martedì 17 maggio 2016

Settembre 1943 i giorni della vergogna italiana


Il maresciallo e senatore Badoglio, diventato capo del governo dopo la drammatica seduta del Gran Consiglio il 25 luglio del 1943 che aveva portato alla caduta del fascismo e all’esautorazione di Mussolini, d’accordo con il re Vittorio Emanuele III, si era adoperato per procurare l’uscita dell’Italia dal conflitto. Ma, mentre incaricava i suoi emissari di avviare le trattative, nello stesso tempo provvedeva a riaffermare la volontà di proseguire la guerra accanto all’alleato tedesco. Fu proprio Badoglio a chiedere al comando germanico di dislocare sul territorio della Penisola un congruo numero di divisioni per prevenire un possibile sbarco degli anglo-americani. Un campione di doppiezza, neanche tanto avveduto, visto che a Berlino conoscevano bene le sue incaute mosse. Le trattative, gestite in maniera approssimativa da parte dei rappresentanti ufficiali e non del governo italiano , si conclusero agli inizi di settembre.
Il generale Castellano (in borghese) ed il generale Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell'armistizio a Cassibile, il 3 settembre 1943.
Il generale Castellano (in borghese) ed il generale Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell’armistizio a Cassibile, il 3 settembre 1943.

L’ARMISTIZIO DI CASSIBILE
L’Italia non aveva molto da scegliere: doveva piegarsi senza porre condizioni di sorta. Badoglio accettò il diktat e così il 3 settembre 1943 fu siglato segretamente l’Armistizio a Cassibile, in Sicilia su cui il generale Castellano e lo statunitense Bedell-Smith apposero le firme.

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Ci si prese, però, ancora qualche giorno per rendere noto l’accordo: ciò al fine di consentire al governo italiano di predisporre misure idonee per evitare ritorsioni da parte dei tedeschi. All’improvviso, però, gli Alleati, stizziti dall’atteggiamento incerto e contraddittorio del governo italiano, decisero di divulgare l’avvenuta sottoscrizione del patto. Erano le 18.45 dell’8 settembre quando ‘Radio Londra’ trasmetteva un messaggio di Eisenhower che annunciava al mondo intero la resa incondizionata delle forze armate italiane. Colto di sorpresa Badoglio si vide costretto a fare altrettanto: alle 19.30 si recò nella sede romana dell’Eiar e, presentato laconicamente da uno speaker, lesse il testo di un breve comunicato: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. L’Italia, dunque, usciva dalla guerra passava da un campo all’altro ribaltando antiche alleanze. Eppure proprio quell’8 settembre, il re Vittorio Emanuele, ricevendo a Villa Savoia l’ambasciatore Rahn, aveva inviato un messaggio al Fuhrer nel quale ribadiva che l’Italia era “legata alla Germania per la vita e per la morte”. Mentre, però, recitava il suo menzognero copione, alcuni suoi fiduciari avevano provveduto a spedire al sicuro in Svizzera una quarantina di autocarri stracolmi di quadri, oggetti preziosi, mobili, sculture, tappeti, argenterie e, naturalmente, i gioielli della Corona. Il giorno seguente (9 settembre) i sovrani e buona parte dei ministri del governo, Badoglio in testa, decisero di abbandonare Roma per correre incontro agli Alleati che, sbarcati in Sicilia (10 luglio), stavano risalendo lo Stivale. Alle prime luci dell’alba una interminabile fila di automobili si avviò da Palazzo Baracchini, sede capitolina del ministero della guerra: la fuga era iniziata. Il corteo, scortato da alcune autoblindo dell’esercito italiano, trasportava passeggeri di rango assai elevato: il re Vittorio Emanuele III, la regina, il ministro della Real Casa Acquarone, il maresciallo Badoglio, Umberto di Savoia, i generali Ambrosio e Roatta, rispettivamente capo di Stato Maggiore generale e capo di Stato Maggiore dell’esercito, il ministro della marina De Courten ed altri numerosi militari e funzionari governativi.

