La nuova indagine di Luca Leonello Rimbotti
Qualcuno forse si domanderà, ma come 
ancora un altro libro sul Fascismo? Non siamo ormai già a conoscenza di 
tutto? I segreti, le storie, anche le più controverse, le vicende e i 
dibattiti, non sono forse già stati tutti svelati e spiegati in ogni 
prospettiva possibile? C’è ancora qualcosa di ulteriore da scoprire, da 
indagare e da capire su quella che è stata, piaccia o meno, l’unica, 
possente rivoluzione che l’Italia abbia mai avuto nella sua complicata 
storia?
Evidentemente sì. Anzi, ne siamo più che
 certi. E l’ultima fatica di Luca Leonello Rimbotti sul tema, 
recentemente pubblicata dalle Edizioni Passaggio al Bosco nella collana 
«Bastian Contrari» con il titolo «Fascismo rivoluzionario. Il fascismo 
di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale» 
ne è la migliore
 conferma 
Per coloro che ancora non fossero a 
conoscenza delle Edizioni Passaggio al Bosco possiamo sinteticamente 
sottolineare che si tratta di una giovane e coraggiosa iniziativa 
editoriale fiorentina nata da un qualificante retroterra militante, 
assolutamente non conformista, che può già vantare nel suo catalogo un 
buon elenco di titoli di cultura politica particolarmente interessanti e
 adatti al momento storico che stiamo attraversando.
Attraverso le oltre quattrocento pagine 
dell’opera, ma non lasciatevi impressionare dalla mole, si snoda una 
valida ed esaustiva esposizione delle stagioni del pensiero fascista, in
 tutte le sue molteplici espressioni. Un fascismo senza maschere, 
appunto; privo di interessate ricostruzioni artificiali, ma intenso e 
sincero nel suo percorso. Pagine così interessanti e ricche di contenuti
 e così belle per ciò che riescono a rendere di nuovo visibile e 
tangibile che non soltanto mettono in evidenza la conoscenza precisa e 
obiettiva dell’autore, ma ancor di più pongono nella giusta attenzione 
la densità e la profondità dell’ideologia fascista; dalla sua nascita 
movimentista alla maturità di una rivoluzione fattasi Stato, fino al suo
 epilogo tragico, ma eroico, nella trincea rivoluzionaria della 
Repubblica sociale. Tante storie, progetti, riflessioni e percorsi che 
ci parlano del fascismo come di un instancabile e inesauribile 
laboratorio di volontà e di decisione e quindi di una rivoluzione 
perennemente in marcia, nonostante gli innumerevoli sabotaggi, le 
battute di arresto e anche le compromissioni sempre avversate dalla base
 del movimento.
Sappiamo che il movimento fascista 
manifestò fin dalle origini diciannoviste, la sua ferma e inderogabile 
volontà politica di perseguire il fine dell’integrazione totale del 
popolo italiano all’interno di un processo rivoluzionario di radicale 
trasformazione dell’intera società in senso fascista, senza escludere 
alcun comparto sociale o aspetti particolari dalla sua azione di 
penetrazione; affinché si raggiungesse il completamento culturale e 
politico della sintesi organica tra Stato, nazione e popolo. Una sintesi
 che fu indubbiamente di rottura con le ideologie del secolo precedente,
 che venne dettata da esigenze antiliberali, antimarxiste e 
antiplutocratiche.
Abbiamo detto delle origini 
diciannoviste, per la verità dovremmo andare ancora un po’ più indietro 
nel tempo che comprendere il senso innovativo del pensiero mussoliniano,
 cioè a quando nell’agosto del 1918 Mussolini decise di cambiare la 
dicitura del proprio giornale, Il Popolo d’Italia, che passò dall’essere
 «quotidiano socialista» a quella più decisamente specifica e inglobante
 di «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Con questo passaggio,
 il Mussolini politico e combattente che aveva saputo interpretare e 
vivere da volontario la grande guerra come guerra di popolo e 
l’interventismo come l’innesco rivoluzionario di nuove consapevolezze al
 di fuori delle politiche borghesi della destra e della sinistra si 
rivolgeva alle masse lavoratrici italiane, le stesse che avevano 
riempito le trincee, incitandole ai nuovi compiti che si prospettavano, 
ovvero emergere nella storia dell’Italia come le nuove aristocrazie 
dirigenti della nazione contro i parassiti del lavoro e del sangue 
versato sul fronte. Si trattò di una coraggiosa scommessa per il 
cambiamento, le cui radici affondavano nel sacrificio della guerra, il 
momento nel quale le masse popolari e contadine italiane scoprirono di 
appartenere a una nazione. La trincea non sapeva quali fossero le 
differenze di classe o di ceto, ma conosceva il cameratismo del sangue 
dei soldati. Quella comunità solidale esaltata da Mussolini che 
rappresentò il nucleo iniziale del fascismo.
