martedì 17 maggio 2016

Verità per la generazione che non si è arresa

La storia attraverso i documenti e le testimonianze - 

Ecco quanto scrive don Pietro Scaccia al Prefetto: una denuncia pesante, che deve far riflettere.

Dal lavoro egregio di Giorgio Pisanò e dalle ricerche negli Archivi emergono fatti troppo a lungo negati
La Resistenza per certi aspetti è un falso storico. Non esiste nessun mito da celebrare, nessuna moralità superiore. Piuttosto sarebbe meglio descriverla in molti casi come una canea urlante.
Quello che conta davvero è la verità, quella storica, quella che ci arriva direttamente dai documenti negli archivi di Stato.
La Resistenza è stata la causa principale della guerra civile che ha dilaniato  la nostra Patria. Ed è evidente come la resistenza politica e armata si sia svenduta all'invasore. Divenendo eversiva nel momento in cui l'interesse nazionale è stato tradito.
È stata inoltre ladrocinio ed omicidio. La costruzione della casa Repubblicana poggia sul sangue e sul risentimento di una parte. L'epopea dei vincitori ha quel puzzo stantio dell'inganno.
Giorgio Pisanò scrive in Io Fascista: “non aveva nessuna importanza che avessimo sempre rispettato le leggi di guerra. Anzi, proprio perché lo avevamo fatto dovevamo essere diffamati, calunniati, uccisi. Questa era la nuova legge dei vincitori secondo la quale chi aveva fatto il suo dovere, difeso la sua terra, servito le sue idee, era soltanto un criminale”.
Quello che colpisce è l'evidenza dei fatti: i militari Repubblicani erano inquadrati in un esercito, palesavano gradi e armi, rispondevano a dei superiori. Difendevano l'idea e la Patria da un esercito nemico. Rispettavano le leggi di guerra.
Non possiamo affermare lo stesso per i partigiani, capaci di colpire all'improvviso, spesso rifugiati nell'ombra, privi del coraggio necessario per affrontare uno scontro armato vero. Spesso, infatti, alla prova del fuoco, i partigiani dovevano battere in ritirata.
Continua Pisanò: “chiunque vestisse la divisa fascista stava per diventare un bersaglio. Di qui la paura della gente, il girarci alla larga nel timore di restare vittime di qualche attentato. E la gente aveva paura: ma non di noi. Aveva paura degli attentati comunisti, dei gappisti. Sapevo che, ogni tanto, apparivano alla periferia della città. Circolavano in bicicletta, e quando avvistavano un fascista o un tedesco, gli scaricavano addosso le rivoltelle e fuggivano. Ma i gappisti agivano soltanto nei confronti di soldati isolati. E io e Mafilas eravamo in due: troppo per loro”.
Giorgio Pisanò il 19 aprile 1945 si trova a Milano in attesa di partire per il Ridotto Alpino. È un giovane militare, fascista coerente con le proprie idee (rifiuta di mettersi in abiti civili e di salvarsi come gli ha proposto un amico a Como), soprattutto è capace di elaborare gli avvenimenti di quei mesi lasciando una testimonianza decisiva.
Assiste alla discussione avvenuta in uno stabile fra viale Maino e viale Vivaio. Alcuni individui in borghese chiedono ai militari disposti in fila di intervenire perché i capi dei partigiani vengano passati per le armi, prima di lasciare Milano.
I ragazzi di Salò insorgono. Il coro è lo stesso e Pisanò la pensa allo stesso modo. “Noi siamo soldati non assassini”. Qualcuno gridò “Ma il Duce è al corrente di questo piano?” Da un altro gruppo si leva un pensiero che tutti condividono prima di uscire dal palazzo e tornare ai reparti di appartenenza “Sono loro che hanno la responsabilità di tutto il sangue versato. E loro se lo devono tenere”.
E di partigiani, in quella primavera del 1945, non c'è traccia. Nessun tentativo di prendere Milano con le armi. Anzi, le brigate comuniste si guardano bene dal farlo. Verrebbero spazzate via.
