale s’infierisce sulle
popolazioni e su tutto il patrimonio costruito. Di fatto la guerra si
svolge in questa parte della penisola per diversi mesi – dal settembre
del 1943 al maggio del 1944 – in concomitanza con l’evolversi degli
avvenimenti storici, noti come le “battaglie di Cassino”, registrando
ampie devastazioni fino alla totale cancellazione delle più importanti
presenze monumentali» (Spinosa A., Il territorio a ridosso della Linea Gustav durante la Seconda Guerra Mondiale. Danni bellici e ricostruzione nel Basso Lazio, in de Stefani L. -a cura di- Guerra monumenti ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale, Marsilio, Venezia 2011, pp. 421-433).
Esaminando
con la massima serenità i dati di fatto, ovvero ciò che realmente è
accaduto nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, occorrerebbe
effettivamente scrivere la Storia di quel periodo. Già, perché, piaccia o
meno, parlare di pane per focaccia non è descrivere con onestà che cosa
si sia servito al desco. Inoltre, perché sottacerlo, ad oggi esistono
sul suolo italiano ancora un centinaio di basi militari americane,
pertanto dovrei dedurne che la guerra, di fatto, non è ancora terminata.
A questo proposito inviterei, chi ne ha voglia, di leggere l’articolo Caporetto: vittoria mancata della massoneria, da me scritto e pubblicato, qualche settimana fa, su «EreticaMente».
«Segnorine!»
Così recitava una canzonetta in voga all’epoca: «Povera Italia e poveri
italiani / in mezzo al pianto e alle rovine / è tutto in mano agli
americani / principiando dalle “segnorine”! / Di tutto loro son
corredati / la moneta hanno in abbondanza / e con caramelle e cioccolata
/ la più onesta donna è conquistata!» (Santini A., Tombolo,
Rizzoli, Milano 1990, p. 8). È la canzonetta di un dramma: quello della
miseria e della fame. Quasi cinque anni di guerra e ventidue mesi di
Campagna d’Italia da parte degli «alleati» (statunitensi, inglesi,
francesi, marocchini, ebrei in unità omogenee, polacchi, neozelandesi,
italiani dei Gruppi di Combattimento e perfino -per un breve periodo-
russi in qualità di piloti d’aviazione, nonché altri ancora) hanno
ridotto isole e penisola ad un territorio devastato, affamato e diviso.
Più
o meno ogni esercito dei tempi antichi e recenti ha al suo seguito le
“vivandiere”. Ogni truppa d’occupazione recluta, per così dire, le
dispensatrici d’amore tra le derelitte che nella guerra hanno perso ogni
cosa, o che nelle truppe d’occupazione vedono la possibilità, almeno,
di poter mangiare due pasti al giorno. La Seconda Guerra Mondiale in
Italia porta la distruzione materiale e pure qualcosa di peggio: quella
morale. Come dice Santini: «Erano stati i soldati americani a chiamarle
“segnorine”, fin dallo sbarco di Salerno, con voce strascicata e dolce,
spesso implorante, a volte minacciosa, per chiedere ciò che gli eserciti
del passato pretendevano con la forza. “Segnorina” e “paisà”, insieme a
“okay”, “emmepì”, “coffi”, erano state le prime parole del glossario
che aveva sostituito quello tedesco dell’occupazione, brutale e funereo,
“kaputt”, “verboten”, “polizei”, “kommandantur”, “heil Hitler”,
“spazieren”. E da tre anni le “segnorine” costituivano ormai l’aspetto
più vistoso, se non offensivo, o comunque esasperante, della permanenza
americana a Livorno» (Ivi).
Le
parole di Santini, magari anche di parte, nella loro ingenuità e nel
loro stile giornalistico talvolta trasandato, mi fanno venire alla mente
ben altre cose. Ben altri comportamenti. Tornano alla mente i pochi e
scarni ricordi di guerra che mia madre m’ha riportato. Frasi brevi ma
vivide, di chi la guerra l’ha vissuta, subita e non desidera ricordarla.
Un giorno parlò dell’occupazione tedesca di Verona, la sua città
natale, in questi termini: «I soldati tedeschi erano quasi ad ogni
angolo, con le armi pronte. Facevano impressione, nel loro essere
soldati. Mi sentivo e ci sentivamo tutti osservati e squadrati quando
camminavamo per le vie della città. Ci sentivamo intimoriti dalla loro
presenza. Eppure, soprattutto noi donne, sapevamo di poter circolare
indisturbate, perché nulla di male ci sarebbe accaduto».
