Di Ilario Simonetta
Tra i primi provvedimenti adottati da Ferdinando II salito al trono l’8 novembre 1830 a soli venti anni, ci fu quello della ristrutturazione dell’Esercito che negli ultimi tempi aveva subito un processo involutivo veramente preoccupante.
Il giovane Sovrano agì con estrema decisione e severità e non esitò, con un ordine del giorno, a chiedere le dimissioni di un gran numero di ufficiali inetti ed incapaci, richiamando in servizio, reintegrandoli nel grado e nelle funzioni, gran parte di coloro che si erano compromessi nei moti del 1820. Riammise in servizio, destando grande scalpore, anche il Tenente Generale Carlo Filangieri, convinto, a ragione, che solo un Esercito ben addestrato, con soldati disciplinati e motivati avrebbe potuto sostenere con lealtà e fedeltà il Trono e difendere l’autonomia e l’integrità dello Stato.
Alla riforma dell’Esercito Ferdinando si dedicò con vera passione. Visitava ed ispezionava sovente le caserme, si tratteneva affabilmente con i militari dei vari gradi dei quali conosceva tutti i nomi. In breve tempo questi militari impararono a stimare ed amare il loro giovane Sovrano. Nel giro di 10 anni il rinnovamento dell’Esercito era praticamente concluso, con reparti disciplinati e fedeli alla Corona, ben addestrati, ben armati ed equipaggiati, degni insomma del più grande Stato Indipendente della Penisola, che godeva di grande prestigio in campo Europeo, nonostante i malevoli pareri di tanti storici di parte. I progressi furono evidenti. È appena il caso di accennare che nel 1842, sorse primo in Italia, l’Opificio Meccanico e Pirotecnico, fu istituito l’Ufficio Telegrafico, nacquero nuovi reparti e specialità, quali il genio idraulico e terrestre, l’artiglieria costiera, i lancieri (specialità della Cavalleria), ed il superbo Corpo dei Cacciatori, i bersaglieri napoletani.
Il reclutamento e l’alimentazione dei Reparti
Il reclutamento obbligatorio fu introdotto nel 1810, sottoposto a
revisione nel 1833 ed integrato con ulteriori provvedimenti nel 1837. Si
stabilì che i Corpi del Real Esercito si reclutassero mediante la leva,
l’arruolamento volontario e il prolungamento del servizio. Tutti i
sudditi in età compresa tra i 18 ed i 25 anni erano soggetti all’obbligo
del servizio militare, mediante estrazione a sorte nella misura di un
prescelto ogni mille. Erano esclusi dalla leva di terra i distretti
marittimi e le isole di Ponza e Ischia, destinati a fornire il
contingente per la Real Armata di Mare. Per antico privilegio, i sudditi
siciliani non erano soggetti agli obblighi di leva. Comunque, circa
12.000 siciliani servivano nell’Esercito in qualità di volontari. La
durata del servizio militare era di 10 anni, di cui 5 in servizio attivo
ed altri 5 in congedo illimitato nella riserva. Per la Cavalleria, il
Genio, l’Artiglieria e la Gendarmeria, la ferma era di 8 anni, tutti di
servizio attivo. L’arruolamento volontario e il prolungamento della
ferma assorbiva un gran numero di aspiranti, tanto che la richiesta di
coscritti era molto ridotta. Infatti, contro un gettito di circa 50.000
reclute, il contingente di leva non era superiore alle 12.000 unità.
La Nunziatella
La formazione degli Ufficiali era affidata al Real Collegio Militare
con sede nel monastero dell’Annunziatella a Pizzofalcone. L’Istituto fu
fondato nel 1786 da Ferdinando IV ed era orientato essenzialmente alla
formazione degli Ufficiali di Artiglieria e del Genio. Gli allievi
ammessa in età dai 10 ai 12 anni, per legge dovevano essere figli di
Ufficiali Superiori, Capitani inclusi o appartenenti alla nobiltà.
Successivamente furono ammessi anche i figli degli Ufficiali subalterni e
appartenenti alla borghesia. L’allievo doveva corrispondere una retta
annuale di 180 Ducati, pari a circa 1350 €, più 100 Ducati il 1° anno,
per il corredo. Il numero di allievi era di 170 effettivi, divisi in
quattro compagnie ed inquadrati da Ufficiali, Sottufficiali e da allievi
scelti dei corsi superiori. I corsi avevano una durata di 8 anni, al
termine dei quali, gli allievi sostenevano un esame di idoneità. Veniva
quindi stilata una graduatoria e gli allievi migliori erano assegnati
all’Artiglieria e al Genio, mentre gli altri venivano assegnati alle
altre Armi. Chi non superava l’esame, transitava nei vari reparti in
qualità di Sottufficiale, o veniva congedato. Gli insegnanti, militari e
civili, erano di prim’ordine.
