mercoledì 15 agosto 2012

La nascita della Banca d’Inghilterra e la moneta creata dal nulla Le origini del “debito pubblico”

  


 Mario Consoli
su "Rinascita" (13 Agosto 2012)


Seguendo le notizie della crisi finanziaria globale su giornali e telegiornali, sembrerebbe emergere il volto del responsabile di ogni male, del nemico principale da sconfiggere: il debito pubblico.
Si dice che sia il risultato di una spesa statale scriteriata e clientelare, ed in parte è sicuramente vero. Si dice che sia stato creato da una politica spendacciona e ladra oltre ogni ritegno, e anche questo è vero.
Si dice poi che sia proprio lui, il debito pubblico, il responsabile della instabilità della moneta, della crisi economica e del rallentamento dello sviluppo produttivo. Ma su ciò qualche dubbio sorge.
Più si analizza la situazione infatti, cercando di liberarsi da pregiudizi, paraocchi e dalle suggestioni create dai mass media, più la questione del debito pubblico non appare così semplice e sorgono spontanee domande alle quali è legittimo cercare risposte.
Come nasce il debito pubblico? Quali sono e come funzionano i meccanismi che lo fanno diventare un fenomeno cronico? Chi è oggi il proprietario del debito pubblico delle nazioni in crisi? Che rapporto intercorre tra debito pubblico e libertà dei popoli?
Sarà bene cominciare dall’inizio.
Louis Even, il propugnatore del Credito Sociale, scrisse sull’argomento un racconto illuminante: cinque naufraghi riuscirono a raggiungere un’isola deserta. Si trattava di un muratore, un contadino, un allevatore, un esperto in agraria e un ingegnere minerario.
Secondo le rispettive competenze, i cinque si dettero da fare per realizzare una comunità funzionale e soddisfacente. Il muratore si mise a costruire capanne; l’allevatore cominciò a catturare e porre in recinti gli animali utili per ottenere latte, uova e carne; l’agronomo e il contadino si dedicarono ai frutti della terra; l’ingegnere procurò i metalli per forgiare utensili, pentolame, chiodi e quant’altro era necessario.
La vita procedeva serena; un solo inconveniente creava qualche problema di convivenza: lo scambio dei beni, frutto delle rispettive attività, non poteva avvenire in uno stesso momento e la mancanza di appropriati strumenti economici imponeva una serie di riunioni con discussioni piuttosto complesse.
Successivamente arrivò sull’isola il sopravvissuto di un altro naufragio. Sbarcò da una scialuppa malridotta con la quale aveva portato poche cose frettolosamente salvate, tra cui una pressa, una cassa piena di carta e un barile sigillato. Il nuovo arrivato fu ben accolto dai cinque, contenti di veder la propria comunità crescere, e la loro gioia aumentò quando seppero che si trattava di un banchiere. Proprio quello che mancava: una persona capace di organizzare l’economia dell’isola.
Il banchiere, preso atto delle attività dei cinque, disse:
«Per far funzionare bene le cose vi manca solo il denaro. È con il denaro che il contadino può comprare oggi ciò di cui ha bisogno senza dover aspettare la stagione del raccolto, e così gli altri il momento in cui avranno finito di costruire una capanna o di fabbricare un utensile. Io posso facilmente risolvere i vostri problemi. Con la carta e la pressa posso stampare 1000 dollari. Il barile che ho con me è pieno d’oro; lo sotterrerò in un posto segreto e lo lascerò in garanzia della copertura del denaro coniato. Vi presterò duecento dollari a testa a un interesse bassissimo: il 2% annuo. Io sarò garantito dai frutti delle vostre attività, dalle vostre capanne e dai vostri attrezzi».