Il «Decimo Porto».
La Quinta Armata del generale statunitense Clark occupa Livorno nel
mese di luglio del 1944: «Così Livorno cambiò nome. Divenne Leghorn, che
poi deriva da El-Ghorn, come gli arabi la chiamavano fin dall’epoca in
cui la città toscana era la base dei cavalieri di Santo Stefano e della
flotta che combatteva la pirateria saracena, un’autentica Algeri
cristiana dove i mussulmani in catene erano migliaia e lavoravano alle
opere pubbliche, da schiavi». (Ibidem, p. 10). Ma Livorno è per i
“liberatori” il Decimo Porto. Perché?
Ancora
una volta Santini c’informa: «Perché questo era il nome assunto da un
reparto del Genio Usa per le opere marittime d’oltre oceano. Decimo
Porto era stata Biserta in Tunisia. Decimo Porto era stata Palermo dopo
lo sbarco in Sicilia. Decimo Porto era stata Napoli dal 1943 all’agosto
1944. E Decimo Porto fu Livorno dal 1° settembre 1944. Napoli fu
trasferita ai genieri del Sesto Porto. E in seguito a quelli dell’Ottavo
Porto. Decimo Porto era lo scalo strategico numero uno degli Alleati
nel Mediterraneo. Decimo Porto significava sbarchi in continuazione di
armi, munizioni, automezzi e vettovaglie. Decimo Porto significava
abbondanza, ricchezza, sprechi. Significava mercato nero. Significava
ruberie, corruzione, rapine a mano armata, assalti dinamitardi» (Ibidem,
pp. 10-11). In buona sostanza a Livorno e dintorni vi era talmente
tanta abbondanza di materiali che gli stessi soldati americani ne
approfittavano. Da soli e con la malavita, sia locale sia
d’importazione, vengono organizzate periodiche rapine ai depositi, così
da poter garantire un cospicuo giro d’affari. E con gli affari sporchi e
i soldi facili s’innesca il largo giro della prostituzione. Ma a
Tombolo, alle porte di Livorno, s’innesca anche ben altro.
Così
prosegue Santini: «Decimo Porto era diventato una gigantesca calamita
per trafficanti, avventurieri, disperati, avanzi di galera, prostitute.
Con le salmerie della Quinta Armata arrivarono a Livorno le “segnorine”.
E gli sciù-scià. I livornesi ne sentirono parlare per la prima volta.
Non sapevano niente di quello che era accaduto a Napoli. Curzio
Malaparte non aveva ancora scritto La pelle, il libro che sarebbe
uscito nel 1949. Ma seppero subito di Tombolo, la pineta boscosa oltre
il Calambrone, serrata tra il mare e la via Aurelia, che giungeva fin
verso Pisa (…). La pineta fu trasformata in un enorme deposito della
sussistenza alleata» (ibidem, p. 12). Ma non solo: «Le “segnorine” erano
il pepe e il sale, la paprika, di Tombolo. Gli dettero la fama ambigua
di “paradiso proibito”» (Ibidem, p. 15).
Le due facce della medaglia chiamata sconfitta.
La sconfitta è una moneta. Una moneta che non è di chi ha perduto, ma
del vincitore. Su di una faccia, a Tombolo, vi era la «segnorina». Al
seguito dell’esercito vincitore, oppure attirata dalle campagne
devastate o da borghi e città sventrati dai bombardieri, la ragazza
giungeva laddove il cibo e i soldi c’erano. O con un protettore o con la
protettrice, si cominciava il «lavoro». Ecco la storia di Pia, una
romana che aveva seguito un sergente «gringo», poi dissoltosi: «Per
sbarcare il lunario si era affidata alla signora Fernanda, che conosceva
un mestiere solo per le sue protette. La Pia non sapeva se tornare a
casa o rimanere con la Fernanda che la riempiva di discorsi tipo “ma
dove stai meglio di qui?”, “dove vuoi andare? A casa tua? Ma là morirai
di fame. Ti tratteranno da mignotta. Qui sei una signora, non ti manca
niente, puoi mettere da parte tanti soldi”. Quello di cui non parlava
era la contrazione della malattie veneree, come la sifilide, ben
presente tra quelle che facevano «il mestiere». A proposito, la parola
«gringo» è la contrazione di «green go!», ovvero «uomini in verde
andatevene a casa». Gli statunitensi, e soprattutto quelli in divisa
militare verde, si sono sempre fatti amare in America Centrale e in
quella del Sud.