LA FUGA
Badoglio e De Courten , dopo aver fissato per la mezzanotte il ritrovo presso il molo di Ortona, nel pomeriggio si diressero all’aeroporto di Pescara per disporre il decollo di un velivolo da ricognizione che accertasse la presenza nell’Adriatico della corvetta “ Baionetta” in navigazione verso sud . Mossero poi alla volta di Pescara dove giunsero alle 21 qui però, la popolazione dimostrò di gradire molto poco la precipitosa fuga dei reali.  Poiché mancavano diverse ore all’imbarco i reali e i loro dignitari si recarono a Crecchio dove furono ospiti del Duca di Bovino Giovanni De Riseis (proprietario dell’omonima villa a Pescara) e della duchessa Antonia Gaetani nel loro castello nobiliare. Durante il pranzo e nelle ore successive trascorse dai Bovino si ebbe modo di parlare di ciò che stava accadendo in Italia e della precipitosa partenza. Fu proprio la duchessa Gaetani , pur essendo molto legata ai Savoia ad introdurre l’argomento facendo osservare loro, anche se con cautela e deferenza, che si trattava molto probabilmente di una scelta sbagliata, anzi la nobildonna si fece in seguito più ardita suggerendo a Sua Maestà imperiale di fare marcia indietro , secondo alcuni storici, su suggerimento del Principe Umberto che era notoriamente contrario all’abbandono del Quirinale. Ma lo stratega della “fuga” Badoglio si affrettò a spiegare i motivi della scelta mentre il Re , pur ringraziando la duchessa per aver espresso la sua opinione dettata da sentimenti affettivi , fece presente che in casa Savoia, una volta presa una decisione , non si tornava mai indietro. Puntuale a mezzanotte l’imbarcazione gettò l’ancora al largo di Ortona. Quasi contemporaneamente , preceduta dall’ululato delle sirene per simulare un allarme aereo, la colonna reale giunse al molo saraceno scortata da 250 carabinieri e soldati. In attesa di imbarcarsi c’era tanta gente, più di quanta Badoglio avesse supposto, tra cui diverse autorità politiche e militari desiderose di sfuggire ai tedeschi. Quando fu spiegato che , date le dimensioni ridotte della nave, potevano imbarcarsi solo una trentina di persone, scoppiò il putiferio, volarono parole grosse , proteste e minacce. Uno spettacolo indecoroso si presentò al cospetto di numerosi ortonesi che, scesi al porto per curiosità, ne rimasero scandalizzati. La fase esecutiva dell’imbarco fu affidata al generale Agostinone (che non sopravviverà alla battaglia di Ortona) che però , dato l’ arrembaggio per salire a bordo, non riuscì ad evitare che altre 29 persone si infilassero nella corvetta, quasi il doppio del consentito. Le concitate manovre di imbarco durarono un paio d’ore. Avventuroso fu anche il trasbordo dal peschereccio alla nave, ancorata al largo di Ortona, predisposto attraverso un’apposita scala. Quando fu la volta della regina Elena, nonostante le tante cautele usate, poco mancò che cadesse in mare. Il principe Umberto invece più disinvolto prese in braccio il suo minuto genitore Vittorio Emanuele che, giunto sulla nave cercò subito di Badoglio nel timore di essere stato abbandonato dal capo del Governo ideatore della fuga. Alle due di notte la nave da guerra poté finalmente salpare alla volta di Brindisi tra il sollievo generale per condurre al sicuro il Re sconfitto e il principe ereditario. Un vecchio pescatore del luogo “ Zì Bastiane”, presente alla scena, si racconta che avesse esclamato “ loro si son messi al sicuro e a noi chissà che ci aspetta”. Un esatto e terribile presentimento il suo se si pensa a quello che accadde ad Ortona ed ai suoi abitanti. La navigazione nell’Adriatico si protrasse per circa nove ore e non fu molestata dai tedeschi che si limitarono a qualche controllo di un innocuo aereo di ricognizione che effettuò dei volteggi quasi a mò di saluto.
Questo confermerebbe che i tedeschi, con o senza il consenso di Hitler, preferirono questa soluzione per i reali d’Italia e per il loro primo ministro.