Per non parlare poi del discorso che 
Mussolini il 20 marzo 1919 tenne alle maestranze in sciopero dello 
stabilimento metallurgico Franchi e Gregorini di Dalmine, che precedette
 di tre giorni l’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano e la nascita 
ufficiale del primo fascismo. Uno sciopero ben motivato nelle legittime 
rivendicazioni, ma differente nelle sue modalità da quelli consueti. 
Infatti, i lavoratori organizzati dai sindacalisti rivoluzionari 
corridoniani stavano autogestendo la produzione nella fabbrica occupata.

A loro, che rappresentavano i produttori
 e i combattenti quindi le nuove aristocrazie in pectore, Mussolini 
rivolse infiammate parole di elogio e di stimolo, in esse gli elementi 
di fondazione della futura ideologia fascista erano già presenti. Nel 
seguente passaggio estratto dal discorso appare evidente l’intenzione di
 Mussolini di raccogliere in un unico programma istanze che fino al 
allora avevano viaggiato su binari differenti e distanti: «Il 
significato intrinseco del vostro gesto è chiaro, è limpido, è 
documentato nell’ordine del giorno. Voi vi siete messi sul terreno della
 classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo 
italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli 
interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo 
sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando 
agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, 
che non interrompe la produzione. Non potevate negare la nazione, dopo 
che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini 
nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si 
nega, poiché essa è una gloriosa, una vittoriosa realtà. Non siete voi i
 poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del 
socialismo letterario; voi siete i produttori, ed è in questa vostra 
rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari 
cogli industriali. Voi insegnate a certi industriali, a quelli 
specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è 
avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e 
vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da 
cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria 
per gli altri creatori della ricchezza.»
Rimbotti ci parla di tutto questo con 
passione e con dovizia di particolari. Particolari importanti perché 
nelle radici del fascismo possiamo già leggere i successivi 
arricchimenti politici e dottrinari: dalla fase rivoluzionaria dello 
squadrismo e della guerra civile in cui si immerse alla conquista del 
potere, fino alla stagione del regime consolidato, del dibattito sul 
corporativismo, delle grandi innovazioni e di una modernizzazione 
sociale in marcia con uno spirito del tutto nuovo, delle varie anime 
interne al regime che si fronteggiarono aspramente, nei segmenti di una 
rivoluzione certamente incompiuta per l’insorgere di fattori anche 
estranei alla dialettica fascista ma propri di differenti logiche di 
potere. Dobbiamo riconoscere che la necessaria trasformazione fascista 
in senso corporativo dell’economia e della produzione nella sua 
interezza, quindi di un totale e radicale superamento 
dell’organizzazione capitalistica imprenditoriale nell’indirizzo di una 
civiltà fascista del lavoro, non si ebbe; la Camera dei Fasci e delle 
Corporazioni venne inaugurata il 23 marzo 1939, troppo tardi e in clima 
di generale disillusione.
Ciononostante, l’impasse non impedì che 
numerosi traguardi sociali venissero lo stesso conseguiti, molte riforme
 strutturali portate a termine, la Carta del Lavoro fu un monumento di 
socialità e di organizzazione; il tutto a dispetto delle pesanti e 
minacciose opposizioni delle forze conservatrici, che nel complesso 
agivano indisturbate per sabotare il fascismo, dei ceti imprenditoriali,
 della monarchia e perfino delle gerarchie ecclesiastiche che non 
vedevano di buon occhio gli esperimenti sociali del regime. Molto fu 
fatto, molto restava ancora da fare come lamentavano i fascisti più 
intransigenti, spesso vecchi squadristi o giovani irrequieti.
E per la svolta socializzatrice si dovette attendere la Repubblica sociale.
La rivoluzione compiuta sociale e 
totalitaria che spesso Mussolini aveva invocato dovette essere rinviata a
 tempi più opportuni e favorevoli.
Insomma, quelle tante complessità che 
caratterizzarono l’esperienza fascista e che hanno sempre affascinato e 
incuriosito gli studiosi della materia.