Sull’altra
faccia della moneta vi era la cornucopia, il corno dell’abbondanza.
Cornucopia è una parola derivata dal latino: «simbolo della fertilità,
raffigurato colmo di frutti e circondato d’erbe e di fiori.
Nell’antichità classica era attributo di dei e dee ritenuti dispensatori
dei beni della terra, e, tra i Romani, delle divinità cui si attribuiva
un significato di prosperità e di augurio» (Istituto della Enciclopedia
Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. I, Roma 1986,
p. 958). In Italia e in Toscana la cornucopia americana e era
rappresentata dai loro depositi, dalla «Leghorn» conquistata. L’area
occupata dal «bengodi» era enorme: «Tombolo non si limitava alla
macchia, alla pineta, al bosco. Se per Tombolo intendiamo l’area del
proibito, con le varie specialità che erano fin troppo note, allora
Tombolo comprendeva anche l’abitato di Tirrenia e mezza Livorno.
Dovunque suonavano il “bughi-bughi” per far ballare le “segnorine” e i
loro conquistatori, là era Tombolo» (Santini, op. cit., p. 29).
La
cornucopia dispensava il suo contenuto in modo semplicissimo: tale
contenuto veniva rubato e rivenduto dagli stessi militari americani che
avrebbero dovuto custodirlo. Vi era la complicità del sottobosco
malavitoso italiano, certamente, ma tutto partiva dall’occupante. Anche
ai più ottusi dovrebbe suonare il campanello del risveglio, ovvero
giungere a capire che il caos nella sua più ampia accezione, una volta
instaurato, si rigenera da solo: non vi sarà più unità di pensiero, meno
che meno d’azione. Così si governa un popolo occupato, senza che
nemmeno ne abbia la coscienza. Questo non scusa tale popolo, perché il
sonno della mente non è mai scusabile.
La distribuzione dei pani e dei pesci.
Quell’abbondanza da accattoni era pagata, ovviamente, a caro prezzo,
perché non guadagnata con il lavoro. Essa alimentava tutto ciò che
poteva essere contrario all’educazione del cittadino e al mantenimento
di uno Stato degno di tale nome e alla millantata «repubblica fondata
sul lavoro».
A
guerra finita da un anno «Tombolo» è in piena attività. I depositi e la
Fortezza Nuova, eletta a deposito militare, subiscono continui furti. Si
tenta di respingere i continui assalti a colpi di fucile e di
mitragliatrice, ma le ruberie proseguono e si tratta di tonnellate di
materiale che misteriosamente e miracolosamente s’involano. Qualcuno
comincia a chiedersi che cosa, in realtà, accada: «I camion (con la
refurtiva a bordo. N.d.A.) prendevano il largo in pieno giorno
con la complicità di tutti, ufficiali, autisti, sentinelle,
magazzinieri. Raggiungevano il luogo dell’appuntamento con i
ricettatori, scaricavano la merce, qualche camion rientrava, qualche
altro veniva venduto assieme alla refurtiva, e l’autista disertava. Poi,
la notte, si accendeva la luminaria degli spari per giustificare la
grande rapina» (Ibidem, p. 74).
Così
prosegue il giornalista: «Le ruberie alla Fortezza Nuova, nel cuore
della vecchia Livorno medicea, ci hanno fatto parlare dei disertori
americani. Era proprio quella dei disertori la piaga di Tombolo.
Disertori bianchi ma in primo luogo neri. Disertavano perché erano
stanchi della disciplina militare. Perché avevano rubato, o rapinato, o
preso a pugni un superiore, o perché avevano sparato a qualcuno e non
volevano finire sotto processo. Perché credevano di potersi arricchire
depredando sistematicamente i magazzini della Quinta Armata. Tombolo era
un rifugio sicuro e una piattaforma comoda per le loro scorrerie La
M.P. (Military Police, polizia militare americana. N.d.A.) non
osava addentrarsi nel folto della pineta, dove il bosco era una trappola
per gli indesiderabili. I disertori vivevano con le “segnorine” più
sfortunate, o più anziane, meno appetibili, quelle che non avevano
trovato una casa a Livorno o a Pisa, e degli amanti fissi, degli
ufficiali pronti ad accoglierle nelle loro palazzine di Tirrenia. E i
loro alleati naturali erano gli sciù-scià, impareggiabili elementi di
raccordo con i ricettatori, con i trafficanti del mercato nero, e
bravissimi a segnalare gli arrivi degli sconosciuti» (Ibidem, pp.