La ristrutturazione degli organici.
Con il Real Decreto del 21 giugno 1833, furono apportate importanti
modifiche agli organici e, negli anni successivi furono costituiti tre
nuovi reggimenti di Fanteria di linea , quali:– il 13° Lucania, nel 1840; – il 14° Sannio ed il 15° Messapia, entrambi nell’agosto del 1859. (lastrina con organico tipo del Rgt. di Fanteria e le denominazioni dei vari reggimenti). Superbi, nelle loro uniformi erano i reparti di Cavalleria inquadrati in 7 Reggimenti: due di Ussari, due di Lancieri e tre di Dragoni (lastrina con organico del Rgt. di Cavalleria ), più un quarto Reggimento in tempo di guerra. A livello di eccellenza erano i reparti di Artiglieria e Genio e le loro specialità. Nell’organico dell’Esercito non va dimenticato il Reggimento Real Marina, antesignano dei moderni Marines e che fu il primo in Italia. Infatti, un reparto omologo verrà creato dall’Esercito Italiano solo nel 1861. Il Reggimento Real Marina fu protagonista nel 1848 di un’operazione anfibia tesa a riconquistare la Sicilia a cominciare da Messina, ove un presidio Borbonico resisteva eroicamente da tempo all’assedio operato dai rivoltosi siciliani. Con un’operazione di sbarco molto ardita, i fanti di mare costituirono una testa di ponte sulle spiagge sotto un intenso fuoco avversario, consentendo alle truppe del Gen. Filangieri di organizzare la riconquista dell’Isola. Dell’Esercito facevano parte anche 4 Reggimenti Svizzeri, chiamati dai napoletani “Titò”, che dal 1825 presero il posto degli Austriaci. Erano truppe fedelissime e nelle quali Ferdinando II poneva la più completa fiducia. Il trattamento loro riservato era migliore di quello dei soldati napoletani. Erano indubbiamente dei privilegiati, ma costituivano un sicuro e solido puntello. I fatti tragici delle giornate del 1848 a Napoli, in Sicilia, in Calabria, confermarono l’assoluta fedeltà di queste truppe alla Corona. Successivamente, questo feeling si interruppe improvvisamente e sanguinosamente nel 1859, subito dopo la morte di Ferdinando II, in seguito all’ammutinamento del 1°; 2° e 3° Reggimento. La causa scatenante che determinò la rivolta e che causò decine di morti e centinaia di feriti, fu apparentemente causato dai nuovi accordi tra i Cantoni di arruolamento e la Corona Napoletana. Si stabiliva, infatti, che nelle bandiere dei reparti Svizzeri non dovevano più essere apposti gli emblemi dei Cantoni di reclutamento. Ma ai tragici accadimenti non furono estranee le oscure manovre di agenti sabaudi, tendenti a minare le basi dei nuclei più compatti dell’organizzazione militare borbonica. La prova evidente di tali sospetti sta nel fatto che nelle tasche degli svizzeri morti e feriti furono trovate un consistente numero di monete d’oro. La rivolta fu stroncata dall’intervento dei reparti Napoletani e dal 4° Reggimento svizzero estraneo ai fatti. I reparti ammutinatisi furono sciolti e sostituiti con altre unità composte da militari esteri, specie bavaresi, e gli elementi rimasti fedeli provenienti dai disciolti reggimenti elvetici. Furono quindi creati tre Battaglioni di Cacciatori Bersaglieri Esteri, più un quarto di Veterani.
Trattamento economico
Le paghe dei militari napoletani, anche se inferiori a quelle dei
loro colleghi svizzeri erano comunque superiori a quelle percepite dai
pari grado dell’Armata Sarda. Ad esempio, un Colonnello dell’Esercito
Borbonico, percepiva una paga superiore del 7,9% rispetto a quella di un
pari grado piemontese. Nel grado di Tenente, lo scarto era del 2%. Le
paghe degli Ufficiali, comprensive delle varie indennità erano le
seguenti: – Colonnello: ducati 1524 pari a € 13.830; – Ten. Col.: ducati
1056 pari a € 9.577; – Maggiore: ducati 900 pari a € 8.162; – Capitano:
ducati 600 pari a € 5.442; – Tenente: ducati 372 pari a € 3.380. Sullo
stipendio base gravava una ritenuta del 2% che concorreva a formare il
fondo pensioni. I Sottufficiali delle Due Sicilie percepivano uno
stipendio superiore del 20% rispetto ai pari grado dell’Armata Sarda.