UNA BRUTTA PAGINA DELLA NOSTRA STORIA: settembre 1943 i giorni della vergogna
In seguito all’annuncio ufficiale dell’armistizio la sera dell’8 settembre, le forze di terra italiane, abbandonate a loro stesse e senza ordini e piani precisi, non furono in grado di opporre un’efficace e coordinata resistenza all’occupazione nazista dell’Italia, si disintegrarono in poche settimane e finirono in larga parte preda dei tedeschi. Fu in tal modo consentito all’ex alleato di occupare agevolmente oltre due terzi del territorio nazionale, tutti i territori oltremare e catturare ingenti quantità di bottino. Inoltre circa seicentomila militari italiani furono dai tedeschi considerati non come prigionieri di guerra, soggetti quindi alla convenzione di Ginevra , ma come “internati”, classificazione che dava loro, secondo un’interpretazione voluta da Hitler in persona, il diritto di trattare e sfruttare i prigionieri con metodi e modi del tutto al di fuori delle convenzioni internazionali. Con la repentina avanzata alleata in Calabria e gli sbarchi anfibi di Salerno e Taranto in concomitanza con l’Armistizio, il restante terzo del Paese fu rapidamente occupato dagli angloamericani. L’Italia fu perciò trasformata in larga parte in un campo di battaglia, usata dai due contendenti: rispettivamente dal primo per la difesa del territorio e degli interessi strategici e politici del Terzo Reich, e dai secondi per attaccare l’Asse nel suo “ventre molle”, attirando in Italia il maggior numero possibile di divisioni tedesche per sguarnire gli altri fronti. Il Paese fu così esposto alle carneficine e alle sciagure di ulteriori venti mesi di guerra, sottoposto alla duplice occupazione di truppe straniere spesso indifferenti alle condizioni della popolazione civile e al patrimonio artistico, industriale e infrastrutturale italiano. Indro Montanelli, a proposito di questa terribile pagina della nostra storia, sentenziò: “A testimonianza dell’unica vera battaglia che lo Stato Maggiore italiano abbia ingaggiato dopo l’8 settembre, restavano solo fagotti e cartocci imbrattanti il molo”. In tutto questo marasma si perse di vista il maresciallo Badoglio che, non va dimenticato, era il capo del governo in carica. Qualcuno giunse a pensare che il vecchio militare, mosso da un vigoroso sussulto di orgoglio, avesse invertito la marcia per far ritorno a Roma. Ma la maggior parte degli storici ha rigettato questa ipotesi aggiungendo che lui, non volendo correre rischi, si era imbarcato sulla ‘Baionetta’ fin da Pescara, evitando così i disordini di Ortona. L’indecorosa fuga dei regnanti sabaudi e dell’esecutivo provocò guasti irreparabili per le tante centinaia di migliaia di soldati dislocati in Italia e all’estero, che restarono disorientati, confusi e, soprattutto, privi di ordini e di direttive. Ma ciò, per quei signori, fu soltanto un particolare di marginale importanza. Quel che contava davvero era mettere in salvo la pelle e conservare ben stretta la poltrona: tutto il resto era assolutamente secondario. Del resto anche oggi è sempre la logica dei superiori interessi che prevale. Ecco perché quell’8 settembre 1943 resta una data luttuosa e nefasta, l’indelebile giorno della vergogna nazionale. A testimonianza dell’ostilità nei confronti del re traditore e di Badoglio e della loro vergognosa fuga, venne posta nel 1945 una lapide presso il porto di Ortona con la seguente scritta:
Da questo porto, la notte del 9 settembre 1943
L’ultimo Re d’Italia fuggì
Con la Corte e con Badoglio
Consegnando la martoriata patria
alla tedesca rabbia.
Ortona Repubblicana
dalle sue macerie e dalle sue ferite
grida eterna maledizione
alla monarchia dei tradimenti
del fascismo e della rovina d’Italia
anelando giustizia
dal Popolo e dalla Storia
nel nome santo di Repubblica. 9/9/1945
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
I documenti e le immagini sono tratti dagli Archivi di Stato di Pescara e di Chieti , da: “ Pescara e la guerra” di Alfonso Di Russo e da “ Settembre 1943 i giorni della vergogna” di Marco Patricelli.

http://portaledelfascismo.altervista.org/settembre-1943-i-giorni-della-vergogna-italiana/


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Armistizio di Cassibile – 8 settembre 1943

 Cronaca della giornata in cui l’Italia si arrese agli Alleati e si illuse che la guerra fosse finita.
Intorno alle 19.30 dell’8 settembre 1943 il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano, entrò nella sede dell’EIAR, la radio di stato italiana. Al posto dell’uniforme indossava un abito grigio e un cappello floscio. In pochi minuti registrò un breve messaggio, mentre la programmazione veniva interrotta per mandare in onda marce militari. Verso le 19.40, lo speaker Giovan Battista Arista annunciò il maresciallo e poco dopo la sua voce registrata lesse il proclama con cui il Regno d’Italia annunciava la resa.