76-77).
I
retroscena non mancano: «Il segretario di Stato, George Marshal, ha già
annunciato il suo piano Erp, l’European Recovery Program, che nel 1948
assumerà il nome di Piano Marshall, diretto “contro la fame, la povertà,
la disperazione e il caos in Europa” ma anche e soprattutto contro il
comunismo. Il varo della politica atlantica con il relativo soccorso
economico in dollari e materie prime da una parte, seguito dalla nascita
del Cominform dall’altra, sta conducendo alla guerra fredda, ai blocchi
contrapposti. I moti di razzismo sociale e di intolleranza possono
servire molto bene al disegno comunista. L’approvazione di Togliatti ai
teppisti livornesi, se di teppisti davvero si tratta, va inquadrata in
questo disegno. Le sinistre soffiano sul fuoco dello scontento. L’ondata
antiamericana ingrossa. “Yankee go home” scrivono ogni notte le squadre
comuniste le squadre di Livorno. Di giorno vengono cancellate le
scritte intorno alla sede del Comando americano. Ma l’indomani
ricompaiono a caratteri più alti e più marcati. La psicosi di un colpo
di Stato all’insegna della falce e del martello sta assumendo toni
isterici. Ma una cosa è parlarne oggi, un’altra era vivere allora,
giorno per giorno gli sviluppi di una situazione che montava
pericolosamente, gonfiata dagli interessi politici delle forze in campo»
(Ibidem, pp. 89-90).
Ma,
anche qui, occorre vedere bene e fino in fondo quale situazione
complessa si sia creata, dal momento che si è territorio d’occupazione
straniera. E continuiamo a far parlare Santini: «La politica non guarda
tanto per il sottile. E se è vero che Tombolo, i negri, la “segnorine”,
le sparatorie intorno ai depositi, l’occupazione delle case e degli
alberghi, servono ai comunisti e ai socialisti per attaccare i
democristiani e cercare di guadagnare voti, è anche vero che
l’antiamericanismo viscerale delle sinistre e le loro dimostrazioni
contro tutti i guai provocati dalla permanenza dell’esercito americano,
che a Livorno, a Pisa, a Viareggio, nella Toscana litoranea, si
compendiano in una sola parola, “Tombolo”, servono ai partiti
filoamericani per gonfiare lo spettro del colpo di Stato rosso e
ottenere altri aiuti da Washington. Viveri per placare la fame del
popolo, e armi per difendere lo Stato democratico da un’insurrezione
temuta e fatta balenare da due anni» (Ibidem, p. 108).
Le truppe americane di colore.
Pagina dopo pagina il libro di Santini assume un tono e soprattutto un
colore diverso. Si assaggiano i retroscena della cosiddetta democrazia
americana e degli insoluti problemi creati dalla Guerra Civile
americana, o meglio dalla Guerra di Secessione di metà Ottocento
(1861-1865).
La 92a
Divisione di Fanteria americana, chiamata «Divisione Buffalo», era
composta per lo più da americani di colore e da abitanti degli stati del
sud, come la Louisiana: «La Buffalo era una divisione di fanteria
“segregata”, composta soltanto da negri, oppure da bianchi schedati come
negri, condannati alla morte civile, loro e i loro discendenti»
(Ibidem, p. 138). Mi si lasci ricordare, a mo’ d’inciso, che il 26
dicembre 1944 le truppe italiane, con la Divisione alpina Monterosa,
unitamente alle truppe tedesche della 148adivisione,
attaccano le truppe americane e le ributtano indietro di una ventina di
chilometri. Tra di esse vi era anche la «Divisione Buffalo».
