sabato 12 settembre 2015

La Socializzazione

"La Socializzazione non è se non la realizzazione italiana, romana, nostra, effettuabile del socialismo; dico nostra in quanto fa del lavoro il soggetto unico dell'economia, ma respinge la livellazione di tutti e di tutto, livellazione inesistente nella natura umana e impossibile nella storia" 
(Mussolini - 14 ottobre 1944)

« La socializzazione non è un improvviso ripiego destinato a restituire al fascismo la verginità rivoluzionaria perduta in vent' anni di compromessi, ma un altro passo avanti per creare uno Stato sociale »
(Angelo Tarchi)
Angelo Tarchi 
(Borgo San Lorenzo, 5 febbraio 1897 – Milano, 16 febbraio 1974) 
È stato Ministro dell'Economia Corporativa e poi della Produzione industriale della Repubblica sociale italiana.
Combatte come volontario nella prima guerra mondiale dove raggiunge il grado di capitano ed è decorato al Valor militare. Al termine del conflitto aderisce ai Fasci di combattimento. Laureato in chimica, è membro di accademie scientifiche ed occupa incarichi direttivi in industrie del settore.
Viene eletto Deputato alla Camera nel 1934. Nel 1939 diviene Consigliere nazionale alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Nel 1940 parte volontario per la campagna d'Albania.
Dal dicembre 1941 è Ispettore nazionale del Partito Nazionale Fascista. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica sociale italiana collaborando alla stesura del decreto legge sulla socializzazione, ed è uno dei fautori del Manifesto di Verona. Dal 1º gennaio del 1944 succede a Silvio Gai come ministro dell'Economia Corporativa. Con il decreto legislativo n.2 del 19 gennaio 1945 questo ministero viene soppresso e creati i dicasteri del Lavoro e della Produzione Industriale. Tarchi guida quest'ultimo ministero fino al 25 aprile 1945.Nel dopoguerra viene arrestato, e processato per l'adesione al regime fascista. Amnistiato nel 1948, torna a lavorare nell'industria chimica e dirige la rivista "Chimica". È Presidente della Camera di Commercio Italo-Brasiliana. Negli anni '60 viene eletto consigliere comunale di Milano nelle liste del Movimento Sociale Italiano. Nel 1967 pubblica un libro di riflessioni politiche che intitola Teste dure. Muore pochi anni dopo.