Tutti si sentirono soddisfatti perché, risolta la questione della liquidità commerciale, ognuno poté tornare alle proprie attività senza avere più problemi. Ma la serenità durò fino a quando, passato un certo tempo, cominciarono a fare dei conti e scoprirono una situazione assai spiacevole. L’ammontare del loro debito – capitale più gli interessi maturati – era superiore all’intero importo del circolante. Arrivò quindi il momento in cui fu indispensabile, per pagare gli interessi, mantenendo inalterata la liquidità necessaria all’economia dell’isola, chiedere altri prestiti, che il banchiere fu ben contento di concedere.
In quell’isola era così nato il debito pubblico. Un debito destinato ad aumentare anno dopo anno.
Inevitabilmente il banchiere, a forza di conteggiare interessi, e gli interessi sugli interessi, stava diventando il padrone di tutti i beni presenti sull’isola e manifestava il proprio potere imponendo ai cinque quello che a parer suo dovevano o non dovevano fare. I cinque allora compresero quale errore fosse stato accettare quei 1000 dollari e che, se il denaro se lo fossero stampato loro, senza l’intromissione di quel banchiere venuto dal mare, non avrebbero avuto i problemi che ora li affliggevano.
Il denaro rappresentava il valore dei beni presenti sull’isola e quindi, essendo loro i proprietari dei beni, avrebbero dovuto essere anche i proprietari del denaro sul quale nessuno avrebbe potuto pretendere il pagamento di interessi. I cinque allora, compresa la truffa, si ribellarono, rimisero il banchiere sulla barca con la quale era arrivato, e lo ricacciarono violentemente in mare.
A completare la vicenda, Even racconta che, quando i cinque andarono a dissotterrare il barile che doveva rappresentare la copertura aurea della moneta stampata, scoprirono che era pieno di sassi.

Nella realtà storica le cose sono andate pressappoco nello stesso modo, a parte la risolutiva conclusione della vicenda, la ricacciata in mare del banchiere e della sua barca.
Nel 1694, in Inghilterra, succeduto in modo turbolento a Giacomo II Stuart, regnava Guglielmo III d’Orange, che aveva vissuto in Olanda in un ambiente di mercanti e banchieri ed era stato educato secondo i valori calvinisti. Guglielmo era impegnato in un grande sforzo bellico contro la Francia di Luigi XIV, il Re Sole. La flotta era stata raddoppiata e l’esercito rifatto ex novo. Le spese militari superavano il 74% dell’intera spesa pubblica e la necessità di reperire nuovi fondi aumentava a vista d’occhio.
L’imposizione fiscale era altissima e Guglielmo temeva, esigendo nuove tasse, di perdere il consenso della nobiltà e della borghesia. In quegli anni l’economista francese Jean-Baptiste Colbert scriveva:
«La tassazione è l’arte di spennare l’oca in modo tale da avere il massimo di piume con il minimo possibile di starnazzi».

Si fece quindi allettare dalle proposte di un banchiere scozzese, William Paterson – capofila di una cordata di banchieri e appoggiato dal tesoriere dello Scacchiere, Lord Montague – che gli offrì un prestito a interesse di un milione e 200 mila sterline. Ciò significava spostare il problema. Disporre del denaro subito e rimandare a tempi successivi le conseguenze negative per i cittadini contribuenti.
Le condizioni poste furono queste: oltre ad incassare gli interessi dell’8%, Paterson doveva essere autorizzato ad emettere banconote per un importo pari al prestito concesso al governo. Scrisse il banchiere:
«Se i proprietari della banca potranno far circolare la somma di un milione e duecentomila sterline senza avere in giacenza più di duecentomila o trecentomila sterline, questa banca immetterà nella Nazione nuova moneta per un importo di novecentomila o un milione di sterline».
Poi si seppe che, nella realtà, la quantità di sterline emesse e la copertura offerta dalla nascente banca in questa operazione erano state differenti: nel 1696, a fronte di 1.750.000 sterline stampate, esisteva una riserva di cassa di sole 36.000 sterline d’oro.
Il parlamento, sotto la pressione del re, autorizzò l’operazione e Paterson fondò, assieme ai suoi soci, la Banca d’Inghilterra che, nonostante il nome che farebbe pensare ad una istituzione dello Stato, era una ditta assolutamente privata, allora con soli 19 dipendenti.
William Paterson sintetizzò il senso dell’operazione con una frase estremamente chiara:
«La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla».