I capi partigiani non vengono passati per le armi, per intervento diretto di Mussolini: non avvalla quelle mattanze. Continua a preparare la smobilitazione, direzione Valtellina. Lo stesso Pisanò parte la sera del 19 aprile.
Milano viene così presa dai partigiani e dalla Resistenza quando ormai in città non si trova più nessun presidio Fascista. E fanno quello che gli riesce meglio: distruggono tutto ciò che ricorda l'Italia Fascista. Devastano i locali della Milizia.
Pisanò intanto raggiunge la Valtellina. Per giorni non vede un partigiano. Nella difesa di Grosio, ogni tanto qualche partigiano tira un colpo di fucile ben nascosto nelle montagne. Sono i cecchini. E uno di questi è particolarmente stupido.
Alberto Ravot, 18 anni, sottotenente al comando della Guardia Repubblicana racconta a Pisanò: “Un cecchino tiene l'arma puntata sulla porta. Ogni volta che ci tocca aprirla, spara una fucilata. Ma noi abbiamo imparato a fregarlo, e quel cretino non l'ha ancora capita. Prima spalanchiamo il battente. Lui allora spara. La pallottola entra qui dentro ma, mentre lui ricarica, c'è tutto il tempo per saltare fuori”.
I Fascisti abbandonano Grosio solo per un ripiegamento in appoggio ad altri reparti. I partigiani sono alle porte del paese ma non si vedono. I militi pensano che se non hanno attaccato frontalmente, potrebbero farlo durante il loro ripiegamento. Decidono così di anticipare la manovra.
Pisanò sente i colpi di mitra e di fucile quando ormai si trova a cinquecento metri da Grosio. Così scrive: “I partigiani, accortisi che in paese non c'era più un fascista, si erano decisi a liberarlo”.
L'ultima battaglia si svolge a Tirano. Sono pagine gloriose per i militari della Repubblica Sociale. Che resistono fino alla sera del 27 aprile 1945. Gli assalti nulla hanno potuto contro un nemico rintanato nelle gole delle montagne, capace di un tiro preciso sui militari che azionavano allo scoperto l'artiglieria. Seguirà poi una lunga marcia che porterà gli uomini del ridotto alpino nelle mani dei partigiani.
La guerra era terminata. La Resistenza, invece, maneggiava le armi come mai le aveva usate contro i reparti militari dei Repubblicani. La viltà, la protervia e la ferocia della Resistenza raggiunge un apice mai provato prima: sangue e morte dispensata nei confronti di soldati disarmati.
È la testimonianza di Giorgio Pisanò che restituisce il mito apocalittico della Resistenza. La racchiude nel perimetro che le compete, quello dell'omicidio.
“Cinquecento dei nostri pagarono con la vita, nei primi tredici giorni di maggio, la loro fedeltà a Mussolini e all'Italia. La mia testimonianza diretta   (di Pisanò nda) riguarda infatti solo ciò che vidi accadere nel carcere di Sondrio”.
La strage infuriò ovunque e, molto spesso, ne ho parlato nelle colonne di questo giornale. Dongo, Como, Lecco, Domaso, Tirano, Morbegno, Ardenno. Chi non ha tradito riposa adesso nell'onore e nella gloria della Patria. A noi il dovere di celebrare nel ricordo e nella verità la generazione che non si è arresa.
Una prova incontrovertibile
La Resistenza ha davvero molto da farsi perdonare. E alla prova dei fatti ci si arriva sempre scostando la polvere che gli anni hanno depositato sui faldoni e gli incartamenti degli archivi.
Sono infatti le carte, i documenti ritrovati che parlano. Capaci di restituirci alcune delle verità taciute. Chiunque voglia muovere obiezioni, deve farlo ad altro indirizzo, sicuramente non a quello del Giornale d'Italia.
Così anche un semplice arciprete, di una piccola parrocchia, può essere, ed effettivamente diventa, un importante testimone dei mesi a cavallo fra l'aprile e il maggio del '45.