Nel grado di caporale, il divario era del 14%, mentre le paghe dei
soldati dei due eserciti si equivalevano. È da notare inoltre, che il
valore della moneta era, nelle Due Sicilie , più elevato che nel
Piemonte e che il sistema dei prezzi era abbastanza stabile, specie per i
generi di più largo consumo. Oggi queste paghe che possono apparire
modeste, si rapportavano ad un costo della vita assai contenuto e si
possono considerare adeguate al contesto socio-economico del Regno. Sul
piano economico quindi, lo status di militare, offriva un tenore di vita
soddisfacente e ciò spiega, almeno in parte, l’esistenza di un gran
numero di volontari e raffermati.
Aspetti della vita quotidiana.
Il vitto, veniva distribuito una volta al giorno alle 9.30 del
mattino. La qualità era buona e le razioni, generose, comprendevano
sempre, pasta in brodo e al sugo di carne. La carne (240 grammi) veniva
sostituita il venerdì dal baccalà. Il pane era distribuito ogni due
giorni in ragione di 650 grammi al giorno. Per il pasto serale i
militari dovevano provvedere in proprio. Il rancio veniva consumato in
camerata utilizzando appositi tavoli a quattro posti e veniva portato in
loco dal personale delle cucine che, dopo mezz’ora, provvedevano a
ritirare le stoviglie. Gli Ufficiali e i Sottufficiali consumavano il
pasto unico nella giornata presso le rispettive mense. L’eventuale pasto
serale era a pagamento. Il vitto degli Ufficiali e dei Sottufficiali
era più vario nell’assortimento e, in genere, comprendeva una minestra,
due piatti di carne, due di verdure, dessert, pane, formaggio, frutta e
vino. Le condizioni igieniche collettive ed individuali venivano
controllate con continue ispezioni e controlli tendenti ad accertare il
rispetto delle più elementari norme d’igiene imposte dalla vita in
collettività. Nei mesi estivi, i soldati dovevano effettuare i
cosiddetti bagni di pulizia che, per i più ritrosi e pudici potevano
ridursi al solo lavaggio delle estremità inferiori. Ogni giovedì della
settimana, venivano controllati il taglio dei capelli, la pulizia del
collo, delle orecchie e dei piedi. Tali ispezioni erano ripetute anche
durante le marce. Ogni settimana c’era il cambio della biancheria
personale. Il militare versava al caporale di servizio gli effetti
sporchi da inviare in lavanderia, che venivano restituiti il sabato
successivo. Ogni anno erano previste le visite sanitarie generali a cura
del 1° Chirurgo del Reggimento che disponeva d’autorità i ricoveri del
caso. Ogni mattina, alla sveglia, il caporale di settimana al grido di
“Chi è malato?” chiamava coloro che intendevano chiedere visita medica, i
quali venivano poi avviati all’infermeria del Reggimento o
all’Ospedale. Nelle caserme le camerate erano spaziose, riscaldate e
ispezionate con frequenza. Due piantoni detti “quartiglieri”, designati
giornalmente e agli ordini di un caporale di quartiere, provvedevano
alla sorveglianza dei locali. I soldati dormivano su un pagliericcio
riempito di paglia lunga che veniva cambiata ogni 3 mesi. Il
pagliericcio era posto su una lettiera formata da due supporti in ferro
che sostenevano tre tavole di legno per il fondo. Erano previste le
lenzuola e, dal 15 ottobre al 15 aprile, una coperta di lana. Il posto
letto era completato da una mensola di legno detta “cappellinaio”, dove
il soldato sistemava gli effetti di equipaggiamento lasciando ben
visibile la targhetta riportante il nome e il numero di matricola. La
giornata iniziava alla sveglia che, a seconda della stagione, variava da
mezz’ora prima dell’alba, all’alba. Dopo mezz’ora dalla sveglia c’era
la visita medica e quindi le varie istruzioni fino alle 09.30, ora di
distribuzione del rancio. Alle ore 13 d’inverno e alle 15 d’estate, i
militari si recavano in libera uscita per poi rientrare in caserma
mezz’ora prima del tramonto. La giornata si chiudeva due ore e mezzo
dopo la ritirata con il silenzio. L’addestramento era meticoloso e
quotidiano, tranne il sabato, i giorni festivi ed in quelli
particolarmente caldi o freddi, ovvero con pioggia molto forte. Nei mesi
estivi, i soldati venivano istruiti anche al nuoto. Due volte alla
settimana avevano luogo i “Campi di Brigata” con affardellamento
completo. Il venerdì alle 13, le truppe si recavano al Campo di Marte,
dove il Re in persona dopo aver passato in rivista i reparti, assumeva
la direzione delle esercitazioni. Al termine, il Re non mancava di
premiare i reparti che si erano particolarmente distinti. Non di rado,
le truppe stanche e sudate erano trattenute per la recita delle
preghiere serali.