BERGAMO- TARCHI AL BALCONE DEL MINISTERO
20 FEBBRAIO 1944 - MILANO
Il Ministro Tarchi 
illustra ai giornalisti la legge sulla
socializzazione:
“Sono molto lieto che abbiate aderito all’invito per potere esaminare insieme a Voi la legge sulla socializzazione onde poter portare in questo settore, attraverso la stampa, una propaganda ancora più intensa di quella che fino a oggi Voi avete svolto e della quale Vi ringrazio. “Questa riunione ha luogo d’intesa col Ministro della Cultura Popolare e né è informato anche il Duce che l’ ha approvata. Ho ritenuto opportuno uno scambio di idee con Voi per chiarire alcuni punti fondamentali della concezione sociale Mussoliniana che si realizzerà attraverso la legge della socializzazione. “E’ logico che la stampa sia libera nella discussione perché della libera discussione si possono trarre elementi utili per l’applicazione della legge stessa che riteniamo di perfezionare man mano, anche perché questa non è necessariamente statica ma al contrario deve trovare poi nella soluzione pratica l’indirizzo per evolversi. Però è giusto che le Direzioni dei giornalisti abbiano conoscenza dei principi di massima che la legge hanno ispirato e sui quali è necessario insistere particolarmente.” “Questi principi generali sono già stati messi in evidenza sulle note della “Corrispondenza Repubblicana” che è uscita subito dopo la legge sulla socializzazione, furono da me ribaditi in una conversazione pronunciata alla radio a Milano ed ancora lumeggiati nell’ultima “Corrispondenza Repubblicana” di ieri l’altro circa le rivendicazioni sulla priorità e continuità della concezione sociale Mussoliniana.” “Un punto, che è molto importante, riguarda il rapporto tra la socializzazione e i concetti politici che devono accompagnarla. Su questo è necessario immediatamente portare la nostra attenzione perché questi giorni noi abbiamo visto, come anche in alcuni quotidiani è stato manifestato, la tendenza a ritenere che ci saremo allontanati dal principio dal quale il Fascismo è partito e che noi rinunciamo a un tratto a tutta quella che è stata l’azione perseguita in questi ultimi vent’anni. Che ci sia, insomma nella socializzazione dell’imprese una deviazione delle mete (come notato anche “Libro e Moschetto” perseguite per venti anni, rinuncia cioè alla concezione Corporativa.” “Ritengo di non aver bisogno, dopo la chiara nota della “Corrispondenza Repubblicana” di ieri l’altro, di allungarmi molto, nell’argomento però è necessario fissare un concetto: noi, con la socializzazione, non rinunciamo alla Mussoliniana idea corporativa, ma anzi al contrario la rafforziamo e la svilupperemo con ione. “Il motivo di quello che è stato, non il fallimento dell’idea corporativa, ma la sua inefficiente realizzazione pratica, si deve, a mio modo di vedere ad un fatto. 
La legge del 1934 come è noto ha cercato di risolvere la lotta sempre latente ed esistente tra capitale e lavoro. Questa parità giuridica in effetti si doveva realizzare sul piano dello Stato e cioè attraverso le corporazioni. Si doveva ammettere, allora, che tanto il capitale quanto il lavoro fossero permeati della concezione della sovranità dello Stato e delle superiori esigenze di questo, a tal punto da non portare ami in seno alle discussioni ed agli orientamenti quello che poteva essere l’interesse particolaristico. “Ma è logico che sul piano giuridico non era possibile risolvere, le lotte secolari di classe, perché da un lato noi avevamo il lavoro, semplicemente con i suoi riconosciuti diritti di associazione, dall’altro noi avevamo il capitale con tutte le sue prerogative, cioè con tutte le possibilità che ad un certo momento potevano effettivamente avere il poter di imbrigliare lo Stato. Infatti, lo strapotere di una classe ha superato l’uguaglianza giuridica, ha iugulato la concezione corporativa ed ha imbrigliato l’azione della burocrazia, dello Stato maggiore delle forze Armate, con tutte le tristi conseguenze che ormai è superfluo ricordare. Era, quindi, necessario arrivare alla realizzazione della concezione corporativa partendo da altre basi. Da quelle basi cioè sulle quali Mussolini, a cominciare dal discorso pronunciato a Dalmine, fino a quello pronunciato a Milano, metteva in evidenza quale doveva essere il ruolo del lavoro nella vita dello Stato e nella partecipazione della vita stessa dello Stato. Ora, anche precedentemente il lavoro ha cercato infinite volte di entrare nella vita delle aziende, ma tutte le volte vi è stato respinto; del resto anche il sistema delle commissioni di fabbrica, instaurato nell’ultimo periodo, non poteva portare al risultato sperato. “ Per poter farse sì che effettivamente tutti i fattori produttivi giocassero il loro ruolo in parità di diritti e di doveri secondo le loro funzioni, era necessario che la corporazione avesse la sua vita e il perché funzionante nella stessa vita dell’azienda. La socializzazione dell’azienda significa quindi creare il catalizzatore del corporativismo se non addirittura la corporazione funzionante nella stessa vita dell’azienda significa far cooperare efficacemente tutti i vari fattori produttivi, nell’interesse dei partecipanti alla vita dell’azienda, subordinati, in ogni caso, a quelli più alti della vita della Nazione.  “Nella Repubblica Sociale, il lavoro attivamente operante assurge a soggetto dell’economia con funzioni di responsabilità e direzione. Il capitale, sul quale effettivamente troppo si è discusso si è parlato non è che uno strumento a somiglianza di tutti gli altri strumenti per incrementare quella che è la vita produttiva della nazione e quindi la ricchezza della Nazione stessa. “Ma più che capitale vorrei che in generale si parlasse di risparmio. Perché per capitale si deve intendere, secondo la nostra concezione sociale corporativa, l’apporto che ancora le forze del lavoro danno attraverso il risparmio al quale ogni uomo tende spintovi da quel senso di possesso e di proprietà; aspirazione che sono molla ed incentivo dell’umana fatica. “Quindi il capitale, intanto è ritenuto un considerevole fattore della produzione in quanto è risparmio, cioè ancora e sempre potenziale di lavoro svolto. E’ partendo questo modo di concepire la socializzazione delle aziende come corporazione di fattori operanti per la produzione che noi possiamo rapidamente rimontare ad un sistema che, rinato, non abbiamo mai messo in forse e che vogliamo completamente realizzare. Non quindi un fallimento del sistema ma perfezionamento o, se volete, sviluppo del sistema. “Quello che vi ho sintetizzato è il fulcro dell’idea politica-sociale e corporativa alla quale si riferisce in maniera lapidaria la norma n.1 della premessa che voi conoscete. “Faccio una piccola parentesi: com’è che noi potremo realizzare il sistema corporativo non solo nell’ambito dell’azienda ma nell’ambito dello Stato, dopodiché, come ho detto, abbiamo messo il catalizzatore per la creazione di questo Stato Corporativo? Noi potremmo realizzare lo Stato Corporativo non sul piano dell’impresa ma anche sul piano dello Stato, nel senso cioè che siano le forze produttive dei lavoratori a determinare quella che è la necessità economica nei vari settori produttivi e quindi ancora a dare l’apporto diretto a tutta la vita economica dello Stato. Voi avete veduto che il Decreto istitutivo della Confederazione del lavoro, della tecnica e delle arti prepara le basi di quello che sarà domani lo Stato Corporativo con l’eliminazione del riconoscimento giuridico del capitale. La possibilità di creare l’organo corporativo ci viene data proprio da questa eliminazione della rappresentanza del capitale in quanto tale. Domani, attraverso l’espressione delle migliori forze produttive dell’aziende lavoratrici, tecnici, dirigenti, noi potremo creare i consigli provinciali della economia corporativa, i quali saranno l’espressione dei migliori che operano nell’azienda e potranno esaminare, non più soltanto sul piano dell’azione ma sul piano provinciale, quelle che sono le necessità della produzione stessa in relazione a quello che sarà l’indirizzo dell’economia generale da parte dello Stato. E conseguentemente sul piano nazionale noi potremo realizzare Consigli Nazionali dell’Economia Corporativa, organi, che esamineremo nei vari settori le necessità le loro necessità soprattutto in riflesso a quella che dovrà essere l’economia generale da parte dello Stato. E’ conseguentemente sul piano nazionale noi potremmo realizzare Consigli Nazionali dell’Economia corporativa, organi, che esamineremo nei vari settori le loro necessità soprattutto in riflesso a che dovrà essere l’economia programmatica attraverso le forze vive di coloro i quali operano nelle aziende da esse provengono per vie elettive, o meglio per selezione di capacità e competenza. Conseguentemente gli elementi che saranno preposti a capo dei singoli Consigli Nazionali dell’economia Corporativa, i capi dei vari consigli nazionali dell’economia corporativa provinciali, formeranno il Comitato Nazionale dell’Economia Corporativa, il quale sarà veramente l’espressione delle migliori forze operanti nella vita della Nazione. Esso, opportunamenteintegrato, avrà tutti quei compiti che aveva il Comitato corporativo centrale e dovrà dare il definitivo indirizzo a tutta l’economia del paese stesso, in maniera da far sì che effettivamente l’economia serva la politica e con questa realizzi la potenza della Repubblica sociale italiana. Questa parentesi che anticipo sugli sviluppi della socializzazione, ho voluto aprire perché voi nella vostra azione quotidiana possiate effettivamente sapere che si sta preparando l’edificio avendo cominciato, come era, logico dalle fondamenta. “Vorrei fermarmi su alcuni punti della premessa che del resto, è stata illustrata da molti di voi sui vostri giornali in maniera chiara e precisa. Forse su un punto non si insiste abbastanza, cioè