Caccia Pietro, nato a Como nel 1882 (muore nel maggio del 1958), dottore in Sacra Teologia, è Professore di Teologia al Seminario di Como. Nel giugno del 1938 diventa parroco arciprete della parrocchia di Fino Mornasco, un paesino che si trova nella provincia di Como.
Il 24 maggio 1945 scrive al Prefetto di Como: “Se si va avanti così - dice tra l'altro -  finiremo per avere una dittatura peggiore di quella caduta [...] Per certa gente tutti i mezzi al fine sono buoni, ma non per i galantuomini”.
Don Pietro Caccia osserva, prende nota, si preoccupa di proteggere i suoi parrocchiani. Infine scrive quello che lui stesso chiama “rapporto per gli alleati”.
“In teoria nei comuni si sono costituiti i cosiddetti comitati di liberazione nazionale, composti dai rappresentanti dei vari partiti. Di fatto si sono affrettati a impadronirsi del potere e a esercitarlo i rappresentanti dei partiti di sinistra e quasi dappertutto di quello di estrema sinistra, i Comunisti. I quali dicono di agire in nome del comitato di liberazione ma il più delle volte senza prima consultarlo e averne l'approvazione per atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Commettono così atti arbitrali, quali sequestri di oggetti personali e citazioni di persone a rispondere di addebiti di vario genere davanti a loro soltanto. Qui a Fino Mornasco per di più si sono insediati da padroni in un locale del Municipio”.
La testimonianza di Don Caccia continua poi confermando quanto scritto in precedenza sulle colonne di questo giornale: “I partigiani comunisti si sono procurati mezzi ingenti con atti di vera rapina perpetrati sulle strade ai posti di blocco nei primi giorni della liberazione. Ora (siamo a maggio del 1945 nda) se li procurano con imposizioni su persone che hanno a temere per il loro passato politico. Ma si sono specialmente procurati armi, quelle anzitutto sottratte alle formazioni militari fasciste (per evitare di armare ulteriormente i partigiani molti Repubblicani prima di negoziare la resa decidono di rendere inservibili le armi in dotazione nda), e non hanno alcuna intenzione di consegnarle, come è stato comandato. A me lo hanno confessato apertamente”.
Don Caccia continua svelando ancora gli aspetti più torbidi della Resistenza, gli stessi di cui spesso scriviamo sul giornale. “Delle armi si servono, come è noto, anche per esecuzioni sommarie di persone arrestate per la loro attività di Fascista. Questo è un gravissimo disordine, perché in aperto contrasto con le più elementari leggi divine e umane. E quante persone sono già scomparse in modo così illegale senza che siano stati ricercati e puniti i responsabili. Si ha la netta impressione che tutto ciò rientri in un sistema, risponda a un piano studiato e attuato in preparazione di cose ancor più gravi in un futuro più o meno prossimo. Del mio comune non è stato finora ucciso nessuno”. (Nel vicino comune di Casnate, invece, vengono fucilati sette Fascisti e tutt'ora svolgo un'indagine per risalire ai nomi e ai fatti,nda).
Il parroco di Fino Mornasco, don Caccia, non è certo uno sprovveduto. E non è solo un uomo di cultura, di chiesa. È soprattutto un uomo coraggioso, visti i tempi bui della liberazione.
Concludendo il suo rapporto scrive che “si deve constatare che quasi tutti i comuni sono di fatto in mano ad individui di dubbia o nessuna moralità, che si valgono del potere per i loro fini personali o di partito. La gente quindi non li stima e ne ha paura. Come pure non ha fiducia nelle forze di polizia che, come è avvenuto qui a Fino Mornasco, hanno disarmato i Carabinieri e preso il loro posto, e che hanno tutta l'aria di milizie di partito”.

Alessandro Russo


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