Comunque sta di fatto che il fascismo, 
coerentemente con la sua vocazione rivoluzionaria originale e 
originaria, riuscì durante gli anni del regime a mettere in campo un 
processo di trasformazione globale della società, delle mentalità e dei 
costumi che non poteva prescindere dallo sviluppo e dall’applicazione di
 un vasto panorama di interventi pubblici politici e sociali che 
avrebbero dovuto, attraverso un uso capillare della propaganda e 
dell’educazione tramite l’inquadramento politico dei vari strati della 
popolazione, sviluppare una nuova coscienza di appartenenza alla 
comunità nazionale ricostruendo così di sana pianta il tessuto della 
vita collettiva. Nel significato fascista si trattava di una comunità 
nazionale intesa come un luogo spirituale e sociale compiuto che si 
sarebbe identificata per automatismo nello Stato fascista e che 
attraverso la mobilitazione educativa delle organizzazioni del partito 
sarebbe approdata ad una sorta di formalizzazione delle emozioni e 
l’emergere di nuovi valori civici e politici intesi in chiave mistica, 
si parlò infatti di una «mistica fascista» da iniettare nella vita 
civile, ed infine anche eroica; il vivere la quotidianità fascista con 
spirito antiborghese, con tensione virile, agonistica, e pertanto 
eroica.
Gli stessi canoni sviluppati dalla 
cultura fascista miravano a un approdo definitivo verso un fascismo 
risolto e compiuto nella totalità del popolo italiano, che sarebbe, per 
forza di cose, emerso come la caratteristica morale e politica 
identificativa della nuova Italia.
Il nostro autore qualifica tutto questo 
insieme di programmi e di aspirazioni, di potenzialità e di radicalismo,
 come «fascismo di sinistra», quindi rivoluzionario e non addomesticato 
perché appunto «di sinistra». È giusto? È sbagliato? Una tesi ardita? 
Difficile a dirsi, come difficile è il voler utilizzare categorie già 
vecchie e superate all’epoca, frutto per altro della interessata 
stratificazione borghese della vita politica. La democrazia borghese ha 
sempre conosciuto una «destra» e una «sinistra», con tutte le loro 
declinazioni possibili e magari anche in concorrenza tra loro, ambedue 
però funzionali alla dialettica di sopravvivenza e di giustificazione 
interna della società borghese. Anche al fascismo, ideologia nuova e di 
rottura del XX° secolo, è allora applicabile questo schema?
Il fascismo rigettò il mondo borghese e 
il massimalismo progressista creando in primis le proprie categorie di 
riferimento, e lo fece andando ben oltre la «destra» e la «sinistra», 
però è anche vero che sopravvissero al suo interno tra le pieghe del 
movimento modi diversi di interpretarlo e questo fu una debolezza. Una 
rivoluzione che vanta aspettative totalitarie questo lusso non se lo può
 mai permettere, la credibilità della sua stessa idea di rivoluzione ne 
risulterebbe inficiata.
Le grandi rivoluzioni del primo 
dopoguerra, il fascismo, il nazionalsocialismo, anche il comunismo 
quello staliniano, hanno rappresentato in generale delle complessità 
ideologiche e culturali particolarmente articolate che sfuggono alle 
rigidità interpretative del pensiero politico moderno. Il loro saper 
essere state, parliamo soprattutto del fascismo e del 
nazionalsocialismo, allo stesso tempo sintesi nuove e antiche e 
risoluzione delle contraddizioni della modernità, quindi visioni del 
mondo destinate a un nuovo meriggio, le fa apparire ancora oggi 
complicate nelle valutazioni e nelle analisi.
Però, sempre il nostro autore riesce a 
giustificare in maniera coerente e accattivante questa sua specifica 
chiave di lettura che sposta irrimediabilmente l’asse del fascismo, 
puro, intransigente e rivoluzionario verso la «sinistra». Spetterà 
allora al lettore, che sicuramente non potrà che riconoscere il valore 
dell’accurata opera di Rimbotti sul fascismo, trarne le personali 
valutazioni.
Il dibattito resta ancora aperto.
Maurizio Rossi
TRATTO DA:
http://www.ereticamente.net/2018/07/il-fascismo-senza-maschere-quello-autentico-e-rivoluzionario.html
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http://www.ereticamente.net/2018/07/il-fascismo-senza-maschere-quello-autentico-e-rivoluzionario.html

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