Quell’emissione di sterline fu solo la prima di una lunghissima serie. La convertibilità in oro di quella cartamoneta fu da subito un fatto formale, poiché il reale rapporto tra quantità di denaro stampata e disponibilità aurea presente nei depositi della banca era tenuto assolutamente segreto, sia all’esterno che all’interno dell’istituto; era informazione riservata esclusivamente al Governatore.
È poi il caso di ricordare che la convertibilità in oro della sterlina fu sospesa nel 1914, molto prima del dollaro (15 agosto 1971) e di tutte le altre valute.
Fino al 1694, sia in Inghilterra che altrove, l’unica moneta ufficialmente circolante era stata quella coniata dallo Stato. Da allora, invece, la moda di delegare l’emissione del denaro a banche private si è diffusa ovunque. E gli Stati pagano a questi soggetti gli interessi per il denaro stampato.
Sul modello della banca di Paterson furono istituite: nel 1695 la Bank of Scotland, nel 1765 la Königliche Giro und Lehnbanco di Berlino, nel 1782 il Banco di San Carlo di Madrid, nel 1800 la Banca di Francia.
Un tempo il potere di coniare moneta era riservato alla massima autorità: re, duca o principe. Chi possedeva oro o argento poteva portarlo alla zecca dello Stato che provvedeva a trasformare il metallo prezioso in monete. Una piccola parte di questo metallo veniva trattenuta come compenso per l’operazione di conio. Questo compenso si chiamava signoraggio ed era un privilegio gelosamente custodito e difeso dall’autorità, perché rappresentava anche un’importante fonte di entrate. Oltre al compenso per il conio, che alla bisogna poteva essere anche gonfiato, erano evidenti i numerosi vantaggi derivanti dal controllo delle zecche. Non fu raro che la padronanza dell’emissione della moneta garantisse allo Stato consistenti entrate finanziarie, apparentemente senza pesare sui contribuenti. Il termine signoraggio si è conservato, ed ancor oggi indica tutti i benefici che sono riservati a chi emette moneta, che però non è più il signore – lo Stato – ma le banche private il cui mestiere non è perseguire gli interessi della Nazione, bensì i propri utili e farsi complici dei giochi degli speculatori.
Dunque, non si comprende in virtù di quale criterio di legittimazione, i proprietari del denaro smettono di essere il re, o lo Stato, o il popolo, e lo diventano i banchieri.
Nasce così il moderno debito pubblico, il debito pubblico permanente.
Dalla data della fondazione della banca di Paterson al 1788 – meno di un secolo – il debito pubblico dell’Inghilterra passa da 13 milioni di sterline a 245 milioni, con un incremento del 1800%.
Non è che una volta il debito pubblico non esistesse: i monarchi nella storia, soprattutto per finanziare guerre, hanno sempre fatto ricorso a ingenti prestiti. Ma generalmente erano vicende che avevano un inizio e una fine.
A guerra vinta il denaro veniva restituito e gli interessi pagati – anche quando raggiungevano le quote usurarie del 30-40% – o, a guerra persa, veniva destituito il re o il governo e il prestito spesso andava a farsi benedire. Generalmente la questione veniva trattata come un affare andato male o un investimento sbagliato. Sono rimasti famosi i casi dei Bardi e dei Peruzzi, finiti in rovina per l’insolvenza di re Edoardo III d’Inghilterra, e della filiale di Bruges dei Medici, messa in liquidazione dopo il pessimo esito del finanziamento concesso al duca di Borgogna Carlo il Temerario. I creditori di Filippo IV di Francia – il Bello – oltre a non riscuotere il dovuto, furono cacciati dal regno.
Più che di debito pubblico in effetti si trattava di vicende legate a case regnanti e a singoli eventi storici.
Dopo il 1694, un po’ come abbiamo visto nel racconto dei naufraghi, quella del debito pubblico diviene invece una malattia cronica.
In queste settimane si fa un gran parlare di disavanzo e avanzo primario. Si tratta della differenza tra le entrate e le spese pubbliche al netto degli interessi. Appare evidente che ogni situazione, anche la più complessa e apparentemente compromessa, con una politica oculata e una sufficiente dose di buona volontà, potrebbe essere sistemata. Sono gli interessi che fanno la differenza e condannano alla cronicità e al peggioramento i debiti pubblici.
Sotto gli occhi abbiamo il caso della Grecia. Indubbimente una congiuntura molto pesante; per questo motivo le agenzie di rating declassano la solvibilità di quel debito e gli «aiuti» vengono offerti a interessi sempre più alti. Può, a questo punto, una nazione, ragionevolmente, riuscire a sanare la propria situazione economica e contemporaneamente pagare interessi usurai in continua crescita (nel caso specifico per ora hanno superato il 19%), per giunta maggiorati in funzione dell’anatocismo (gli interessi sugli interessi)? Si tratta di una semplice follia di carattere economico o, più propriamente, di un disegno mal celato di dominio planetario attuato con cinismo sulla pelle dei popoli?
Può una nazione rimanere libera e sovrana vivendo una tale realtà se non ricorre alla rivolta e al rigetto della carità pelosa degli usurai?
* * *
Le banche di emissione, dunque, dopo il 1694 diventano quasi tutte private.
Nel 1937, sotto Stalin, divenne privata persino quella dell’Unione Sovietica: il deus ex machina dell’operazione fu il plurimiliardario petroliere ebreo-americano Armand Hammer.