su quello di accompagnare un idea politica. A questo riguardo ritengo indispensabile un azione incisiva sulla stampa, perché di fronte al nuovo orientamento staliniano comunista, effettivamente l’Asse ha da opporre chiaramente l’ordine europeo che mette i popoli di fronte al loro divenire e al loro domani. Per far sì che questa guerra sia maggiormente sentita, poiché specialmente in questo periodo gli italiani si sono dimenticati di tutta l’azione svolta da Mussolini e di tutto il perché della nostra lotta, è necessario ribadire il significato sociale della guerra, in modo che sul piano dell’Asse, ancora una volta la concezione mussoliniana che, ha generato tutto l’attuale movimento dei popoli, a dare il lume e l’indirizzo al divenire dei poli stessi. Così come Roma faceva accompagnare la forza delle sue armi con l’affermazione delle idee politiche e con la promulgazione delle relative leggi ad uso dell’intera umanità, così questa guerra deve portare la concezione di un nuovo ordine basato sulla missione del lavoro che dai ranghi, attraverso la socializzazione delle imprese, assurge per moto spontaneo alla direzione della vita pubblica. Effettivamente i poli possono pensare al domani che è loro riservato alla fine del conflitto. Scartato il concetto liberale perché esso è ormai completamente superato; il dilemma è ancora Roma o Mosca ma bisogna in realtà che questo ordine europeo, che noi abbiamo sempre proclamato, ma non chiaramente definito, possa vere finalmente una sua proiezione nel domani. Ora la legge sulla socializzazione effettivamente può aprire la visione esatta ai popoli di quella che sarà la concezione dello Stato dopo la guerra quando essa sarà vinta dall’Asse. “Al secondo comma della premessa io ritengo non sia molto da aggiungere, specialmente dopo quando è stato pubblicato dalla “Corrispondenza Repubblicana” di alcuni giorni or sono. Vorrei soltanto mettere in evidenza che il raccorciamento materiale delle distanze significa anche in fondo, perseguire attraverso un’equa politica dei prezzi e una revisione dei costi tutta una politica tesa, quando il lavoro sia veramente in seno all’azienda, il fine di sviluppare il potere di acquisto della moneta. E’ quindi anche attraverso questo sviluppo del potere di acquisto della moneta che le masse potranno domani attraverso la socializzazione dominare i fattori speculativi che fino a ieri avevano imbrigliato questo concetto di una più equa distribuzione della ricchezza, e quindi di una più larga giustizia sociale. Se il lavoro non è seriamente e attivamente partecipe alla vita quotidiana dell’azienda non potrà mai concepirsi una giustizia sociale e ciò per infiniti motivi di carattere particolaristico. D’altra parte il compito della legge sulla socializzazione è quello di mettere in evidenza le norme della Carta del Lavoro che parlano di salari in rapporto anche alle necessità e possibilità dell’azienda ed al rendimento del lavoro. Insistendo su quanto ho già espresso mi domando e vi domando come era possibile che questo salario potesse essere determinato con tali criteri quando il lavoro restava ai cancelli delle fabbriche. Allora il lavoro era esclusivamente determinato dal capitale, le possibilità dell’azienda erano esclusivamente determinate dal capitale. Fin quando il lavoro rimaneva estraneo alla formazione del alla formazione del salario stesso, il salario corporativo rimaneva una mera aspirazione se non una mera utopia. Quindi la socializzazione ha la grave lacuna della estraneità del lavoro al processo di formazione del giusto salario. Naturalmente in questa azione di carattere unitario la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti avrà il suo ruolo così come l’avevano i Consigli Nazionali dell’Economia Corporativa. E’ tuttavia opportuno che la stampa freni i troppi facili entusiasmi di quei faciloni i quali fermamente credono che, spalancate le porte al lavoro, si dia fondo e corpo ad una specie di panacea universale in cui, abolito ogni principio gerarchico di disciplina, tutti possono comandare e fare il proprio comodo. La socializzazione dell’impresa intende però fermamente raggiunger una maggiore giustizia sociale pretendendo da tutti i lavoratori il massimo impegno e ripartisce su tutti un senso di maggiore responsabilità per conseguire un incessante aumento del prodotto sociale. Questa è ancora e sempre l’unica via per il benessere sociale dei popoli. “Il comma 2 della premessa ha parlato di normalizzazione la situazione interna dei rapporti fra capitale e lavoro. E’ necessario che questo risponda in pieno a quanto aveva già stabilito la Carta del Lavoro nella sua norma seconda. Ma lo scopo del comma è un altro: noi abbiamo una situazione in Italia, conseguenza del periodo badogliano, che ha portato uno stato di scosse e smarrimenti pericolosi acuito dalle vicende belliche soprattutto dalla propaganda comunista e anglo - pluto – giudaica. Per poter porre fine a questo senso di smarrimento, per poter stroncare l’azione della propaganda è necessario arrivare celermente ad una normativa di rapporti tra dirigenti, tecnici e lavoratori. Per questo noi non condividiamo l’opinione di coloro che pensano non essere questo il momento più adatto per attuare una socializzazione. Esso pone i lavoratori e le masse di fronte al bivio: o accettare questa altissima conquista sociale con le guarentigie della indipendenza nazionale e della conservazione degli usi e i costumi della nostra civiltà ( ai quali il popolo è fortemente attaccato) o salto nel buio di una rivoluzione integrale che sradica gli istituti della nostra civiltà e che finirà con rendere spaesate moltitudini di uomini. E’ sulla scelta della prima via che noi puntiamo per la salvezza della nostra civiltà e della nostra economia. Una normalizzazione dei rapporti tra le categorie potenzierà anche l’industria bellica, necessaria per continuare la guerra e per far si che l’Italia giochi ancora nel concerto continentale dell’Asse, il suo ruolo. “Un punto che interesserà voi tutti e sul quale effettivamente alcuni hanno portato la loro attenzione è la figura del Capo dell’impresa così come è stata concepita, attua il concetto di gerarchia che è necessaria in ogni forma della vita a cominciare dalla famiglia nella quale è rappresentata dal capo. Vorrei quasi dire che nel capo delle imprese si sintetizza effettivamente questa più alta concezione del dovere sociale, espressione del lavoro.. Quindi è il Capo dell’impresa colui il quale potrà dirigere l’impresa stessa e armonizzarla pel superiore interesse dello Stato. E’ il capo dell’impresa può, con la collaborazione di tutti i fattori produttivi, così come il capo della famiglia con quello di tutti i suoi figli, rende o meno perfetta l’azienda stessa. D’altra parte la figura del capo dell’impresa viene ad essere elevata di fronte a quella comunista, perché nel comunismo abbiamo il capo dell’impresa che è imposto dall’alto, il burocrate, il quale viene immesso a dirigere l’impresa anche se di essa non né faccia parte effettivamente, senza che in essa si sia fermato. Noi abbiamo fatto un notevole passo avanti in quanto il capo dell’impresa è eletto dalle forze del lavoro, perché noi abbiamo la certezza della maturità delle forze del lavoro e dell’attaccamento che esse porteranno al perfezionamento dell’azienda così come riteniamo che questo esista nei portatori di capitale, che avendo considerati risparmiatori non possono tendere che alla tutela del frutto della loro fatica e quindi a volere nel caso dell’impresa il migliore, il più tecnico, il più onesto, il più tenace nel lavoro, il più severo e più giusto nel comando. “D’altra parte non è detto che tra i risparmiatori non vi siano gli stessi operai, tecnici, dirigenti, ma essi come tali sono dei portatori di capitale e come tali dovranno partecipare all’assemblea dalla quale scaturisce il capo dell’impresa. “Desidero parlare della statizzazione. Ho veduto in questi ultimi tempi una serie di iniziative nelle varie province che effettivamente, attuate, minerebbe le basi di quello che è il concetto della socializzazione. Statizzazione non significa, come taluni hanno creduto e come fino ad oggi si è fatto, la direzione dell’impresa intesa come burocratizzazione della gestione da parte dello Stato. La statizzazione dell’impresa significa caso mai un’esperienza della socializzazione portata fino al massimo, cioè gestione diretta al massimo delle forze del lavoro. Non già uomini burocratici nominati dallo Stato bensì da tutti i fattori produttivi dell’azienda, lavoro, tecnica, dirigenti. Lo Stato necessariamente deve intervenire per tutelare quel capitale pubblico che è formato dai risparmiatori italiani. Ma il rappresentante dello Stato però non deve essere un burocrate, ma provenire anch’esso dalle vie del lavoro, che abbia cioè già dato nel lavoro prove di senso di responsabilità e di competenza. Quindi quando sulla stampa spesso si legge tra le righe – o la propaganda ci batte sopra – che noi arriveremo alla socializzazione per immetter gerarchi e gerarconi nella vita produttiva, noi rispondiamo di no, perché nelle aziende a carattere sociale o privato il comando sarà dato effettivamente a coloro che partecipano o hanno partecipato alla vita del lavoro. Anche nella vita delle aziende, , chiamiamole statizzate, il comando sarà dato esclusivamente alle forze del lavoro e il rappresentante dello Stato sarà scelto dalle file del lavoro. Questo è il concetto che noi abbiamo dato alla statizzazione delle industrie basi, mentre effettivamente nella legge, come voi avete visto, non si parla di statizzazione, ma si parla di azienda a capitale pubblico. “Ho visto inoltre in varie province che si è fatta la corsa alla nomina di Commissari. I Commissari delle aziende, se vi saranno quando effettivamente le imprese non rispondono più alle esigenze dello Stato, ma