L’annuncio dell’armistizio


« Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. »
Una mattinata tranquilla
 
Soltanto poche ore prima, Badoglio non aveva idea dell’annuncio che avrebbe dovuto dare di lì a poco. La mattina dell’8 settembre era cominciata in modo tranquillo per il re, il governo e per i capi dell’esercito. Ad esempio, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, stava tornando a Roma in treno, dopo essere andato a visitare il figlio a Pinerolo.
Quella mattina l’Italia era ancora una fedele alleata della Germania nazista, in guerra contro gli Alleati. Mussolini era stato arrestato 45 giorni prima, poche settimane dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia. Subito dopo la caduta del Duce il nuovo primo ministro, il maresciallo Badoglio, aveva assicurato la Germania che l’Italia avrebbe continuato la guerra al suo fianco. In realtà la caduta di Mussolini era soltanto il primo passo dello “sganciamento”, la decisione presa dal re e dagli altri comandi dell’esercito di abbandonare la Germania e uscire dalla guerra. Non era un piano semplice da attuare, perché in Italia c’erano già decine di migliaia di soldati tedeschi e altre forze arrivano ogni giorno dal passo del Brennero per difendere il paese dall’avanzata alleata. Quelle truppe non avrebbero permesso senza reagire all’Italia di arrendersi. Per tutto luglio e agosto, nella massima segretezza, i capi del governo italiano cercarono, spesso goffamente, di prendere contatti con gli Alleati per negoziare la resa, mentre professavano lealtà alla Germania. Lo stato maggiore, ad esempio, era diviso in due. La gran parte degli ufficiali lavorava, come al solito, alla conduzione della guerra a fianco della Germania. Una piccola sezione distaccata studiava, in gran segreto, le misure da prendere quando l’Italia avesse capovolto il fronte. Con discrezione truppe e mezzi vennero spostate intorno a Roma per difendere la capitale. Quando però arrivo il momento dello “sganciamento”, i piani si dimostrarono tragicamente inadeguati.

Rimandare
 
La mattina dell’8 settembre non sembrava ci fosse ancora la necessità di mettere in atto alcun piano. Le trattative in realtà erano già terminate: l’armistizio era stato firmato e si trattava soltanto di decidere il giorno in cui annunciarlo. Gli Alleati avevano fretta di concludere: il 7 settembre erano arrivati a Roma due generali americani, con lo scopo di scoprire se fosse possibile lanciare una divisione di paracadutisti sulla città dopo l’annuncio dell’armistizio. Badoglio aveva parlato loro la notte tra il 7 e l’8. I due generali erano arrivati nella sua villa alle tre di notte, dopo aver passato quasi tutto il giorno in pranzi, cene e rinfreschi con varie personalità italiane. Avrebbero dovuto incontrarsi con il capo dell’esercito italiano, il generale Ambrosio, che però era a Pinerolo ed era irreperibile. I comandanti che riuscirono ad incontrarlo gli dissero che il lancio dei parà era impossibile, perché c’erano troppi tedeschi in giro. Ma i due generali avevano anche un altro compito: comunicare al governo italiano che il giorno successivo, l’8 settembre, il generale Ike Eisenhower avrebbe annunciato l’armistizio. La data era stata tenuta nascosta agli italiani perché avrebbe dovuto coincidere con un massiccio sbarco di truppe. Gli Alleati non si fidavano del tutto del governo italiano e temevano una fuga di notizie. Quasi nessuno credette ai due americani – non è mai stato chiarito il perché – che per tutta la giornata girarono a vuoto senza essere presi sul serio da nessuno. Solo al tramonto trovarono qualcuno disposto a credere loro e le loro parole vennero confermate da altre fonti. I due vennero portati da Badoglio che, vista la completa impreparazione dell’esercito a mettere in atto l’armistizio il giorno dopo, scrisse un messaggio ad Eisenhower e gli chiese di annullare il lancio delle truppe su Roma e di rimandare l’annuncio dell’armistizio fino al 12 settembre. Anche se non giunse subito una risposta, Badoglio ritornò a dormire, convinto di aver rimandato l’annuncio. In realtà non era più possibile rinviare l’annuncio e l’unico risultato ottenuto da Badoglio fu quello di cancellare il lancio dei paracadutisti americani su Roma. Le flotte, gli aerei e le truppe da sbarco degli Alleati erano già in viaggio verso la costa italiana. Inoltre, il messaggio non raggiunse Eisenhower fino al giorno dopo: la confusione sulla data dell’armistizio non era stato il primo inconveniente nelle caotiche trattative condotte dal governo italiano per ottenere lo “sganciamento”.