Santini
raccoglie così la voce di un attore di colore del Michighan, John
Kitzmiller: «Molti negri che hanno disertato e che a Tombolo sono
braccati dalla M.P., che hanno trasformato Tombolo in una specie di
giungla, e che ormai sono dei fuorilegge, perché hanno rubato, hanno
rapinato, hanno ucciso, hanno violentato, perché hanno tradito la
bandiera americana, e tutti, sicuramente, finiranno male, in galera o
sotto un palmo di terra, in fondo sono vittime del regime degli Stati
Uniti. Le trasmissioni della “Voce dell’America”, che ascoltate anche
voi Italiani, ripetono che negli Stati Uniti c’è una effettiva
democrazia, che la dignità umana è garantita a tutti i livelli, che
tutti i cittadini, qualunque sia il colore della loro pelle, godono
uguali diritti. Non è vero niente» (Ivi).
Questi
brevi stralci dovrebbero indurre noi, oggi, dopo settant’anni, a
profonde riflessioni sulla nostra condizione attuale e sul nostro futuro
immediato.
Tra Pound e Arar.
L’Arar era l’Azienda Rilevamento Alienazione Residuati ed ebbe la sua
parte nelle faccende livornesi, toscane e di tutt’Italia, nel sordido
dopoguerra. A partire dal 1945 da azienda annessa alle Ferrovie dello
Stato divenne un ente parastatale. Ma non si trattava solo di alienare
armi, bensì tutto quanto di superfluo rimaneva dopo la guerra in termini
di materiale e del più svariato. Inizialmente, tra gli articoli più
ambiti, vi erano le gomme d’auto e di camion, ma ben presto ci si
accorse che qualcosa non marciava per il verso giusto: «Con l’Arar
nacquero le prime corruzioni di Stato. Oggi non destano alcuna
meraviglia, ma allora, freschi come eravamo di democrazia, si pensava
che le mani dei nostri governanti, dei nostri amministratori, dei
rappresentanti delle associazioni e degli enti pubblici, fossero pulite,
e che lo rimanessero nel tempo. Pura illusione» (Ibidem, p. 216).
Forse
che il malcostume era davvero alle porte, come diceva Ezra Pound ai
microfoni italiani? Santini ci parla anche di lui: «Gli americani
avevano preso Pound il 3 maggio, dopo aver liberato Rapallo, la
cittadina in cui il poeta dell’Idaho viveva dal 1924. Lo avevano
accusato di alto tradimento. E sembrava che il suo destino fosse di
morire impiccato. Qual era stata la sua colpa? Pound non si era limitato
a chiamare Mussolini “il vecchio Muss”, a vedere nel fascismo “la forza
primitiva che avrebbe riscattato il mondo dalle sue lordure” (…). Da
radio Roma aveva letto, o fatto leggere, quattrocento cartelle
dattiloscritte, sparando contro tutto e tutti. Contro l’alta finanza
americana “responsabile di tutti i massacri della nostra epoca”, contro
gli ebrei che definiva “vermi giudei”. La sua rubrica aveva per titolo
“Vi parla lo zio Ez” e più volte inneggiò Hitler che “stava rinnovando
il mondo dalle fondamenta” (…). Quando “zio Ez” fece di Rapallo
“l’ombelico del mondo” (ma lui pronunciava “umbelico”), l’usura divenne
la sua ossessione. Lo ossessionava l’esosità del sistema bancario
americano ed europeo. Affermava che gli interessi bancari sono simili
all’usura, di diverso dall’usura hanno soltanto il nome, e che questa
usura è imposta dalla lobby ebraica per influenzare il potere politico,
economico e industriale dell’Occidente e ottenere un unico, terribile
risultato: accendere una nuova guerra» (Ibidem, pp. 131-133).
La rivolta del Popolo.
Verso la metà del 1946 la gente comune, il Popolo, comincia ad averne
abbastanza. Nei mesi successivi e soprattutto, nel 1947 comincia la
caccia alle «segnorine», ai loro protettori e alla malavita che guida il
gioco. Ma sono esternazioni sporadiche, talvolta di facciata. Il cancro
da rimuovere è alla base, ben oltre la portata dei semplici cittadini
che lavorano: «Le leggi erano state mandate in vacanza da una guerra che
aveva portato il fronte in tutto il territorio del paese. Il dopoguerra
era troppo profumato di dollari. E la ricchezza improvvisa dei
trafficanti, degli avventurieri, umiliava la povertà della gente comune.