in questo caso il Commissario, qualora esista, dovrà assumere la figura del capo temporaneo dell’impresa, in attesa che si crei il nuovo Consiglio di amministrazione, il quale sarà la espressione delle forze del lavoro. “Voi avete visto che vi sono elle aziende non previste dalla legge sulla socializzazione. E’ tutta una massa di aziende minori. Ora, nelle aziende artigiane già esiste una socializzazione in atto, perché le aziende artigiane son concepite come le vecchie botteghe fiorentine nelle quali il maestro insegna all’allievo dividendo con esso gioie e dolori, miseria e benessere. Nelle aziende che hanno una struttura che sopra quella dell’artigiano, noi osserveremo i riflessi della legge sulla socializzazione. Ho la sensazione che molte di queste aziende si socializzeranno, spontaneamente, perché non vi è motivo, o per lo meno non vi dovrebbe essere motivo perché questi capi, che in fondo sono gente ha vissuto e proviene dal lavoro, non sentano come da questa legge derivi l’armonia, la prosperità della loro azienda. D’altra parte noi dobbiamo tener presente che le forme cooperativistiche non debbono morire e che anzi debbono essere potenziate. Anche questa può essere la via. “Molti ritengono, e io stesso lo auspico, che queste aziende potranno avere una socializzazione più completa con forme cooperativistiche. Tanto è vero che attraverso il comunicato che ieri ho diramato alla stampa ho messo in evidenza che la cooperazione non deve né può morire; noi creeremo un istituto per la cooperazione, che provvederà a curare l’attività economica e finanziaria di quelle imprese che a somiglianza delle aziende socializzate svolgono una propria attività cooperativistica. Forse io ritengo che con l’istituto della cooperazione possa crearsi anche l’istituto dell’artigianato che coaudivino nel campo finanziario ed economico l’attività di queste che sono un vanto dell’Italia. “Ho visto molte discussioni per quanto riguarda gli utili. Vi ho già parlato prima di quelli che sono i caratteri dei salari. E’ logico anche che la questione degli utili dovrà aver, la sua piena affermazione. C’è chi ha detto che la quota fissata degli utili minimi, c’è chi ha detto che la quota fissata degli utili è esagerata, c’è addirittura chi ha detto che tutta la quota degli utili eccedenti a quelli della riserva debbano essere destinati ai lavoratori, e mi auguro presto, io ritengo che essi stessi chiederanno che questo non si faccia. Quando poi i lavoratori avranno fatto parte effettiva della vita delle imprese e sapranno cosa significa un’impresa che lavora, che deve migliorare che deve pensare ad avere le scorte necessarie per il suo funzionamento, allora essi stessi diranno che la quota degli utili, che noi abbiamo previsto come massimo nel 30%, effettivamente è la cosa più logica nell’interesse stesso dei lavoratori che poi traggono la loro vita dalla prospettiva dell’azienda. Un accorciamento della distanza non si otterrà tanto direttamente da questa partecipazione agli utili, quanto da socializzazione stessa delle gestioni aziendali, mediante la riduzione delle proporzioni indispensabili della speculazione commerciale. La quota degli utili stabilita come massimo del 30% darà la possibilità del premio giusto al rendimento generale del lavoratore, consentirà altresì di immettere nella cassa di compensazione, per quella destinazione di carattere generale della stessa azienda, i residuo degli eventuali utili. Questi fondi saranno utilizzati oltre che per il progresso dell’azienda anche per speciali motivi sociali. “Se sono stato troppo lungo, vi chiedo scusa, ma sarete d’accordo che questa presa di contatto era necessari. Sarò lieto se mi farete conoscere tutte le critiche e richieste che talvolta vengono mandate ai giornali. Vi sarò grato anche se vorrete creare una rubrica, quando la legge sarà promulgata, nella quale sia espresso il pensiero dei lavoratori, dei dirigenti delle aziende dei tecnici e del pubblico in genere. In ogni modo, è opportuno, per quanto riguarda la socializzazione, ospitare nei giornali tutte le critiche che portino un contributo d’idee: la critica è stimolatrice, ed io sono del parere che essa deve essere ampia e continua, poiché dalle critiche nasce la possibilità della riposta e quindi la possibilità di mettere in luce il problema nella sua vera essenza”. All’invito del Ministro di iniziare la discussione sull’argomento, Franco De Agazio ha fatto presente il caso in cui un’azienda non possa ripartire ai propri lavoratori perché in perdita. “La domanda è giustificata – ha detto il Ministro. Effettivamente il lavoratore non deve cercare nella socializzazione soltanto il lato economico. Noi ci dobbiamo opporre a questo fatto. Bisogna far comprendere che nella attuale situazione le perdite portano all’intervento dello Stato o alla chiusura dell’azienda; invece in questo caso le riserve attraverso la Cassa dà Compensazione potranno  permettere che l’azienda possa continuare la sua attività. Ecco un punto da mettere in evidenza; il lavoratore non si deve preoccupare soltanto degli utili, deve comprendere che la sua comparsa nel consiglio d’amministrazione avrà notevoli effetti sulla produzione e distribuzione della produzione sociale e quindi sui redditi di puro lavoro e deve, pertanto, mettere l’azienda nelle condizioni di continuare la produzione; dalla continuità della produzione deriva la continuità del suo lavoro e del suo guadagno. Io sono ottimista: a parte i periodi di crisi economiche, le perdite di prima, molte volte risultavano sulla carta per chiedere allo Stato l’intervento sotto infinite forme che erano causate da illecite speculazioni svolte a far sì che una determinata industria fosse soffocata; lo scopo della socializzazione è di eliminare questo inconveniente. “Io e mi auguro che l’organizzazione sindacale effettivamente si prepari ad elevare il tono della massa perché la nostra socializzazione a differenza – ripeto – della comunistizzazione è soprattutto in riferimento a quelli che sono i valori spirituali od individuali, funzioni che noi non volgiamo eliminare. Si è sempre parlato di materialismo forse perché effettivamente le situazioni economiche dei nostri operai erano tali che li portavano soltanto a vedere il concetto materialistico e non certo quella che era la loro responsabilità. Mi auguro che in seguito l’attenzione economica si attenui al punto di consentire che l’organizzazione sindacale si trasformi in questo senso; in modo che così verso l’alto si abbaino migliori alla direzione della massa, perché la socializzazione non è una legge che è fatta per oggi, è fatta per i secoli, per qualche secolo bisognerà studiarla e, naturalmente, bisognerà prepararsi”. Fausto Brunelli interviene nella discussione affermando che c’è sempre un’aristocrazia che dirige le masse, sia nella forma dell’economia libera che collettiva. Hanno le nostre masse dimostrato di possedere una moralità politica, economica e sociale? “Codesta pregiudiziale – risposto il Ministro – sarebbe giusta se non si partisse da un concetto sbagliato. Non è vero che nella socializzazione delle gestioni è la massa che dirige, ma il contrario. Nelle aziende socializzate è l’aristocrazia del lavoro, intesa come selezione dei migliori che gestisce l’azienda ed equipara il capo della famiglia al dirigente dell’impresa nel senso che gli eletti, se sono veramente migliori, devono curare anche gli interessi di coloro che non ebbero la ventura di essere i migliori, Non è vero che è la massa che decide; la massa indica quali sono quelli più atti a decidere. Quando io dico di creare i Consigli dell’Economia corporativa, io dico di arrivare a scegliere, tra la massa questa èlite di minoranza e quella che regola, non più sul piano dell’azienda, ma sul piano provinciale attraverso il comitato economico provinciale, quello che deve essere l’andamento armonizzato dei vari settori di tutta la provincia. Il consiglio Nazionale dell’Economia Corporativa sarà appunto l’espressione di quell’”elite” del lavoro. “Io mi auguro che queste organizzazioni sindacali, questi dirigenti che sono l’espressione vera della massa, effettivamente si pongano una domanda mazziniana: quella che mi pongo io tutte le sere quando vado a dormire: ho fatto io nella mia giornata il mio dovere di fronte al quale mi sono preposto, di fronte alla Nazione? E’ la mia coscienza, stasera, sicura di non aver effettivamente fatto compromessi, se non quelli utili al fine che mi propongo? “Noi non abbiamo detto alla massa” tu sei proprietario e tu dirigerai l’azienda”. Noi abbiamo detto: “Ti diamo una funzione, ti diamo una responsabilità: tu fai il tuo dovere”. Altrimenti non giungeremo a fare una vera aristocrazia del lavoro che possa rendersi utili alla collettività, quanto abbiamo scontato le colpe – che non era un’aristocrazia, ma un’oligarchia. “Infine, quando io devo arrivare alla nomina dei Sindacati di categoria, chi è che devo eleggere? L’espressione è dal basso, ma la nomina è fatta dall’alto. La massa non potrà più dire che la nomina è stata imposta dall’alto, è un espressione venuta dal basso che io ho scelto dall’alto. Tutta la vita dello Stato, dai Ministri in giù, deve essere permeata di un solo concetto: il lavoro. Il lavoro come competenza, come espressione, come fede, come dirittura morale. Non vi deve essere più posto per coloro che oggi non combattono o non producono. Questa è la funzione dell’aristocrazia dei migliori nella socializzazione. “Tra la concezione staliniana e quella della Repubblica Sociale Italiana, vi è un abisso enorme. Forse il 25 luglio e l’8 settembre, se potremmo sorpassare questo periodo, non saranno stati un male per gli italiani poiché hanno servito veramente a chiarire ed a far sì che quelle idee che abbiamo sostenuto si siano affinate ed abbiano finalmente la loro pratica realizzazione.”