Il Federal Reserve Act – l’atto istitutivo della Banca Centrale americana, la più grande banca privata del mondo – è del 23 dicembre 1913.
Si trattava di organizzare la gran massa di «promesse di pagamento» emesse in ogni angolo degli Stati Uniti. Si respirava aria di guerra. In Europa stava per scoppiare il primo conflitto mondiale e per gli americani l’occasione si presentava ghiottissima. L’industria bellica poteva moltiplicare la produzione e concludere affari d’oro. Persino l’Inghilterra, per la prima volta nella storia, aveva varcato l’oceano per chiedere denari in prestito all’America.
Con l’istituzione della Riserva Federale si reperirono soldi direttamente presso i contribuenti statunitensi. Scrive l’economista Gertrude M. Coogan:  
«L’America fu sottoposta alla prima sottoscrizione per la ”Libertà” – Liberty Loans –. Il modo in cui avvenne tale finanziamento era estremamente semplice, grazie all’esistenza di questo grande sistema bancario centralizzato. Le banche delle piccole comunità anticiparono alla Banca della Riserva Centrale il 5% del totale del prestito che era stato proposto. Il governo stampò i titoli e li inviò alle banche delle comunità. Ricevuti i titoli, le banche delle comunità ne accreditarono il valore totale sul conto di deposito del Governo degli Stati Uniti. Era semplicemente un metodo legalizzato col quale le banche creavano, mediante artifici contabili, il 95% dei fondi anticipati al Governo degli Stati Uniti. Il Governo degli Stati Uniti, ovviamente, si rivelò magnanimo e fu disposto a pagare gli interessi a queste banche in cambio del loro grande privilegio di creare moneta da prestare al Governo. In effetti è proprio un Governo magnanimo quello che concede a pochi individui il privilegio di creare moneta per esso e consente poi che i suoi cari cittadini, avvezzi a lavorare duramente, comprino quella moneta artificiosa e paghino anche successivamente un tributo sotto forma di interesse».

Charles Lindbergh – non a caso avversato e vilipeso dall’intero establishment finanziario e politico rooseveltiano – definì il Federal Reserve Act «il peggior crimine legislativo di tutti i tempi».
Anche la Federal Reserve fu clonazione dell’Istituto di emissione di Londra, come la gran parte delle Banche Centrali del mondo. Eccezione alla tendenza generale, tra le due guerre mondiali, fu la Germania, che nazionalizzò la sua banca di emissione. L’art. 2 della legge sulla Reichsbank recitava:
«I compiti della Banca Tedesca del Reich derivano dalla sua posizione di banca d’emissione del Reich. Essa sola ha il diritto di emettere banconote. Deve inoltre regolamentare le transazioni e le operazioni finanziarie in Germania e all’estero. Deve anche provvedere alla utilizzazione dei mezzi economici disponibili dell’economia tedesca nel modo più appropriato per l’interesse collettivo e politico-economico».

