domenica 3 luglio 2016

Il sangue rosso di Marzabotto


di Emma Moriconi

Troppe verità sono rimaste nascoste: è necessario fare chiarezza sulle responsabilità di ciascuno
Sul sangue versato a Marzabotto molto si è detto e scritto. È una pagina orribile della storia del Paese, una pagina fatta di vittime innocenti massacrate. Ma la storia bisogna conoscerla tutta ed è necessario che ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Per conoscere la storia è indispensabile fondare ciò che si racconta su dati inoppugnabili, concentrandosi sulla realtà dei fatti. Anche su Marzabotto, come già abbiamo fatto in passato in merito ad altre brutte vicende patrie, è il caso dunque di fare chiarezza.
A dare un contributo essenziale alla ricostruzione della verità storica dei fatti del 29 settembre 1944 a Marzabotto è ancora una volta Giorgio Pisanò. Il prezioso lavoro del giornalista è unico, per molti aspetti. Su Marzabotto scrive: “precisiamo subito, data la gravità dei fatti che ora racconteremo, che la nostra documentazione poggia su decine e decine di testimonianze da noi raccolte sui luoghi stessi del grande dramma: testimonianze di superstiti, di familiari di caduti, di sacerdoti, di molte persone che poterono seguire con i loro occhi lo svolgersi degli avvenimenti”. Testimonianze, quelle che cita Pisanò, che gli sono state rese alla presenza di un altro giornalista, Antonio De Caro e di un maresciallo dei carabinieri, e delle quali possiede dichiarazioni firmate.
Questa premessa è necessaria, come pure è indispensabile sottolineare come nessuno mai ha smentito o corretto ciò che Pisanò ha scritto in merito.
Detto questo, passiamo ad analizzare i fatti. Cosa è stato scritto sui libri e sulle riviste, “specializzate” e non, è cosa nota, tuttavia vale la pena riferirlo ancora, almeno per sommi capi: secondo i corposi volumi che sono stati stampati lungo lo Stivale nel corso degli ultimi 70 anni, Marzabotto fu teatro di un’orribile rappresaglia operata dalle SS tedesche contro la popolazione civile innocente ed inerme; gli “eroici” partigiani della Stella Rossa – scrivono sempre gli stessi libri – combatterono eroicamente contro l’invasore non riuscendo a vincerlo e cadendo “gloriosamente” sul campo di battaglia dopo una strenua quanto purtroppo inutile “difesa della popolazione”.  Punto.
Non basta. E non è neppure esatto. Ricominciamo da capo, dunque.
Nel dicembre 1943, nel territorio di Marzabotto – circa venti km a sud di Bologna – si costituì il primo nucleo della Brigata Partigiana Stella Rossa. A comandarla c’era un certo Mario Musolesi, detto “Lupo”. Il lettore attento ricorderà che di questo personaggio abbiamo parlato recentemente. Musolesi, lo abbiamo già detto, non era un comunista, anche se come tale venne celebrato dai suoi “compagni”, gli stessi che lo fredderanno senza pensarci troppo proprio in quel 29 settembre del ’44. Sorvolando dunque sulla figura di Musolesi (ma il lettore può facilmente trovarne un approfondimento sul portale del Giornale d’Italia), bisogna però precisare che, se pure il Lupo comunista non era, ad inquadrare la