Avete mai sentito il nome di Luisa
Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè? Probabilmente no. Provate a
chiedere ai vostri nonni e bisnonni: forse la conoscono davvero bene.
Classe 1914, fu uno dei volti più
celebri del cinema italiano negli anni ’30-’40, assoluta protagonista
nel panorama del “Cinema dei telefoni bianchi “. Marco Innocenti, giornalista de “Il Sole 24 Ore”, la descrive così:
«Bruna, impacciata, focosa, Luisa è bella da morire e ha già addosso quel broncio che porterà con sé nella sua breve vita. Gli occhi sono pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c’è qualcosa di erotico, di torbido e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, così amata dagli italiani di allora».
Era l’estate del ’39 quando la bella Luisa conobbe Osvaldo Valenti,
altro divo del cinema dell’epoca. I due furono colpiti dal dardo di
Cupido, che li portò a vivere un’intensa storia d’amore. Condivisero
gioie e dolori, piaceri e rinunce, ma vissero sempre insieme, sempre
uniti. Insieme ed uniti affrontarono anche le sorti dell’Italia a
seguito del tradimento dell’8 settembre. Valenti, che fino ad allora non
aveva mai avuto incarichi nella compagine fascista, si arruola
volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana. Nel ’44 è tenente
della Xa Flottiglia MAS. Nel frattempo, pare che la coppia frequenti
Villa Triste a Milano, sede della famigerata Banda Koch. Dico “pare”
perché non sono stati mai accertati legami tra quest’ultima e la coppia
Valenti-Ferida. Nulla di certo, nulla di dimostrato; solo congetture e
trame vigliacche, sufficienti per condannarli a morte. Difatti, il 10
aprile ’45 Valenti, forse per aver salva la vita e,soprattutto, quella
di Luisa che aspettava un bambino, (la coppia aveva già concepito un
figlio, morto purtroppo poco dopo la nascita), decise di consegnarsi
spontaneamente ai partigiani.
Si rifugiò in casa di Nino Pulejo,
appartenente alle Brigate Matteotti, il quale però lo scaricò, affidando
le due celebrità al comandante Marozin della Divisione Pasubio, che non
era certo uno stinco di santo, dato che era stato trasferito a Milano
dal Veneto per sfuggire ad una condanna a morte del CLN, (pensate!), per
furti, abusi e altri crimini. Il 21 aprile Marozin incontra Sandro
Pertini il quale chiede di Valenti; avuta la notizia della sua
prigionia, il “grande presidente” ordina lapidario: “fucilali (quindi
anche la Ferida, incinta! Ndr); e non perdere tempo. Questo è un ordine
tassativo del CLN. Vedi di ricordartene!”. «Ordine tassativo del CLN:
chi lo avrà dato e quando? Di quell’ ordine, che sarebbe stato
determinato dall’accusa ai due d’ avere partecipato alle torture della
banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi, (ripeto: circostanza
mai dimostrata! Ndr), dovrebbe esserci stato un documento scritto.
Nessuno lo ha veduto. Di scritto c’ è soltanto un foglio in data 25
aprile dove si legge che ‘… il CLN su proposta dei socialisti vota
all’unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e
Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di
guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici’.
Dunque, un deferimento, non una
sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, c’era la
fucilazione facile e bastò l’intervento di Pertini a decidere la sorte
dei due attori. Marozin voleva scambiarli con cinque dei suoi presi
prigionieri dai tedeschi. Fallito il tentativo, non ebbe scrupoli a liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l’ ordine.» Così,
il Valenti e la Ferida furono condotti in una cascina, ove vissero i
loro ultimi giorni. L’attore subì un processo sommario, al termine del
quale fu confermata la condanna a morte. Condanna che non fu mai
comunicata al diretto interessato e che riguardava anche la compagna.
Ignari della loro fine, i due innamorati furono caricati su un camion
tra gente rastrellata. Giunti in via Poliziano, furono fatti scendere e
messi faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di
lana, destinata a scaldare i piedi innocenti di quel bambino che non
vedrà mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al suolo,
stretti tanto nella vita quanto nella morte. Su di loro furono adagiati
due cartelloni. Due scritte rosse dicevano: «I partigiani della Pasubio
hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I partigiani della Pasubio hanno
giustiziato Luisa Ferida». Tre vite spezzate in colpo solo. Due
vite probabilmente incolpevoli riguardo le accuse di collaborazionismo
nazi-fascista e di aver compiuto ogni genere di atrocità a Villa Triste;
una semplicemente candida. Come se ciò non bastasse, Marozin e i suo
compagni depredarono anche gli averi della coppia defunta, finiti poi
chissà dove. Negli anni successivi, la madre della Ferida domandò una
pensione di guerra, dato che traeva le sue sostanze dai proventi della
figlia. La domanda rese doverosi degli accertamenti sulla vicenda. Le
indagini dei Carabinieri portarono alla conclusione che “la
Manfrini, (vero nome della Ferida, ndr), dopo l’8 settembre 1943 si è
mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è
macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione
italiana e del movimento partigiano”. Conclusione ribadita dallo
stesso Marozin, il quale disse: “La Ferida non aveva fatto niente,
veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti” [G.
Marozin, Odissea Partigiana, Milano, Azione Comune, 1965]. Nemmeno
Valenti aveva probabilmente fatto niente, come fu poi confermato dalla
Corte d’Appello di Milano, la quale ebbe a dire che la Ferida e Valenti
non furono giustiziati, bensì assassinati. Su questa posizione anche
Romano Bracalini, biografo di Valenti, che dice:
Questo
è ciò dice la storia, ciò che è realmente accaduto in quei giorni
maledetti, che qualcuno si ostina ancora a chiamare “giornate radiose”. A
voi ogni commento sull’accaduto. In cuor mio spero solo che prenda
avvio un processo di seria revisione storico-politica riguardo la
persona di Sandro Pertini, indegnamente spacciato per un eroe del nostro
tempo, per un uomo degno di stima e ammirazione. I fatti dicono il
contrario: fu un inetto e, per giunta, con le mani sporche di sangue.
Direi che è giunta l’ora di smettere di scrivere l’agiografia di questo
personaggio, di questo falso mito e di iniziare a dire la verità,
cominciando ad insegnarla sin dalle scuole, perché non c’è peggior
delinquente di un cattivo che gioca a fare il buono.
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