L’Italia si situò in una posizione intermedia che fu frutto di una serie di compromessi.
Nel 1874 le banche autorizzate a emettere moneta erano sei: la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale della Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca Romana, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Poi, con una legge del 1893, promulgata a seguito del fallimento della Banca Romana, i 4 istituti dell’Italia centro-settentrionale vennero fusi, dando vita alla Banca d’Italia, e rimasero ancora attivi per l’emissione della lira anche il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Solo con la riforma del 1926 la Banca d’Italia resta l’unica con diritto di battere moneta.
Diverse correnti del fascismo avrebbero voluto la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma Mussolini fu frenato dalle pressioni che arrivavano dall’estero, particolarmente dalla Federal Reserve e dalla Banca d’Inghilterra, che minacciavano di sabotare la stabilità della moneta italiana.
Le opinioni di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano particolarmente peso perché proprio con queste due nazioni il Governo italiano si era indebitato negli anni della Prima Guerra Mondiale, per finanziare i propri impegni militari. A causa di ciò il debito pubblico italiano si era gonfiato a dismisura fino a raggiungere il 150% del PIL. Pesante eredità che il fascismo, arrivato al potere, si trovò a gestire.
Tra il 1922 e il 1926 il governo Mussolini – ministro di Finanze e Tesoro Alberto De Stefani – si fece promotore di una serie di operazioni decise e coraggiose, accompagnate da una politica economica internazionale diplomatica e accomodante.
I risultati furono numerosi e importanti: in quattro anni il debito pubblico passò dal 150% al 50% del PIL; fu azzerato il debito con l’estero; il 2 giugno 1925 De Stefani annunciò il raggiungimento del pareggio di bilancio; la spesa pubblica passò dal 35 al 13% del PIL; i disoccupati diminuirono da 600.000 a 100.000; l’inflazione fu bloccata da una serie di iniziative tra le quali si ricorda – la più spettacolare – l’incenerimento di sacchi pieni di banconote; furono distrutti oltre 320 milioni di lire. L’immagine di De Stefani che sovraintende l’eliminazione di ingenti quantitativi di denaro marca la differenza tra un mondo nel quale il potere politico aveva la forza di governare l’economia e l’odierno, squallido panorama nel quale le decisioni vengono assunte dai Signori del denaro e ai politici è riservato il ruolo di servizievoli camerieri.
Nell’agosto del 1926 Mussolini, risanata l’economia nazionale, poté incamminarsi verso la conquista di «quota novanta» – quotazione di novanta lire per una sterlina inglese, facendo rientrare la nostra moneta nel gold exchange standard – imponendo un nuovo vigore al ruolo internazionale dell’economia italiana e della lira.
Il 18 agosto, a Pesaro, in un discorso improvvisato rimasto famoso, Mussolini, dopo aver lodato le qualità e le caratteristiche della popolazione marchigiana, affermò:
«Noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue. Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando siano individuate all’interno».