Stella Rossa erano elementi del partito comunista. Cominciamo dunque a conoscere questa “Stella Rossa” attraverso le testimonianze raccolte da Pisanò: “L’attività principale dei comunisti della ‘Stella Rossa’ – scrive il giornalista in un virgolettato, riportando testualmente una serie di testimonianze dirette – consistette nella sistematica spoliazione dei civili. Casa per casa, i partigiani comunisti rastrellarono gioielli, oro, argento, danaro liquido. E guai a chi si ribellava. Guai a chi tentava di opporsi”. Gli episodi di questo genere furono moltissimi, Pisanò ne riferisce alcuni: persona anziane maltrattate e minacciate per ottenere denaro, furti e percosse per chi non pagava le somme pretese, volantini minacciosi affissi per le strade secondo i quali, per esempio, “se entro il 24 giugno la milizia fascista non avrà abbandonato Monzuno, il paese verrà raso al suolo” al fine di far evacuare il borgo per depredare più comodamente le abitazioni vuote. Un sacerdote riferisce al giornalista, con dovizia di particolari, di come i comunisti entravano nelle case della povera gente per rubare ogni cosa gli capitasse per le mani, e riferisce che “coloro che si lamentarono o che si ribellarono chiamandoli ladri, furono subito prelevati, bastonati a sangue e uccisi”. I casi riferiti da Pisanò sono tantissimi, impossibile riportarli tutti in questa sede. Chi volesse approfondire può tentare di reperire il volume “Sangue chiama sangue”: naturalmente si tratta di un libro difficile da trovare ormai, ma che ebbe negli anni Sessanta una vasta eco per le verità – scomode – che riportava, al punto che al 1965 ne erano state già stampate nove edizioni.
Con il tempo, i partigiani della Stella Rossa, dopo aver seminato adeguatamente il panico nel territorio in cui imperversano, cominciarono con gli agguati ad automezzi isolati tedeschi e ad un camion della Milizia. Le rappresaglie arrivarono, a scapito di civili innocenti. Altro che “eroiche resistenze” … Rappresaglie provocate dai partigiani, i quali lasciarono che altri, senza colpe, morissero al loro posto, per crimini commessi da loro.
Le bande sulle montagne cominciarono presto a diventare più consistenti di numero, anche perché gli angloamericani provvedevano a fornire loro armi e munizioni. Dalle numerose testimonianze recuperate da Pisanò, risulta anche che i partigiani comunisti penetravano nelle caserme dei carabinieri travestiti con divise tedesche e fasciste e uccidevano i militari che avevano aperto le porte ignari di chi avevano di fronte. Gli episodi orribili perpetrati dai partigiani della Stella Rossa furono tantissimi, tutti contrassegnati dalla stessa meccanica: colpire mezzi nemici isolati, scappare, lasciare la popolazione innocente alle inevitabili (e comunque ingiustificate) rappresaglie. Mai una battaglia diretta, mai il coraggio di affrontare il nemico e di combattere. Altro che “eroici scontri per difendere la popolazione”. Persone uccise per ragioni economiche o per violenza gratuita, fatte passare per “fascisti giustiziati” … “giustiziati”: strano termine per indicare degli omicidi.