Uniformi e armamento
Le riforme apportate da Ferdinando II a partire dal 1830,
modificarono l’aspetto del soldato Napoletano. Le nuove uniformi si
rifacevano allo stile francese e tale influenza rimase evidente fino
alla caduta del Regno. Anche i distintivi di grado che rimasero in
vigore fino al 1861, si rifacevano al modello francese. Dal 1841 gli
Ufficiali adottarono la goliera in metallo quale distintivo di servizio,
in luogo della settecentesca sciarpa bianca e rossa, che rimase in uso
solo per i Generali. Sempre in quegli anni venivano fissati i colori per
le uniformi e cioè: divisa blu scuro per tutti i corpi ad eccezione dei
Cacciatori per i quali era di colore verde e degli svizzeri che
indossavano una giacca scarlatta. I pantaloni erano rosso scuro per la
gran tenuta della Fanteria della Guardia Reale e di quella di Linea,
celeste per gli svizzeri, blu scuro per il Genio e l’Artiglieria ed
infine grigi per i Cacciatori. I pantaloni estivi erano per tutti di
colore bianco. Le ghette erano di panno nero d’inverno e di tela bianca
in estate. L’abito a falde detto “giamberga” era comune a quasi tutti i
corpi, era ad un solo petto chiuso da nove bottoni. Le falde per le
uniformi della Cavalleria erano, per motivi pratici, molto ridotte. Le
uniformi per la Cavalleria non si discostavano molto da quelle francesi,
costituite da un abito a due petti con pettorina per i lancieri, mentre
gli Ussari della Guardia Reale indossavano un “dolmann” blu chiaro (in
napoletano “dolmanda”)con cordelline bianche. I Cacciatori a piedi e i
Tiragliatori della Guardia Reale, indossavano un corto giubbetto di
panno verde senza falde. I Reggimenti dei Granatieri, Cacciatori e
Guardie del Corpo, aggiungevano sulla bottoniera del petto nove
“brandeburghi” di lana bianca, che erano gialli per la truppa e di
filato d’argento e d’oro per gli Ufficiali. Per la maggior parte dei
reparti, il copricapo adottato era lo shakot in feltro nero con visiera e
guarnizioni in cuoio nero, filettature laterali in oro ed argento per
gli Ufficiali, rosse per la truppa. Nella parte frontale compariva un
fregio in ottone indicante la specialità o il reggimento di
appartenenza. Per la Cavalleria erano adottati elmi per i Dragoni,
Guardie del Corpo e Carabinieri. I Lancieri usavano la Czapka, mentre
gli Ussari e i Cacciatori lo Shakot. Alcuni reparti, in occasione di
eventi particolari, usavano con la gran tenuta un colbacco nero di pelo
d’orso. In inverno e con il cattivo tempo, veniva indossato un cappotto
di panno grigio-azzurrognolo o blu, a seconda dei corpi, mentre per la
Cavalleria era di panno bianco con un’ampia mantellina detta “
pellegrina”. Il copricapo, in caso di pioggia era ricoperto da una
fodera di tela cerata nera sulla quale era dipinto il fregio dell’unità.
Equipaggiamento
L’equipaggiamento individuale era costituito da uno zaino detto
“mucciglia”, dalle buffetterie e da una bandoliera con giberna. Tutto il
materiale era in cuoio. Lo zaino conteneva l’insieme dei capi di
vestiario e del corredo. Sulla parte superiore trovava posto una fodera
con anima circolare per avvolgere il cappotto e altri capi di corredo
che non entravano nello zaino. Il tutto era assicurato allo zaino con
apposite cinghie passanti in cuoio. Le buffetterie comprendevano una
tracolla in cuoio bianco per sostenere al fianco la sciabola o la
baionetta, nonché una bandoliera con giberna per la custodia delle
cartucce e l’occorrente per la pulizia delle armi. Facevano infine parte
dell’equipaggiamento un tascapane in tela e una borraccia di forma
lenticolare in vetro soffiato ricoperta di spesso cuoio.