DECRETO LEGISLATIVO DEL 6 FEBBRAIO 1944, N° 375
SULLA SOCIALIZZAZIONE DELLE IMPRESE
(dalla Gazzetta Ufficiale d'Italia 30 Giugnio 1944, n° 151)


TITOLO I
Art.1 - Gestione dell'impresa.
La Gestione dell'impresa, sia questa di proprietà dello Stato, sia di proprietà privata, è socializzata. Ad essa prende parte diretta il lavoro.
L'ordinamento delle imprese socializzate è disciplinato dal presente decreto, dallo statuto o regolamento di ciascuna impresa, dalle norme del Codice civile e dalle leggi speciali, in quanto non contrastino col presente provvedimento.

Art.2 - Organi di gestione dell'impresa.
Gli organi di gestione dell'impresa sono: 
a) per le imprese private che abbiano forma di società per azioni, o di società a responsabilità limitata, con almeno un milione di capitale: il capo dell'impresa, l'assemblea, il consiglio di amministrazione ( di gestione) e il collegio sindacale;
b) per le imprese private che abbiano altra forma di società: il capo dell'impresa o il consiglio di amministrazione; 
c) per le imprese private individuali: il capo dell'impresa e il consiglio di gestione; 
d) per le imprese di proprietà dello Stato: il capo dell'impresa, il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale.
SEZIONE I
AMMINISTRAZIONE DELLE IMPRESE DI PRODUZIONE PRIVATA.

Capo I - Amministrazione delle imprese a capitale sociale.
Art.3 .Organi delle società per azioni e delle società a responsabilità limitata.
Nelle società per azioni e in quelle a responsabilità limitata, con almeno un milione di capitale, fanno parte degli organi collegiali di amministrazione, rappresentanti eletti dai lavoratori dell'impresa:operai, impiegati amministrativi, impiegati tecnici e dirigenti.

Art.4- Assemblee, consiglio di gestione, collegio sindacale.
All'assemblea, fermo restando le disposizioni degli articoli 2368 seguenti del Codice civile sulla sua regolare costituzione, nonchè quelli relativi ai suoi poteri, partecipano i rappresentanti dei lavoratori, con un numero di voti pari a quelli del capitale, intervenuti.
L'assemblea nomina un consiglio di amministrazione, formato per metà dai rappresentanti dei soci e per metà dai rappresentanti dei lavoratori. L'assemblea nomina altresì il collegio sindacale che deve avere fra i suoi componenti almeno un sindaco effettivo, e un supplente, proposti dai rappresentanti dei lavoratori, ferme restando le disposizioni del Codice civile, per i collegi sindacali.
Art.5 - Votazioni.
Nelle votazioni, tanto dell'assemblea, quanto del consiglio di amministrazione, prevale, in caso di parità di voti, il voto del capo dell'impresa, che di diritto presiede i predetti organi sociali.
Art.6 - Consiglio di gestione delle società che non sono per azioni o a responsabilità limitata.
Nelle società non contemplate nel precedente articolo 3, che abbiano almeno un milione di capitale e impieghino almeno 100 lavoratori, il consiglio d'amministrazione è formato dai soci e da un uguale numero di rappresentanti eletti dai lavoratori dell'impresa.
Art.7 - Poteri del consiglio di gestione.
Il consiglio di amministrazione delle imprese private a capitale sociale, sulla base di un periodico e sistematico esame degli elementi tecnici, economici e finanziari della gestione:
a) delibera su tutte le questioni relative alla vita dell'impresa, all'indirizzo e allo svolgimento della produzione, nel quadro del piano nazionale, determinato dai competenti organi dello Stato; b) esprime il proprio parere sulla stipulazione dei contratti
di lavoro aziendali, con le associazioni sindacali facenti capo alla Confederazione unica del lavoro, della tecnica e delle arti, e su ogni altra questione inerente alla disciplina e alla tutela del lavoro dell'impresa; c) esercita in genere nell'impresa tutti i poteri attribuitigli dallo statuto, e quelli previsti dalle leggi vigenti per gli amministratori, ove non siano in contrasto con le disposizioni del presente provvedimento; d) redige il bilancio dell'Impresa e propone la ripartizione degli utili ai sensi delle disposizioni del presente provvedimento e del Codice civile.

Art.8 - Cauzione dei membri del consiglio di gestione.
I membri del consiglio di amministrazione eletti dai lavoratori, sono dispensati dall'obbligo di prestare cauzione.
Art.9 - Capo dell'impresa.
Nelle società per azioni, e in quelle a responsabilità limitata che abbiano almeno un milione di capitale, il capo dell'impresa è nominato dall'assemblea. Nelle altre imprese a capitale sociale, il capo dell'impresa è nominato fra i soci, con le modalità previste dagli atti costitutivi, statuto e regolamento delle società stesse.
Art.10 - Poteri del capo dell'impresa.
Il capo dell'impresa convoca l'assemblea nelle imprese in cui esiste, e la presiede; presiede altresì il consiglio di amministrazione;rappresenta l'impresa nei rapporti con i terzi. Egli ha la responsabilità e i doveri di cui all'art. 31 e seguenti, e tutti i poteri riconosciutigli dallo statuto, nonchè quelli previsti dalle leggi vigenti, ove non contrastino con le disposizioni del presente provvedimento.

CAPO II - AMMINISTRAZIONE DELLE IMPRESE PRIVATE A CAPITALE INDIVIDUALE.
Art.11- Consiglio di gestione.

Nell'impresa individuale, purchè il capitale in essa investito sia di almeno un milione o il numero dei lavoratori in essa impiegati sia di almeno cento, viene costituito un consiglio di gestione composto di almeno tre membri eletti, secondo il regolamento dell'impresa, da ognuna delle categorie di lavoratori:operai, impiegati amministrativi, impiegati tecnici e dirigenti.
Art.12 - Capo dell'impresa - Poteri del consiglio di gestione.
Nelle imprese individuali, l'imprenditore il quale assume la figura giuridica di capo dell'impresa, con la responsabilità e i doveri di cui ai successivi articoli 21 e seguenti, è coadiuvato nella gestione dell'impresa stessa dal consiglio di gestione, che dovrà uniformare la sua attività agli indirizzi della politica sociale dello Stato. L'imprenditore, capo dell'impresa, deve riunire periodicamente, almeno una volta al mese, il consiglio per sottoporgli le questioni relative alla vita produttiva dell'impresa, e ogni anno alla chiusura della gestione, per l'approvazione e il riparto degli utili.