Il dissidio tra il Lupo e la Stella Rossa e le menzogne che vengono sbugiardate
La parola d’ordine è: “Provocare la rappresaglia”
“I comunisti avevano un solo scopo: fare dilagare l’incendio per atteggiarsi poi a unici vendicatori degli innocenti massacrati”

La lunga premessa di cui sopra è indispensabile per raccontare la strage di Marzabotto. Dei fatti del 29 settembre ‘44 parleremo domani, ora occorre fornire un quadro esatto della situazione, ed è necessaria  ancora qualche precisazione.
Nei giorni antecedenti l’eccidio, le truppe alleate erano ormai a ridosso del territorio in questione. Questo rendeva baldanzosi i partigiani della Stella Rossa, che ormai facevano il bello e il cattivo tempo.
Con il trascorrere dei mesi, intanto, il dissidio tra i comunisti e il Lupo si faceva sempre più aspro. Ed ecco la testimonianza di un ex partigiano non comunista, raccolta ancora una volta da Pisanò: “L’urto tra Lupo e i comunisti irritò ancora di più i capi dell’organizzazione rossa, che già da tempo sopportavano a malincuore la presenza, in una zona ritenuta nevralgica, di un capo partigiano tutt’altro che ligio alle loro direttive [però all’inizio il Lupo era stato molto utile, essendo un personaggio dotato di un certo carisma e di un certo seguito, ndr]. Fu così – continua la testimonianza – che impartirono ordini precisi, ai loro seguaci che militavano nella Stella Rossa, affinché nella zona di Marzabotto la guerriglia si scatenasse con maggiore violenza. I comunisti avevano un solo scopo: fare dilagare l’incendio; provocare a tutti i costi le rappresaglie per atteggiarsi poi a unici vendicatori degli innocenti massacrati. Con i tedeschi esasperati, resi ancora più feroci dalle sconfitte, il giochetto sarebbe riuscito perfettamente”. Un giochetto che, effettivamente, ha funzionato sin troppo, e per troppo tempo: lo dimostrano le targhe apposte in giro per il Bel Paese celebranti  spesso comportamenti vili scambiati per eroici.
Non solo: “I comunisti – continua - giunsero a trasportare nella zona di Marzabotto o di Vergato o di Rioveggio, i cadaveri di soldati tedeschi uccisi in altre località affinché i comandi germanici si convincessero che quelli della Stella Rossa rappresentavano un pericolo gravissimo per le retrovie tedesche e si decidessero a scatenare la rappresaglia”.
Un fatto, che i libri non riferiscono, è cruciale nello svolgersi delle vicende subito precedenti l’eccidio del 29 settembre: i tedeschi sapevano che gli alleati si stavano avvicinando, era diventato urgente fermarli per impedire che giungessero a Bologna. Per questa ragione pensarono di proporre ai partigiani una tregua: “Se vi impegnate a restare tranquilli nei vostri accantonamenti – dissero loro, riferisce ancora Pisanò –  se vi impegnate a sospendere gli attacchi alle nostre linee di comunicazione, noi vi garantiamo la cessazione di ogni rappresaglia”. E mentre al Lupo sembrò una buona occasione per far cessare lo spargimento di sangue innocente, per  i comunisti era proprio ciò che non volevano: quel sangue innocente a loro serviva, invece, proprio allo scopo di spacciarsi per eroi e di addossare ogni possibile colpa sul nemico. Fu così che all’interno della Stella Rossa la spaccatura si fece ancor più profonda. “Allorché i parlamentari tedeschi tornarono nella zona e si avvicinarono a Cadotto, una località sui monti di Rioveggio dove si era sistemato il comando del Lupo – scrive ancora Pisanò – vennero attirati in un’imboscata e massacrati. Quest’imboscata, contraria a tutte le norme di guerra, imbestialì i tedeschi  che decisero di agire”. I fatti del 29 settembre sono l’oggetto della puntata di domani di questo piccolo speciale dedicato a quell’eccidio, a quelle vittime innocenti.
emoriconi@ilgiornaleditalia.org