Le “segnorine” che ostentavano la loro scelta di vita e i loro piccoli,
ingenui lussi, costituivano la provocazione più vistosa di quegli anni
tumultuosi» (Ibidem, p. 70).
Ma
non è solo la città di Livorno ad averne abbastanza e il 25 agosto 1946
Mestre si ribella: «La notte tra il venerdì e il sabato, a Mestre, ci
sono stati dei gravi disordini. Centinaia di giovani hanno dato la
caccia alle “segnorine” che si accompagnavano con i soldati inglesi
dell’Ottava Armata. Le hanno prese a schiaffi, le hanno spogliate, le
hanno obbligate a correre nude nelle strade del centro. I soldati hanno
reagito, difendendole come potevano. I disordini sono degenerati. È
intervenuta la polizia, sono arrivati i camion militari per imbarcare
soldati e ragazze e sottrarli alla furia popolare. La polizia ha
ovviamente preso posizione contro i civili. E i civili hanno aperto una
sassaiola contro militari e agenti. Sassaiola è un termine generico.
Sono state lanciate pietre ma anche paletti, zappe, badili e mattoni
presi da un cantiere di costruzioni. Un mattone ha centrato il
parabrezza di un camion mandandolo in frantumi. L’autista ha perduto il
controllo del pesante veicolo che è precipitato in un canale. L’autista e
un altro soldato sono riusciti a salvarsi. Decine di contusi sono stati
ricoverati negli ospedali dell’Ottava Armata e in quello municipale di
Mestre. Gli scontri e la caccia alle “segnorine” sono ripresi con più
acredine la domenica. Ed è andata molto peggio. Si è sparato» (Ibidem,
p. 69).
Quanti
civili sono stati uccisi dalla Militry Police? Quanti sono rimasti
feriti? Quanti tradotti in galera? L’invito, a chi ora legge, è di
andarsi a documentare sui fatti che vanno dal 1943 al 1945, nonché
dell’immediato dopoguerra, in tutta Italia. Si vada a sfogliare i
giornali dell’epoca, si legga e si trascriva. Ciò che accadde non va
scordato.
La «liberazione alleata». Ecco ulteriori stralci dal libro Tombolo,
su cui occorrerebbe ulteriormente riflettere. Su cui occorrerebbe
stendere ulteriori ricerche, sollevando finalmente il telo di menzogne
stesoci sopra dalla fine della guerra ai nostri giorni.
«Nell’isola
d’Elba l’arrivo delle forze liberatrici fu terrorizzante. L’Elba non fu
liberata ma presa d’assalto e saccheggiata con tutte le violenze che
accompagnano di regola i saccheggi. E il 17 giugno 1944, dopo un
bombardamento aero-navale, il Comando delle operazioni nel Mediterraneo
mandò i reparti marocchini e senegalesi dell’esercito gollista a
conquistare l’isola napoleonica (…) e quando entrarono nei primi borghi
ripristinarono un antico diritto di guerra: fare piazza pulita di tutto
quello che trovavano, cose e persone» (ibidem, p. 20). E ancora, più
avanti: «Altro episodio. In val di Denari un contadino, quando vide che i
marocchini stavano per impadronirsi della figlia nascosta nel vigneto,
sparò contro i soldati due fucilate a pallettoni dandole modo di
scappare. Fu subito ammazzato sul posto, falciato dai mitra. Per due
giorni, il 17 e il 18 giugno, le truppe di colore del generale Juin
imperversarono sfrenatamente, da un capo all’altro dell’isola. Gli
elbani hanno sempre testimoniato malvolentieri sui saccheggi e sulle
violenze subiti. Non hanno protestato. Non hanno accusato. Negli anni
dell’immediato dopoguerra si sono limitati a non riconoscere la festa
della Liberazione» (Ibidem, p. 21).
Cos’altro aggiungere? http://www.ereticamente.net/2014/06/livorno-e-tombolo-pagine-di-storia-da-ricordare.html
RispondiEliminaBuongiorno per tutta la vostra domanda di prestito personale o di finanziamento di progetto volete contattare signora MANECCHI che la ha aiutare con un prestito di 23.000 € e questo senza spese in anticipo volete contattarla su sono indirizzo mail o per telefono
mail..........silvia19manecchi75@gmail.com
mail...........silvia19manecchi75@gmail.com
whatsapp.........+33756830507
whatsapp.......+33756830507