SEZIONE II - AMMINISTRAZIONE DELLE IMPRESE DI PROPRIETA' DELLO STATO.

Art.13 - Capo dell'impresa.
Il capo dell'impresa di proprietà dello Stato è nominato con decreto del ministro dell'Economia corporativa, di concerto con il ministro delle Finanze, su designazione dell'Istituto di gestione e finanziamento, tra i membri del consiglio di amministrazione dell'impresa, o fra altri membri dell'impresa stessa o di imprese del medesimo settore produttivo, che diano speciali garanzie di comprovata capacità tecnica o amministrativa. Il capo dell'impresa ha la responsabilità e i doveri di cui agli articoli 21 e seguenti e i poteri che saranno determinati dallo statuto di ogni impresa.


Art.14 - Consiglio di gestione.
Il consiglio di amministrazione è presieduto dal capo dell'impresa ed è composto di rappresentanti eletti dalle varie categorie di lavoratori dell'impresa:operai, impiegati amministrativi, dirigenti, nonchè di almeno un rappresentante proposto dall'Istituto di gestione e finanziamento, e nominato dal ministro dell'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze. Le modalità di elezione e il numero dei membri del consiglio, saranno determinati dallo statuto dell'impresa. Nessuno speciale compenso, salvo il rimborso delle spese, è dovuto ai membri del consiglio d'amministrazione per le loro attività.
Art.15 - Poteri del consiglio di gestione.
Per i poteri dei consigli di amministrazione delle imprese di proprietà dello Stato, valgono le norme contenute nel precedente articolo 7.
Art.16 - Collegio sindacale.
Il consiglio sindacale delle imprese di proprietà dello Stato è costituito con decreto del ministro dell'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze, su proposta dell'Istituto di gestione e finanziamento.
Art.17 - Approvazione del bilancio e riparto degli utili - Deliberazioni eccedenti l'ordinaria amministrazione.
Il bilancio delle imprese di proprietà dello Stato e il progetto di riparto degli utili, gli aumenti e le diminuzioni di capitali, nonchè le fusioni, le concentrazioni, lo scioglimento e la liquidazione di imprese di proprietà dello Stato, sono proposti dall'Istituto di gestione e finanziamento, sentito il consiglio di amministrazione delle imprese interessate e approvate dal ministro per l'Economia corporativa di concerto col ministro per le Finanze e con gli altri ministri interessati.

SEZIONE III - DISPOSIZIONI COMUNI ALLE SEZIONI PRECEDENTI:

Art.18 - Atti costitutivi e statutari delle imprese di proprietà dello Stato.
Gli atti costitutivi e, gli statuti delle imprese di proprietà dello Stato, come pure ogni loro modificazione sono approvati con decreto del ministro per l'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze.
Art.19 - Statuti, regolamenti delle imprese di proprietà privata.
Entro il 30 giugno 1944 tutte le imprese a capitale privato dovranno provvedere ad adeguare gli statuti alle norme contenute nel presente decreto. Le imprese individuali, non regolate da statuto, dovranno redigere il regolamento entro il termine suddetto. Statuti e regolamenti saranno sottoposti nel termine di 30 giorni alla omologazione del Tribunale competente per territorio che, riscontratene la regolarità e la rispondenza al presente decreto e alle leggi vigenti in materia, ne ordinerà la trascrizione nel registro delle imprese.
Art.20 - Modalità di elezione dei rappresentanti dei lavoratori.
I rappresentanti dei lavoratori chiamati a far parte degli organi delle imprese socializzate, siano esse di proprietà dello Stato o di proprietà privata, sono eletti con votazione segreta da tutti i lavoratori della impresa, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi e dirigenti, su una lista formata dai Sindacati comunali delle singole categorie.
La lista comprenderà un numero di lavoratori multiplo di quello dei rappresentanti da eleggere e proporzionale alle singole categorie dei lavoratori dell'impresa.


SEZIONE IV - RESPONSABILITA' DEL CAPO DELL'IMPRESA E DEGLI AMMINISTRATORI.

Art. 21 - Responsabilità del capo dell'impresa.
Il capo dell'impresa, sia essa di proprietà dello Stato o di proprietà privata, è personalmente responsabile di fronte allo Stato, dell'andamento della produzione nell'impresa e può essere rimosso e sostituito a norma delle disposizioni di cui agli articoli seguenti, oltrechè nei casi previsti dalle vigenti leggi, quando la sua attività non risponda alle esigenze dei piani generali di produzione e alle direttive della politica sociale dello Stato.
Art.22 - Sostituzione del capo dell'impresa di proprietà dello Stato.
Nell'impresa di proprietà dello Stato, la sostituzione del capo dell'impresa è disposta dal ministro per l'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze, di ufficio o su proposta dell'Istituto di gestione e finanziamento, o del consiglio di amministrazione, o dei Sindacati, premessi gli opportuni accertamenti.
Art.23 - Sostituzione del capo dell'imprese private a capitale sociale.
Nelle società per azioni la sostituzione del capo dell'impresa è deliberata dall'assemblea e nelle altre imprese a capitale sociale, la sostituzione del capo dell'impresa è regolata dagli atti costitutivi, statuti o regolamenti, oppure può essere promossa dal consiglio di amministrazione con la stessa procedura prevista dagli articoli 24 e seguenti, per le imprese private a capitale individuale.
E' in facoltà del ministro per l'Economia corporativa, provvedere alla sostituzione d'ufficio del capo dell'impresa, quando egli dimostri di non possedere senso di responsabilità e manchi ai doveri indicati dall'art. 21.
Art. 24 - Sostituzione del capo dell'impresa a capitale individuale.
Nelle imprese private, a capitale individuale, l'imprenditore capo dell'impresa può essere sostituito soltanto in seguito a sentenza della Magistratura del lavoro, che ne dichiari la responsabilità. L'azione per la dichiarazione di responsabilità può essere provocata dal consiglio di gestione dell'impresa, dall'Istituto di gestione e di finanziamento, qualora interessato nell'impresa, o dal ministro della Economia corporativa, mediante istanza del procuratore di Stato presso la Corte d'Appello competente per territorio.
Art. 25 - La Magistratura del lavoro, sentito l'imprenditore, il Pubblico ministero, il consiglio di gestione e di finanziamento interessato:premessi gli opportuni accertamenti, dichiara, con sentenza, la responsabilità dell'imprenditore. Contro la sentenza è ammesso ricorso presso la Corte di Cassazione, a norma dell'art. 426 del Codice di procedura civile.
Art. 26 - Sanzioni contro il capo dell'impresa.
A seguito della sentenza che dichiara la responsabilità dell'imprenditore, il ministro dell'Economia corporativa prende quei provvedimenti amministrativi che riterrà del caso, affidando, se occorre, la gestione dell'impresa a una cooperativa, da costituirsi fra i dipendenti dell'impresa medesima.
Art. 27 - Misure cautelari.
Pendente azione di cui agli articoli precedenti, il ministro per l'Economia corporativa può sospendere, con proprio decreto, l'imprenditore, capo dell'impresa, dalla sua attività, e nominare un commissario per la temporanea amministrazione dell'impresa.
Art. 28 - Responsabilità dei membri del consiglio di gestione.
Qualora il consiglio di amministrazione dell'impresa, sia di proprietà dello Stato, sia di proprietà privata, dimostri di non possedere sufficiente senso di responsabilità nell'assolvimento dei compiti affidatigli per l'adeguamento dell'attività dell'impresa alle esigenze dei piani di produzione e della politica sociale della Repubblica, il ministro dell'Economia corporativa, di concerto col ministro delle Finanze, può disporre, premessi gli opportuni accertamenti, lo scioglimento del consiglio e la nomina di un commissario per la temporanea gestione dell'impresa. L'intervento del ministro dell'Economia corporativa può avvenire di ufficio o su istanza dell'Istituto di gestione e finanziamento se interessato, o del capo dell'impresa o dell'assemblea dei sindaci.
Art. 29 - Sanzioni penali.
Al capo dell'impresa, e ai membri del consiglio di amministrazione di essa, sia di proprietà dello Stato, sia di proprietà privata, sono applicabili tutte le sanzioni penali, previste dalle leggi per gli imprenditori, soci e amministratori delle società commerciali.