Emma Moriconi


Ottocento tedeschi e millecinquecento partigiani, che si defilarono in fretta abbandonando i civili al loro terribile destino
Dopo l’imboscata ai danni dei tedeschi, quella che – dicevamo due giorni fa – Pisanò definisce “contraria a tutte le norme di guerra”, i tedeschi reagirono con forza: come previsto, come era facilmente intuibile. Le premesse di cui abbiamo parlato a lungo nella prima parte di questo piccolo speciale sono fondamentali per comprendere gli sviluppi della vicenda che intrise di sangue la terra di Marzabotto. I tedeschi, dicevamo, reagirono: “Il 17 settembre – scrive Pisanò – sul quotidiano bolognese Il Resto del Carlino, apparve il seguente comunicato che venne affisso anche in tutta la zona di Marzabotto: “Ultimo monito ai sabotatori. Italiani: i sistemi di lotta dei banditi hanno assunto il carattere bolscevico […] Tutti i colpevoli saranno puniti con la massima severità. In caso di nuovo attacco a persone, mezzi di comunicazione, pneumatici di automezzi, ferrovie, tram, telegrafo, telefono eccetera, le località dove si saranno verificati tali attentati saranno incendiate e distrutte. Gli autori dei delitti e i loro favoreggiatori saranno impiccati sulla pubblica piazza. Questo è l’ultimo avviso agli indecisi”.
La rappresaglia, insomma, non giunse all’improvviso. Tutti sapevano che i tedeschi avevano cattive intenzioni in caso di provocazioni, lo sapevano - meglio di tutti - i partigiani della Stella Rossa, e molte testimonianze raccolte da Pisanò convergono in questa direzione. I partigiani, però, non si preoccuparono certo di mettere in salvo la popolazione, che rischiava di essere massacrata per le provocazioni contro i tedeschi messe in atto proprio da loro, anzi: la sera del 28 settembre, il giorno prima dell’orrenda strage, organizzarono una festa a Cadotto. “Le sentinelle facevano baldoria – racconta un testimone diretto a Pisanò – Si ballava, si cantava, si beveva […]  quello che accadde dopo mi ha sempre fatto pensare che molti tra i capi, quella notte, non si ubriacarono affatto, visto e considerato che furono straordinariamente lesti, al momento opportuno, a tagliare la corda”.
Fu così che in quel 29 settembre la furia tedesca si abbatté sulla popolazione, secondo modalità che – al solito – sono state descritte dagli stessi partigiani – glorificatori di se stessi – in maniera diversa da come andarono realmente le cose. Alcune fonti partigiane hanno parlato di ventimila tedeschi contro ottocento partigiani, altre parlano di cannoni, carri armati, mortai, lanciafiamme, roba da film americano insomma, in cui i “pochi contro molti” sono eroici martiri che gettano la loro vita nel fuoco di una battaglia impari, senza paura …
Dice Pisanò: “I tedeschi non erano ventimila, non erano nemmeno mille; e non ci fu una ‘difesa eroica’ da parte dei comunisti della Stella Rossa: ci fu, salvo rarissime eccezioni di elementi rimasti isolati, una fuga generale verso le linee alleate. Non solo: i comunisti, ben nascosti nella boscaglia, assistettero spesso al massacro degli innocenti senza mai intervenire in difesa di quei poveretti che morivano per colpa loro. Racconta don Alfredo Carboni: ‘I partigiani che non furono subito uccisi, fuggirono: ma nessuno pensò di difendersi con le armi o di difendere i civili che abbandonarono in balia dei tedeschi’”.
Pisanò, per ricostruire la verità storica di quella orribile giornata, analizza gli atti del processo celebrato a Bologna nell’ottobre del 1951 nei confronti del maggiore Reder, che ordinò la rappresaglia. Ciò che emerge è che i tedeschi non erano ventimila ma ottocento. Che non avevano artiglieria, carri armati, aviazione e roba del genere. Inoltre, che nessun fascista partecipò alla strage. Il solo italiano presente insieme ai tedeschi (e, dice Pisanò, “lo riveliamo con un senso di orrore e vergogna”) era un ex partigiano della Stella Rossa che si era venduto alle SS. Continua il giornalista: “Il nome di questo Caino preferiamo non scriverlo: diremo solo che era noto nella zona con lo pseudonimo di ‘Cacao’. Fu ‘Cacao’ a guidare i tedeschi; fu lui ad indicare con precisione i casolari e le fattorie dove si erano alloggiati i principali comandi della brigata; fu lui ad indicare alle SS molti dei civili che avevano ospitato ed aiutato i partigiani”. Il resoconto che fa Pisanò, le testimonianze raccolte, le parole dei superstiti fanno rabbrividire.
Occorre ora riferire che i civili presenti nel territorio di Marzabotto poco prima dell’inizio dell’orrenda rappresaglia erano più di un migliaio, i partigiani circa millecinquecento.  I civili massacrati furono circa settecento, i partigiani uccisi solo una decina: lo accertò il processo Reder. Tutti i capi, naturalmente, si salvarono. L’unico a rimetterci la pelle fu proprio il Lupo. Di lui e della sua sorte abbiamo già parlato di recente, giova qui ripetere che la sua non fu una  morte sopraggiunta in battaglia, ma che fu freddato dai suoi stessi compagni, per i quali era diventato un personaggio scomodo, in quanto non allineato con i comunisti.