Armamento
Le armi erano prodotte esclusivamente dalle industrie del Regno con
materiali provenienti in massima parte dalle miniere di Pazzano e di
Stilo in Provincia di Catanzaro e, in minore quantità dall’Isola d’Elba.
È il caso di sottolineare, che il ferro calabrese era giudicato il
migliore, dopo quello svedese. Il Real Stabilimento di Mongiana, con
un’area coperta di circa 16.000 m2 e con una manodopera di 600 unità era
la ferriera più importante del Regno. Questo opificio, produceva la
quasi totalità del ferro e dell’acciaio che veniva poi lavorato dalle
Industrie di Stato. Molti erano gli opifici per la costruzione di armi
bianche, da fuoco portatili, di artiglierie, affusti, carriaggi e
materiali da ponte. Le armi bianche e quelle da fuoco individuali, tutte
di ottima fattura, erano prodotte presso la fabbrica di armi di Torre
Annunziata e assemblate presso la Montatura d’Armi di Napoli. In un
anno, venivano prodotte 11.000 armi da fuoco e 3.000 armi bianche.
Presso l’Arsenale di Napoli si costruivano gli affusti per le
artiglierie, carriaggi e materiali da ponte. Per quanto riguarda questi
ultimi materiali, notevole era un parco ponti che, con solo 60 barche di
un modello particolare, consentiva l’allestimento di un ponte che
avrebbe permesso il superamento del fiume Po in qualsiasi punto. Altri
arsenali minori erano attivi a Palermo e Messina, mentre a Capua era
dislocato un opificio pirotecnico. Presso Castel Nuovo, a Napoli, la
Reale Fonderia produceva bocche da fuoco in bronzo. Essa, a partire dal
1835, fu sottoposta a continui ammodernamenti, con la messa in funzione
di forni Wilkinson e, nel 1841 furono attivati altri forni e macchinari
che consentivano la costruzione di cannoni in ferro. Sempre nel 1841,
iniziò l’attività l’Opificio Meccanico di Pietrarsa, per la produzione
di materiale per l’Artiglieria e il Genio nonché di rotaie ferroviarie.
L’Opificio contava ben 1050 addetti ed una superficie coperta di 34.000
m2. La produzione degli esplosivi avveniva presso la Real Fabbrica di
Polveri di Torre Annunziata che vantava una tradizione plurisecolare,
essendo nata nel 1652. Dal 1854 venne costituito un nuovo stabilimento a
Scafati. Le polveri venivano quindi stoccate nella polveriera centrale
di Baia e in quelle di Napoli, Capri, Capua, Gaeta, Palermo, Messina e
Siracusa. Le armi bianche in uso derivavano dal modello 1820;
ammodernate a partire dal 1830, restarono invariate sino al 1861. I
Generali avevano in dotazione delle scimitarre di stile orientale e di
pregevole fattura introdotte nel periodo Murattiano. I reparti a cavallo
adottarono le sciabole a lama dritta di derivazione francese, ad
eccezione degli Ussari della Guardia del Corpo che mantennero la
sciabola modello 1796 inglese. I Lancieri oltre alla lancia, erano
armati di una sciabola con lama leggermente curva, mentre le truppe
appiedate erano equipaggiate con il tradizionale briquet a lama larga
con fornimenti in ottone e fodero in pelle nera. Particolari erano le
daghe dei Guastatori con l’impugnatura forgiata a testa di leone e lama a
sega, mentre sontuose ed elaboratissime erano le sciabole da parata dei
“Tamburi maggiori”. Negli anni ’50, con l’introduzione delle prime
carabine che sostituirono in alcuni Corpi i lunghi fucili, furono
distribuite le caratteristiche sciabole-baionetta. Le armi da fuoco
portatili, subirono un processo di ammodernamento che iniziato nella
metà degli anni ’30, durò circa un decennio. Si passò dalle armi con
sistema di accensione a pietra focaia, a quelle con accensione a
luminello con capsule a fulminante. La trasformazione interessò anche la
rigatura delle canne, a tutto vantaggio della gittata e della
precisione del tiro (lastrina con fucili). Alcuni Corpi, come la
Cavalleria, continuarono ad avere carabine a pietra focaia, forse in
considerazione della scarsa possibilità di utilizzo delle armi da fuoco