TITOLO II

Art. 30 - Passaggio delle imprese in proprietà dello Stato.
La proprietà delle imprese che impegnino settori base per l'indipendenza politica ed economica del Paese, nonchè di imprese fornitrici di materie prime, di energia o di servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita sociale, può essere assunta dallo Stato, secondo le norme del presente decreto. Quando l'impresa comprende aziende aventi attività produttive diverse, lo Stato può assumere la proprietà di parte soltanto dell'impresa stessa. Lo Stato può, inoltre, partecipare alla formazione del capitale di imprese private.
Art. 31 - Determinazione dell'impresa da passare in proprietà dello Stato.
Con decreto del Capo dello Stato, sentito il consiglio dei ministri, su proposta del ministro per l'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze, saranno di volta in volta determinate le imprese cui lo Stato intenda assumere la proprietà.
Art. 32 - Sottoposizione a sindacato - Nomina dei sindacatori e di commissari di Governo.
Con lo stesso decreto di cui all'articolo precedente, e con decreti successivi, le imprese per le quali sia stato deciso il passaggio di proprietà allo Stato, vengono sottoposte al sindacato con la procedura di cui alla legge 17 luglio 1942 n. 1100, e vengono nominati i sindacatori. Potrà anche essere affidato a uno degli amministratori dell'impresa la gestione, straordinaria questa, in qualità di commissario del Governo.
Art. 33 - Nullità dei negozi che modificano i rapporti di proprietà del capitale.
Saranno considerati nulli i negozi tra vivi, che comunque modifichino i rapporti di proprietà nei riguardi dei titoli azionari, rappresentanti il capitale delle imprese, per le quali viene deciso il passaggio in proprietà dello Stato, effettuati dal giorno dell'entrata in vigore del provvedimento di proprietà.
Art. 34 - Amministrazione del capitale delle imprese di proprietà dello Stato.
Il capitale delle imprese assunte in proprietà dallo Stato, è amministrato per mezzo di un Istituto di gestione e finanziamento, ente pubblico con propria personalità giuridica. La costituzione dell'Istituto e l'approvazione del relativo statuto saranno disposti con separati provvedimenti.
Art. 35 - Compiti dell'Istituto di gestione e finanziamento.
L'Istituto di gestione e finanziamento controlla l'attività delle imprese, di cui all'art. 20, secondo le direttive del ministro dell'Economia corporativa, e amministra altresì le partecipazioni assunte dallo Stato in imprese private.
Art. 36 - Trasformazione delle quote di capitale.
Le quote di capitale, già investite nelle imprese che passano in proprietà dello Stato, vengono sostituite da quote di credito dei singoli portatori verso l'Istituto di gestione e finanziamento, rappresentato da titoli emessi dall'Istituto medesimo, ai sensi del successivo art.40.
Art. 37 - Valore di trasferimento delle quote di capitale.
La sostituzione delle quote di capitale già investite in ciascuna impresa, che passa in proprietà dello Stato con i titoli dell'Istituto di gestione e finanziamento, viene effettuata per un ammontare pari al valore reale di dette quote di capitale.
Art. 38 - Determinazione del valore delle quote di capitale.
Il valore reale delle quote di capitale delle imprese da trasferire in proprietà dello Stato sarà determinato con decreto del ministro per l'Economia corporativa, di concerto col ministro per le Finanze, su proposta dell'Istituto di gestione e finanziamento, in contraddittorio con gli amministratori dell'imprese. Contro il decreto del ministro dell'Economia corporativa è ammesso ricorso, entro 60 giorni dalla sua pubblicazione, al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, da parte degli amministratori dell'impresa. o di tanti che rappresentino almeno un decimo del capitale sociale.
Art. 39 - Caratteristiche dei titoli dell'Istituto di gestione e finanziamento.
I titoli dell'Istituto di gestione e finanziamento sono nominativi, negoziabili, trasferibili e a reddito variabile. Essi vengono emessi in serie distinte, corrispondenti a singoli settori di produzione. Per ciascuna serie il reddito è annualmente determinato dal Comitato dei ministri per la difesa del risparmio e l'esercizio del credito, su proposta dell'Istituto di gestione e finanziamento, tenuto presente l'andamento dei relativi settori produttivi e quello generale della produzione.
Art. 40 - Limitazione alla negoziabilità dei titoli.
E' demandata al Comitato dei ministri per la difesa del risparmio e l'esercizio del credito, la limitazione della negoziabilità dei titoli dell'Istituto di gestione e finanziamento, emessi in sostituzione di quote di capitale, o anche iscrizione nei libri dell'Istituto del credito dei titolari di tali quote senza che venga effettuata la materiale consegna dei titoli.
Art. 41 - Modalità del passaggio in proprietà dello Stato.
Col decreto che dispone il trapasso delle imprese allo Stato, verranno stabilite le norme integrative e di esecuzione sulle modalità e i  termini del trapasso medesimo, nonchè quelle altre norme, modalità e termini che si renderanno necessari ed opportuni per il trasferimento del capitale allo Stato e per l'assegnazione e distribuzione dei titoli dell'Istituto di gestione e finanziamento agli aventi diritto.
TITOLO III

Art. 42 - Determinazione degli utili.
Gli utili netti delle imprese risultano dai bilanci completi secondo le norme del Codice civile e sulla base di una contabilità aziendale , che potrà successivamente essere unificata con opportuni provvedimenti di legge.
Art. 43 - Remunerazione del capitale.
Sugli utili netti, dopo le assegnazioni di legge alla riserva e alla costituzione di eventuali riserve speciali, che saranno stabilite dagli statuti e regolamenti, è ammessa una remunerazione al capitale investito nell'impresa, in una misura massima, fissata per i singoli settori produttivi dal Comitato ministeriale per la tutela del risparmio e l'esercizio del credito.
Art. 44 - Assegnazione degli utili ai lavoratori.
Gli utili che residueranno dalla assegnazione di cui all'articolo precedente, verranno ripartiti fra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi e dirigenti, in rapporto all'entità della remunerazione percepita nel corso dell'anno. Tale ripartizione non potrà comunque eccedere il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette,corrisposte al lavoratore nel corso dell'esercizio. Le eccedenze saranno destinate a una cassa di compensazione amministrata dall'Istituto di gestione e finanziamento, e destinata a scopi di natura sociale e produttiva. Con separato provvedimento del ministro dell'Economia corporativa, di concerto col ministro delle Finanze, sarà approvato il regolamento di tale cassa.
Art. 45 - Le quote di utili.
La quota di utili del'impresa a capitale individuale, da volgere a favore dei lavoratori, dovrà essere commisurata a una percentuale del reddito, accertata ai fini della Ricchezza mobile.
Art. 46 - Il presente decreto, che sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale d'Italia ed iscritto, munito del sigillo dello Stato, nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti, entrerà in vigore il giorno che sarà stabilito con successivo decreto del Duce della Repubblica sociale italiana.