L’obiettivo «quota novanta» fu raggiunto nel dicembre 1927.
Questa operatività la si poteva ottenere solo disponendo direttamente della sovranità economica e monetaria. Mussolini non volle nazionalizzare la Banca Centrale, e con ciò andare in urto con i due massimi creditori internazionali dell’Italia ma, con la riforma del 1926, escogitò un sistema di controllo – indiretto ma efficace – dell’Istituto di emissione della lira.
La Banca d’Italia rimase un Istituto indipendente – prima una Società autonoma, poi una Società per Azioni – la cui proprietà però fu affidata a un consorzio di Enti statali e di Banche, con preponderanza delle Casse di Risparmio e delle grandi Banche di interesse nazionale che qualche anno dopo sarebbero diventate, con l’IRI, proprietà dello Stato.
La legge prevedeva che le variazioni del tasso di sconto dovevano essere concordate con il ministero delle Finanze e autorizzate dal governo, e che la Banca d’Italia fosse obbligata ad acquistare i Titoli di Stato emessi dal governo.
Nel dopoguerra la situazione non variò sostanzialmente, fino agli anni Ottanta. Nel 1981 – era governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e ministro del Tesoro Beniamino Andreatta – fu sancito il diritto della Banca Centrale a non sottoscrivere – sia parzialmente che in toto – i Titoli di Stato.
La Federal Reserve aveva ottenuto nei confronti del Governo USA un analogo provvedimento già nel 1951. Su preciso ordine delle tre potenze occidentali occupanti la «zona Ovest», la Banca di emissione tedesca rifondata nel dopoguerra – la Deutsche Bundesbank – fu costituita libera da ogni vincolo verso i Titoli di Stato.
Nel 1992 l’ex governatore Guido Carli, nelle vesti di ministro del Tesoro, abolì il controllo del governo sul tasso di sconto, che rimase appannaggio esclusivo della Banca d’Italia. Il definitivo divorzio tra Stato e Istituto di emissione fu decretato poi in quegli anni dalle privatizzazioni gestite da Romano Prodi e Mario Draghi. La stragrande maggioranza delle azioni di Bankitalia infatti, fino allora nelle mani di Enti statali o di Banche o Assicurazioni dello Stato, grazie alle privatizzazioni, passarono a soggetti assolutamente privati.
La maggioranza delle azioni è oggi in mano a Intesa San Paolo e Unicredit. Gli unici enti di Stato rimasti dentro Bankitalia sono l’INPS, con uno striminzito 5% di azioni e l’INAIL con un simbolico 0,6%.
A completare l’opera, con le grandi fusioni bancarie, cessarono di esistere molte Casse di Risparmio – le più importanti – che, anch’esse comproprietarie della Banca d’Italia, erano fino a quel momento vincolate a comportamenti estranei alla disinvolta speculazione finanziaria e a conservare i propri radicamenti territoriali.
Il 28 dicembre 2005 si è verificato un fatto in controtendenza. Nell’ambito della cosiddetta Legge a tutela del Risparmio, numero 262, al punto 10 dell’articolo 19, si stabilisce che entro tre anni, a decorrere dal 12 gennaio 2006, dovevano essere trasferite a enti statali tutte le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti privati.
Ma il gennaio 2009 è passato da un pezzo e nulla di ciò è avvenuto. Illegalmente, dunque, i proprietari di Bankitalia sono ancora le banche private.
Perché nessuno ne ha parlato? Perché nessuno protesta, nemmeno Giulio Tremonti che quella legge volle e firmò?
C’è qualcuno, in questi mesi di grandi manovre fiscali e di tagli della spesa pubblica, che ha avanzato la proposta di vendere l’oro della Banca d’Italia – sono 2.500 tonnellate – per abbassare il livello del debito pubblico. Ma, semplicemente, non lo si può fare. Perché quell’oro, che è nei bilanci delle banche, non è del popolo italiano: non è nell’attivo dello Stato.
Recentemente hanno destato stupore le controverse vicende che hanno caratterizzato la nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. Alla candidatura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale dell’Istituto e delfino di Mario Draghi, si era opposta quella di Vittorio Grilli, direttore generale del ministero del Tesoro, caldeggiata da Giulio Tremonti e Umberto Bossi. Dopo settimane di incertezza la scelta ha finito per premiare un terzo nome, quello di Ignazio Visco.
Per comprendere ciò che è realmente accaduto, al di là delle laconiche, evasive cronache giornalistiche, occorre fare un passo indietro e mettere in primo piano l’Istituto di cui nessuno in questa occasione ha mai parlato: la BRI di Basilea, la Banca dei Regolamenti Internazionali.
La BRI fu istituita dopo la Prima Guerra Mondiale per organizzare i trasferimenti valutari relativi al piano di riparazioni imposto alla Germania dopo il Trattato di Versailles. Esaurito il suo ruolo originario, la BRI divenne l’Istituto di coordinamento di tutte le Banche centrali del mondo; la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra hanno in mano il 40% della sua proprietà, una quota sufficiente a garantirne l’assoluto controllo.
Dunque, Saccomanni è uomo della BRI – membro del Consiglio di amministrazione – mentre Grilli è un tecnico dello Stato italiano, e per questo sponsorizzato da alcuni ministri del governo. Alla fine, con «soddisfazione di tutti», seguendo il vecchio adagio «tra i due litiganti il terzo gode», è stato nominato Visco. Un uomo nuovo, un outsider? No, nessuno lo ha rimarcato, ma si tratta di un altro uomo targato BRI; anche lui fa parte di quel Consiglio di amministrazione.
Dunque, oplà! Due piroette e tre salti mortali e tutto è rimasto come prima: a capo della Banca d’Italia c’è ancora un esponente del sistema bancario internazionale.
* * *
È quindi ineluttabile che il monopolio dell’emissione della moneta rimanga in mani private? Nessuno si è mai ribellato tentando strade diverse?
Le cose non stanno proprio così.
Abramo Lincoln, per quadrare il bilancio degli Stati Uniti, nel 1862, aveva bisogno di 449 milioni di dollari. Le banche inglesi fecero conoscere la loro disponibilità ad erogare un prestito al 30% di interesse.
Lincoln sdegnosamente rifiutò ed affermò che:
«Ogni governo può creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare le proprie necessità di spesa ed il potere d’acquisto dei consumatori».
Ed ancora:
«La moneta è la creatura della legge e l’emissione originaria della moneta deve essere mantenuta quale esclusivo monopolio del governo nazionale».