Una serie di confuse trattative
 
I primi contatti diplomatici con gli Alleati erano stati presi ad agosto, prima con l’ambasciatore britannico a Madrid e poi con quello a Lisbona – Spagna e Portogallo erano paesi neutrali e pieni di spie e diplomatici dei vari paesi belligeranti. Le trattative furono condotte in maniera molto caotica e lasciarono spesso spiazzati gli Alleati. Il ritardo nell’arrivare a Lisbona del primo inviato italiano spinse il governo Badoglio a inviarne un secondo e poi un terzo. A un certo punto gli Alleati si ritrovarono con tre inviati del governo italiano, ognuno dei quali poco o per nulla a conoscenza della missione dei suoi due colleghi. Ad aggiungere confusione alla confusione, gli inviati non parlavano inglese, avevano bisogno di interpreti ed erano divisi tra di loro da gelosie e invidie. Il risultato fu che, mentre venivano discusse le clausole dell’armistizio, alcune parti finirono nelle mani di un inviato senza mai arrivare nelle mani degli altri. Ma in qualche modo le trattative procedevano comunque e uno degli inviati, il generale Giuseppe Castellano, fu portato in Sicilia per firmare il documento finale. Il 3 settembre ricevette da Badoglio l’autorizzazione orale alla firma. Molti storici hanno scritto sulla mancanza di un ordine scritto per Castellano, ipotizzando che Badoglio si tenesse pronto a sconfessare tutta la trattativa nel caso le cose fossero andate male. Poco prima della firma vennero fuori quelle clausole che Castellano non aveva mai visto. Erano molto dure e contenevano anche le parole “resa senza condizioni”, particolarmente indigesta al governo italiano per motivi di orgoglio. Badoglio tentò di rinegoziare alcune parti dell’accordo, ma era ormai troppo tardi. Il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, Castellano firmò l’armistizio. Poco dopo Castellano comunicò al governo italiano che, secondo alcune fonti che aveva interpellato, gli Alleati avevano intenzione di annunciare l’armistizio tra il 10 e il 12 settembre. L’indiscrezione venne accolta quasi come un annuncio ufficiale dal governo italiano, tanto che le parole dei due generali americani che giravano per Roma il 7 settembre non vennero credute.

La resa
 
Nel pomeriggio dell’8 ettembre a Roma si susseguivano situazioni imbarazzanti. Verso mezzogiorno l’ambasciatore tedesco in Italia andò a fare visita al re. Durante il colloquio, secondo alcuni resoconti, Vittorio Emanuele III disse: «Dica al Führer che l’Italia non capitolerà mai. È legata alla Germania per la vita e per la morte». Poche ore dopo il capo di stato maggiore dell’esercito Mario Roatta si ritrovò in una situazione simile, quando venne invitato a partecipare ad un incontro con altri funzionari tedeschi. Proprio mentre stava parlando con loro, l’agenzia Reuters batté la notizia dell’armistizio. I tedeschi chiesero immediatamente una conferma o una smentita della notizia: Roatta li assicurò che si trattava di una falsità. Probabilmente Roatta pensava di essere sincero almeno per metà, visto che non immaginava che l’armistizio sarebbe stato annunciato quel giorno. Si sbagliava: poco prima Badoglio aveva ricevuto – senza avvertire Roatta – un durissimo messaggio di Eisenhower. Il generale americano minacciava la «dissoluzione del vostro governo e della vostra nazione» se non fossero state rispettate tutte le clausole dell’armistizio. Una riunione del consiglio della corona venne convocata di urgenza al Quirinale, ma tra i soliti ritardi e la fatica nel rintracciare i vari generali non poté cominciare prima delle 18 e 45. Un quarto d’ora prima la voce di Eisenhower, registrata, come lo sarebbe stata un’ora dopo quella di Badoglio, aveva annunciato al mondo che l’Italia si era «arresa senza condizioni». Secondo i resoconti della riunione, all’inizio i presenti sembravano orientati a denunciare come false le parole di Eisenhower, a tranquillizzare i tedeschi e nel contempo a chiedere un altro po’ di tempo agli Alleati. Dopo poco però si resero conto che si trattava di una posizione impossibile da sostenere. Eisenhower aveva minacciato di pubblicare tutti i dettagli della trattativa e di bombardare Roma, se le clausole non fossero state rispettate. Ultimo dettaglio grottesco della vicenda, prima della riunione era stato ordinato di preparare al Quirinale un microfono collegato all’EIAR, ma l’ordine non era stato eseguito. Così Badoglio, cambiatosi con abiti civili, dovette raggiungere in macchina la sede della radio per registrare l’annuncio di resa.