Socializzazione. Unica via

Nel dominio delle scelte economiche che lo Stato – il vero Stato – ha il diritto e il dovere di compiere, così come in tutte le scelte indotte che consistono nelle sue ricadute sociali e territoriali (fisco, tributi, politiche abitative, partecipazione del settore economico alla determinazione della politica nazionale) è necessario escludere ogni sorta di frazionismo.
L’opzione “riformista”, al pari delle manovre di solidarietà (che spesso si configurano come una vera e propria elemosina concessa al popolo in nome del mantenimento della c.d. “pace sociale”[1]), si inseriscono storicamente nel filone dei sistemi politici capitalisti nei termini di assenza di soluzioni ai problemi che inevitabilmente, a causa della loro stessa natura, vengono a crearsi all’interno delle società rette dai sistemi capitalisti stessi e di quelle a loro vincolate da rapporti vetero o neo-coloniali. In tale settore si inseriscono i “bonus”, i provvedimenti di sostegno al reddito, le misure a favore degli incapienti; ma anche la tassazione dei redditi elevati, le concessioni e le agevolazioni sociali (case popolari, asili nido, etc.), se non estrapolate dal contesto politico liberista, si configurano come fumo negli occhi utile solo a offuscare le responsabilità e le colpe che ricadono sulla gestione predatoria della cosa pubblica, sul sistema liberale capitalista di mercato.
Le stesse teorie economiche alternative volte, nelle intenzioni, alla ricerca di soluzioni basate sull’equità e sulla giustizia, improntate sulla collettivizzazione, sul dirigismo d’apparato e sul protezionismo, sono state storicamente condannate proprio in quanto manifestatesi nei termini di “capitalismo di Stato” e si sono auto-distrutte configurandosi in apparati burocratici e antipopolari che sono stati espressione delle loro stesse teorizzazioni socioeconomiche. Sono quindi state condannate dalla storia politica ed economica, ma soprattutto sono state risucchiate dal vuoto pneumatico in cui consisteva il loro fondamento dottrinario, quello cioè che delineava – ricalcando lo schema adottato dall’economia di mercato – la tragica figura dell’homo oeconomicus, l’uomo concepito come tubo digerente. Di questi uomini, di questi esofagi antropomorfi, avrebbero voluto – nella loro critica al sistema capitalista – appianare e uniformare universalmente il diametro. Ma lo schema, la visione del mondo, restavano gli stessi.
L’unica risposta sensata alla crisi del capitalismo[2] e alla sterilità delle dottrine che, dall’Ottobre bolscevico in poi, hanno nominalmente tentato di contrastarlo, risiede nella socializzazione. Essa ha la sua forza proprio nell’essere istanza totalitaria, nel comprendere quindi la totalità degli aspetti socio-politici – e non solo economici – della vita dell’uomo all’interno delle strutture sociali e produttive in cui è inserito, che dovranno di conseguenza (e totalitariamente) essere ricondotte allo Stato.
La socializzazione, unica economia possibile, unica forma in cui può inverarsi la sostanza dell’amministrazione della cosa pubblica relativamente alla gestione dei beni materiali e dell’influenza che il patrimonio spirituale, intellettivo e scientifico di una comunità su questi può esercitare, ha trovato il proprio fondamento in tutte le organizzazioni comunitarie, sociali e nazionali che – fuori da ogni metafora – definiamo “tradizionali”.
Dalla dottrina distributista cristiana all’ordinamento socioeconomico feudale, dal più genuino sindacalismo e anarchismo rivoluzionario europeo fino alle migliori espressioni delle rivoluzioni nazionali, sociali e fasciste del secolo scorso, si è sviluppata quindi una secolare dottrina economica che prevedeva la rottura del vincolo individualista che ha legato l’uomo alla merce rendendolo – negli ordinamenti liberal-capitalisti – oggetto dello sfruttamento senza il quale non sarebbe possibile la tesaurizzazione e l’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi[3], ovvero – negli ordinamenti burocratico-marxisti – oggetto della mercificazione e della riduzione a mero indice produttivo del proprio lavoro e della propria vita.
La dottrina economica della socializzazione non può e non deve essere disgiunta dall’istanza nazionale; socializzazione e nazionalizzazione devono marciare su binari paralleli, binari che porteranno, senza equivoci di sorta, l’uomo alla riappropriazione dei destini delle propria comunità attraverso l’identificazione lavoro-nazione. Fuori da questo schema ogni cosa perderebbe di senso: senza il patrocinio dello Stato, in cui la Nazione ha il proprio compimento materiale e spirituale, è impossibile imprimere una simile politica economica (se non in una fase rivoluzionaria). Socializzare le imprese e la produzione, rendendone i lavoratori ‘proprietari’, significa e comporta nazionalizzarle: se la socializzazione è un movimento che parte dal basso percorrendo la direttrice lavoratore-impresa, la nazionalizzazione ne è il completamento verso l’alto, lungo la direttrice impresa-Stato. Ed è dalla congiunzione di queste due direttrici che necessariamente prende forma una prassi politica che non può che definirsi socialista nazionale.
La dottrina economica della socializzazione non può e non deve altresì essere disgiunta dalla proprietà popolare della moneta. L’economia socializzata sta alla predazione capitalista come la moneta di popolo sta al signoraggio. L’azione usuraia delle banche sarebbe infatti insormontabile ostacolo alla delineazione dello schema sopra citato: la nazionalizzazione socialista del lavoro creerebbe un circolo virtuoso che relegherebbe la struttura bancaria a sottostare alle direttive dello Stato in quanto gestore delle sfera monetaria dell’economia. E’ uno degli aspetti più rilevanti della natura totalitaria della vera economia che, oltre a non prevedere una entità superiore allo Stato nella determinazione delle scelte inerenti la propria amministrazione, prevede un equo concetto di fiscalità non imposta sul reddito da lavoro che troverà compensazione – ai fini del reperimento dei fondi necessari alla spesa pubblica – nell’assorbimento del debito pubblico causato dal signoraggio delle banche.
Volutamente ricusiamo, nel definire la socializzazione nazionale, l’espressione “terza via”, che presume l’esistenza di altre due, o che a molti addirittura trasmetterebbe un significato di compromesso. Essa è infatti “unica via” o, come si è già detto, unica economia possibile. Profondamente differenziata dalle isterie del capitalismo e del conseguente sfruttamento di uomini e popoli. Profondamente differenziata dal marxismo burocratico, economicistico e mercificante. Un’unica via, più umana, più alta.
[
1] Zbigniew Brzezinski ha creato un neologismo inglese per descrivere il fenomeno: tittytainment (composto di “titty”, capezzolo, ed “entertainment”, intrattenimento. Tale termine sta ad indicare il senso di sedazione, simile a quello del poppante che si nutre al seno materno, da trasmettere al popolo attraverso il condizionamento propagandistico rafforzato da misure apparentemente volte a garantirne il benessere.
[2] La stessa dicitura “crisi del capitalismo” è ridondante. E’ lo stesso capitalismo a essere crisi, non a generarla; e l’ingiustizia sociale e la iniquità economica non risiedono in una cattiva gestione del sistema-capitalismo, ma sono la caratteristica primaria del sistema stesso.
[3] Ciò vale ovviamente per la stragrande maggioranza degli uomini; per chi, nell’ambito della legge della giungla capitalista, ha la proprietà del lavoro e delle vite altrui le cose stanno diversamente. Non è vero infatti che il capitalismo “non funziona”: per i capitalisti funziona benissimo, come la rivoltella funziona per il ladro.  

Fabrizio Fiorini

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