Con una legge del 25 febbraio 1862 – Legal Tender Act – si dette il via all’emissione di dollari di Stato – che per il colore dell’inchiostro usato furono chiamati greenbacks, «biglietti verdi» – sui quali il governo non avrebbe dovuto pagare alcun interesse.
D’altronde lo scontro tra la classe dirigente statunitense e le banche private non era una novità fin dall’epoca coloniale. Nel 1757 Benjamin Franklin fu chiamato, in qualità di rappresentante delle colonie, a relazionare al parlamento britannico e, per spiegare la prosperità dei territori amministrati in America, affermò: «Nella colonia emettiamo la nostra moneta, chiamata Colonial Script [biglietto coloniale]. La emettiamo in proporzione alla domanda commerciale ed industriale per facilitare il passaggio delle merci dal produttore al consumatore. In questo modo, creando noi stessi la moneta, ne controlliamo il potere d’acquisto e non dobbiamo pagare interessi a nessuno».
Tra i presidenti statunitensi che precedettero Lincoln si schierarono contro i tentativi dei banchieri di controllare la moneta USA Thomas Jefferson, James Madison e Andrew Jackson. È nota l’affermazione di Jefferson:
«Io credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per la nostra libertà di quanto non lo siano gli eserciti nemici. Esse hanno già organizzato una potente lobbie che ha attaccato il governo con arroganza. Il potere di emissione deve essere tolto alle banche e restituito al popolo, al quale legittimamente appartiene».

Tornando a Lincoln, i banchieri statunitensi e quelli inglesi, peraltro tra loro strettamente collegati, non digerirono facilmente la decisione di stampare dollari di Stato. Il Times di Londra in quella circostanza scrisse:
«Se la perversa politica finanziaria adottata dalla repubblica dell’America settentrionale nel corso dell’ultima guerra combattutasi in quel paese dovesse piantar radici ancor più solide, allora quel Governo provvederà alla fornitura della propria moneta senza alcuna spesa. Esso salderà i suoi debiti e se ne libererà. Avrà tutta la moneta necessaria a svolgere le proprie attività commerciali. Diventerà prospero al di là di qualsiasi precedente nella storia dei Governi civili del mondo. I cervelli e le risorse di tutti i paesi confluiranno nell’America settentrionale. Quel Governo deve essere distrutto o esso distruggerà ogni monarchia del globo».

Nel 1864 Lincoln si ricandidò alla presidenza degli Stati Uniti e durante la campagna elettorale dichiarò, ripetutamente, la sua intenzione di continuare ad emettere i dollari di Stato, ma il 14 aprile 1865 fu ucciso. Qualche storico è arrivato a insinuare che dietro John Booth, l’assassino di Lincoln, ci fossero addirittura dei legami riconducibili a casa Rothschild.
Per l’occasione, il capo del governo prussiano, Otto von Bismarck, dichiarò:
«La morte di Lincoln fu un disastro per la Cristianità. Non v’era negli Stati Uniti un uomo che fosse abbastanza grande da calzare i suoi stivali e i banchieri hanno rinnovato i loro sforzi per impossessarsi delle ricchezze del mondo. Temo che saranno proprio loro, con la loro astuzia e con i loro espedienti tortuosi, ad assumere pieno controllo delle abbondanti ricchezze dell’America e a servirsene sistematicamente per corrompere la moderna civiltà. Essi non esiteranno a far sprofondare l’intera Cristianità nelle guerre e nel caos, affinché la Terra diventi loro proprietà».

Sta di fatto che con quell’assassinio l’esperimento dei dollari di Stato si concluse. Ciò nonostante è stato calcolato che l’emissione del 1862 fece risparmiare nel corso degli anni, al governo degli Stati Uniti, oltre 11 miliardi di dollari di interessi.