Il volumetto dell’ex partigiano
Arroccati su Monte Sole: altro che “eroici combattimenti ingaggiati contro il nemico”
“In quel camerone morirono sotto la mitraglia delle SS ottantun innocenti: dov’erano – si chiede Pisanò – i partigiani della Stella Rossa  mentre si compiva la strage? E dov’erano mente i tedeschi trucidavano 148 innocenti a Casaglia; 38 a Casa Benuzzi; 107 a Caprara di Marzabotto; 47 a San Giovanni; 145 tra Cadotto, Prunaro e Steccola; 49 a Cerpiano; 19 a Sperticano; 48 a Pioppe di Salvaro?”. È strano, eppure, in settant’anni di celebrazioni dei caduti di Marzabotto, nessun membro dell’Anpi ne ha mai parlato. In compenso sono sempre pronti, medaglie d’oro alla mano, a strillare di improbabili “rigurgiti fascisti” ogni volta che scatta un saluto romano, magari in occasione di cerimonie per la commemorazione di giovani, caduti spesso per mano della violenza politica. Dunque bisognerà che qualcuno lo dica, e la responsabilità della verità se la assume ancora una volta quel giornalista, fascista, amante della verità e della giustizia, che risponde al nome di Giorgio Pisanò: “I comunisti della Stella Rossa, mentre centinaia di donne e bambini morivano per colpa loro – scrive senza peli sulla lingua – stavano fuggendo verso le ospitali linee angloamericane. È ora di chiarire, infatti, che la brigata Stella Rossa non combatté ‘strenuamente’ sulle montagne di Marzabotto per difendere il ‘suo territorio’ dall’attacco nazista; è ora di specificare che non uno dei millecinquecento partigiani comunisti della Stella Rossa morì per difendere l’esistenza di quella povera gente presa nella morsa di ferro e di fuoco delle SS”.
Lo dimostra, dice ancora Pisanò, il resoconto di un ex partigiano, Renato Giorgi, che nel suo “Marzabotto parla” racconta per viva voce dei pochi superstiti quelle vicende. Nel volumetto non c’è alcun accenno a “strenui combattimenti”, sebbene tenti di tessere le lodi della brigata. È lo stesso Giorgi a pubblicare la testimonianza di tal Augusto Grani, superstite dell’orrenda strage, il quale dichiara testualmente di aver avvisato una settantina di partigiani che i tedeschi stavano sopraggiungendo: “Decisero di ritirarsi più in alto – racconta Grani – verso il Monte Sole in una zona lontana dalle abitazioni,  e lì schierarsi per affrontare i nemici. Infatti, al sopraggiungere dei nazisti, da noi non vi era più un solo partigiano e neppure segno alcuno della loro presenza”.
Occorre aggiungere che sul Monte Sole nessun partigiano oppose alcuna resistenza, di alcun tipo: gli unici a combattere lassù furono alcuni russi, prigionieri di guerra dei tedeschi. Ma il volumetto di Giorgi fa di più: riferisce i dettagli di un episodio che vale la pena riferire testualmente: “Prima dell’alba del 29 settembre – scrive Giorgi – assalita da soverchianti forze nemiche [ricordiamo che le ‘soverchianti forze nemiche erano – come accertato in sede processuale – ottocento uomini in tutto contro millecinquecento partigiani …], la nostra brigata si trovò stretta in una morsa di fuoco. Dopo alterne vicende una parte di noi fu asserragliata sulla cime scoperta di Monte Sole, chiusa in una trappola impossibile da infrangere date le nostre scarse forze [!] in confronto al numero [!] e all’armamento [!!] del nemico […] Dalla cima del monte, col binocolo seguivo i movimenti dei nazifascisti [occorre ribadire ciò che abbiamo già scritto sopra: il Processo accertò che nessun fascista partecipò alla rappresaglia]. Appena giorno avevo contato 54 grandi falò, di case isolate o a gruppi, bruciare intorno vicini e lontani. Dal mio posto di osservazione vidi quanto i nazisti facevano nel cimitero di Casaglia, la gente ammucchiata tra le tombe e loro che preparavano le mitraglie. Provammo a sparare [!], ma la distanza era troppa per un tiro efficace. Più tardi, sempre stretti in quel cerchio inesorabile, potei col binocolo seguire i nazifascisti [!!] nella loro opera di distruzione di Caprara. Vidi cinque nazisti trascinarsi dietro sedici donne legate una all’altra con un grosso cavo; una stringeva al petto un bimbo di pochi mesi. Anche in questo caso provammo a intervenire e sparare [!!] ma senza possibilità di portare un valido aiuto. Era per noi straziante assistere a fatti simili, impotenti a intervenire, e tale visione terribile era più debilitante che il fuoco nemico”. Qualche domanda: dunque ci fu o non ci fu questa “strenua resistenza contro il nemico”? Combatterono – come dicono – o “osservarono da Monte Sole con il cannocchiale, impotenti ad intervenire”? Cosa significa “provammo a intervenire, provammo a sparare”? Cosa c’è di “eroico” nel racconto dell’ex partigiano Giorgi? Siamo costretti, per ovvie ragioni di spazio, a chiudere qui questo piccolo speciale dedicato alle innocenti vittime di Marzabotto, alla memoria delle quali  però, bisogna dirlo, spetta almeno il diritto alla verità.
emoriconi@ilgiornaleditalia.org


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