Dopo l’8 settembre
 
Dopo L’armistizio ci furono diverse ora di calma in cui l’esercito tedesco non prese nessuna iniziativa. Alcuni generali dissero che, se si arrivava fino alla mezzanotte senza scontri, voleva dire che i tedeschi avevano deciso di sgombrare l’Italia senza combattere. Anche lo stato maggiore e il governo italiano rimasero quasi immobili. Piani per disarmare le truppe tedesche erano stati inviati a molti comandanti di unità italiane prima dell’8 settembre, ma non furono messi in atto nel timore che quelle azioni potessero scatenare una reazione tedesca. Subito dopo l’annuncio di Badoglio i telefoni dello stato maggiore e del ministero della guerra ricevettero decine di telefonate dai vari comandanti sparsi per tutta Europa che chiedevano ordini. Le risposte furono vage e generiche e l’ordine generale fu quello di aspettare e vedere come si mettevano le cose. A notte fonda i tedeschi si misero in moto. Mentre a sud le truppe si preparavano ad affrontare gli Alleati, le truppe intorno a Roma si mossero per occupare la capitale. Alle cinque di mattina, quando stava sputando l’alba, Badoglio passò i poteri di primo ministro al ministro degli Interni e salì sul convoglio di automobili con cui il re, la famiglia reale e numerosi generali e altri dignitari si preparavano a lasciare Roma diretti a Pescara. La rocambolesca fuga del re e della corte terminò a Brindisi, dove con molte difficoltà venne insediato un nuovo governo. La “fuga di Pescara”, come passò alla storia l’episodio, divenne una delle più gravi accuse alla monarchia negli ultimi anni e dopo la guerra. In particolare, Badoglio e il re vennero accusati di non aver fatto abbastanza per rimpatriare le centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi per l’Europa e di averli lasciati senza ordini e disposizioni dopo l’annuncio dell’armistizio. I soldati italiani reagirono a questa mancanza di ordini con il “tutti a casa”, illudendosi insieme ad altri milioni di italiani che la guerra fosse finita. Il risultato di queste decisioni, o meglio di questa mancanza di decisioni, fu quello che un mese dopo l’annuncio dell’armistizio il capo di stato maggiore dell’esercito tedesco comunicò a Hitler a proposito dei rastrellamenti delle truppe italiane: più di 70 divisioni erano state disarmate, 547 mila soldati erano stati fatti prigionieri, decine di migliaia di mezzi e armi erano state catturate. I morti, negli scontri, nelle esecuzioni e poi nei campi di concentramento tedeschi furono decine di migliaia.

Filmografia

  • Tutti a casa, con Alberto Sordi regia di Luigi Comencini, Italia, 1960.
Bibliografia
  • Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze. Bologna, Il Mulino, 2003
  • Silvio Bertoldi, Apocalisse italiana. Otto settembre 1943. Fine di una nazione. Milano, Rizzoli, 1998.
  • Davide Lajolo, Il voltagabbana. 1963
  • Oreste Lizzadri, Il regno di Badoglio. Milano, Edizioni Avanti!, 1963
  • Luigi Longo, Un popolo alla macchia. Milano, Mondadori, 1952
  • Paolo Monelli, Roma 1943. Torino, Einaudi, 1993
  • Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre. Milano, Feltrinelli, 1964
  • Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Milano, FelTrinelli, 1976
  • Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita. 8 settembre 1943. Milano,
http://portaledelfascismo.altervista.org/armistizio-di-cassibile-8-settembre-1943/ 

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