in battaglia. Molti reparti a cavallo, erano armate con una coppia di
pistole da cavalleria. Per quanto attiene alle artiglierie, a partire
dal 1835, sotto l’impulso del Gen. Filangieri, Direttore dei Corpi
Facoltativi, l’Esercito Borbonico dette inizio ad un vasto programma di
rinnovamento dei materiali di Artiglieria. Furono effettuati studi sul
sistema Francese del 1827 e su quello Piemontese del 1830. La riforma
Napoletana optò per un sistema simile a quello francese, ma con profonde
modifiche e innovazioni razionali dovute al Ten. Col. Landi, allora
Direttore dell’Arsenale di Napoli. A seconda dell’impiego le Artiglierie
erano suddivise in: – Artiglieria da Campagna, con Batterie da
posizione e da battaglia; – Artiglieria da Montagna. Questo tipo di
Artiglieria armò anche le batterie per le Operazioni anfibie; –
Artiglierie da assedio o da Piazza. Era dotata di cannoni da 12 libbre
(122 mm) lunghi. – Artiglieria per la difesa da Costa. Impiegava cannoni
da 12 libbre e obici da 80 e 30 libbre per il lancio di granate. Anche
nell’Artiglieria Napoletana furono attivati studi per il perfezionamento
delle bocche da fuoco, nonché per l’applicazione della rigatura. Nel
1859/’60, nell’Arsenale di Napoli, si costruirono cannoni rigati in
bronzo utilizzando macchinari ideati dal Colonnello Afan De Rivera.
Artiglierie di questo tipo vennero impiegate nella difesa della
Piazzaforte di Gaeta e, dopo la caduta del Regno, alcune di esse furono
cedute allo Stato Pontificio.
Conclusioni
Il Real Esercito delle Due Sicilie fu un organismo militare che non
ebbe nulla da invidiare a tanti altri. Come altri, visse eventi ora
propizi, ora contrari, nelle alte sfere ebbe ottimi Generali, ma anche
personaggi mediocri sia sul piano professionale che su quello della
dignità personale. Cito per tutti il caso clamoroso del Generale
Pianell, Ministro della Guerra di Re Francesco II, che all’avvicinarsi
delle bande garibaldine, il 2 settembre 1860, rassegnò le dimissioni
nelle mani del giovane Sovrano, mostrandosi qualche tempo dopo
disinvoltamente per le strade di Napoli con l’uniforme ed i gradi di
Generale di Divisione del neo costituito Esercito Italiano. Per contro,
l’Esercito Napoletano annoverò moltissimi eccellenti Ufficiali, specie
nei gradi intermedi e bassi che alla caduta del Regno, fedeli al
giuramento prestato al loro Re, rifiutarono il passaggio nell’Esercito
Italiano nel quale potevano mantenere l’anzianità di grado e la paga
acquisiti e si avviarono verso un futuro di dura prigionia e di stenti
indicibili. Lo stesso discorso vale per i Sottufficiali e la truppa che,
guidati da capi valenti e coraggiosi, diedero sempre prova di fedeltà,
disciplina ed eroismo, seguendo il loro giovane Re negli epici 102
giorni di Gaeta e resistendo ad oltranza nelle fortezze di Messina e
Civitella del Tronto. La storia recente, ci ha insegnato che qualche
altra monarchia, di fronte ad eventi altrettanto tragici che hanno
segnato la nostra Nazione, non ha saputo dimostrare la stessa dignità ed
eroismo dell’ultimo Re delle Due Sicilie. L’Italia ufficiale, dopo 148
anni da quegli avvenimenti, disconosce ancora ed ignora le molte
gloriose imprese dell’Esercito Napoletano, per esaltare solo quelle
dell’antagonista. Il suo dramma è stato trasformato in farsa avente per
titolo “l’Esercito di Franceschiello” e le battute e le innumerevoli
derisorie barzellette sono tuttora circolanti. Gli eroi del Volturno, di
Chiazzo, di Gaeta, di Messina, di Civitella del Tronto, i martiri di
Fenestrelle, di San Maurizio Canavese e di tanti altri lager dei Savoia,
chiedono dopo quasi un secolo e mezzo, rispetto e giustizia. Li
chiedono all’Italia tutta, ma in modo particolare a noi, figli del Sud .Fonte:Associazione Due Sicilie Troja
http://www.altaterradilavoro.com/il-real-esercito-delle-due-sicilie-tra-il-1830-ed-il-1861/
Nessun commento:
Posta un commento