Tragica analogia con questi avvenimenti la troviamo con John Fitzgerald Kennedy.
Negli anni Sessanta la consistenza del debito pubblico statunitense aveva raggiunto dimensioni preoccupanti e il giovane presidente, succeduto a Eisenhower, riconsiderò il meccanismo che determinava l’emissione dei dollari.
Il marchingegno della Federal Reserve – così come quello delle maggiori banche centrali del mondo – è, come abbiamo visto, quello di stampare moneta che, gravata da interessi, viene prestata al governo il quale si rifà sui cittadini, incassando le tasse. È a tal proposito interessante ricordare che il XVI emendamento della Costituzione degli USA è stato promulgato nel 1913, contemporaneamente al Federal Reserve Act. Si tratta dell’emendamento che attribuisce al Congresso «la facoltà di imporre e riscuotere tasse sui redditi derivanti da qualunque fonte senza ripartirle tra i vari Stati e senza dover tenere conto di alcun censimento»; configura cioè il collegamento indispensabile per far confluire direttamente, dalle tasche dei contribuenti statunitensi alle casse della Federal Reserve, i denari necessari al pagamento degli interessi sull’emissione dei dollari.
Kennedy riteneva che il debito pubblico poteva essere ridotto semplicemente smettendo di pagare gli interessi sull’emissione dei dollari e, il 4 giugno 1963, appellandosi all’articolo I, sezione 8, parte 5 della Costituzione che attribuisce al governo il potere di «battere moneta, stabilire il suo valore e quello delle monete straniere», firmò l’ordine esecutivo presidenziale numero 11.110 con il quale disponeva l’emissione di una prima tranche di dollari di Stato – stampati cioè dal ministero del Tesoro e non dalla Federal Reserve – per 4 miliardi e mezzo in tagli da due e da cinque. Erano dollari quasi identici a quelli già in circolazione, ad eccezione della scritta in alto che, invece di «Federal Reserve Note», era «United States Note», e del colore – rosso anziché verde – con il quale era stampato il marchio e il numero di serie.
Dopo cinque mesi, il 22 novembre 1963, Kennedy fu ucciso a Dallas.
C’è una relazione tra questo assassinio e l’ordine esecutivo numero 11.110?
Si tratta di uno di quegli avvenimenti storici attorno ai quali è stata diffusa una nebbia così fitta da ritenere che una risposta certa non la si potrà mai formulare, ma molti storici e giornalisti che hanno approfondito l’argomento sono propensi a individuare, come probabili mandanti, gli ambienti dell’Alta Finanza internazionale.
Certo è che da allora nessun presidente statunitense ha osato parlare più di dollari di Stato sui quali non pagare interessi.
Ma i biglietti di Stato non sono la moneta dei marziani. Possono rappresentare una soluzione assai agevole, logica, probabilmente anche decisiva. Non sono cose d’altri mondi. Perché oggi, nel bel mezzo di una crisi galoppante, tra una manovra e l’altra, nessuno ne parla? Forse è vietato? E da chi?
Eppure anche in Italia si è spesso fatto ricorso a provvedimenti del genere. Il governo Minghetti fece stampare biglietti di Stato nel 1874, De Pretis nel 1882 e nel 1883, Giolitti nel 1893 e nel 1904, Zanardelli nel 1902, Mussolini ne emise due volte prima della riforma della Banca Centrale, nel 1923 e nel 1925, altre quattro volte in seguito, senza contare il periodo della Repubblica Sociale.
Persino De Gasperi emise biglietti di Stato da cinquanta e cento lire nel 1951. L’ultimo a farlo fu Aldo Moro, due volte, nel 1966 e nel 1975.
Vi ricordate i biglietti da 500 lire? Erano biglietti di Stato, come i dollari di Lincoln e di Kennedy, biglietti per i quali nemmeno una lira di interessi è stata mai pagata dallo Stato, quindi dai contribuenti. Biglietti sui quali era stampato «Repubblica Italiana» e non «Banca d’Italia».
Anche le monete metalliche, ancora oggi, sono coniate dallo Stato e non costano interessi. Infatti, mentre gli euro in cartamoneta sono identici in tutte le nazioni europee, le monete hanno in comune una sola facciata, l’immagine del retro è differenziata da Stato a Stato. I denari cartacei sono stampati dalla Banca Centrale Europea, che è banca privata in quanto proprietà delle Banche Centrali europee, le cui azioni – come abbiamo visto nel dettaglio per ciò che riguarda la Banca d’Italia – sono in mano alle banche private. Le monete sono prodotte invece nelle zecche dei singoli Stati, ma il loro valore complessivo, rispetto al totale della moneta cartacea, è così infimo da rendere questo residuo di sovranità monetaria unicamente simbolico.
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I soldi furono inventati per rendere più agevole il funzionamento dell’economia e risolvere tutti quegli inconvenienti che nelle società primitive erano determinati dal baratto. Uno strumento dunque, non un bene in sé. È opportuno tenere bene in mente questo concetto in questi tempi nei quali, da decenni, il denaro è stato posto addirittura a ricoprire il ruolo del fine da perseguire, del metro di valutazione di ogni cosa e di ogni fatto; a rappresentare il valore dominante.
Correttamente osserva l’economista Bruno Amoroso:
«La moneta, da facilitatore neutro dello scambio dei beni e veicolo di scambio, si camuffa essa stessa in merce, con l’obiettivo unico dell’esproprio del lavoro, dei beni e dei risparmi degli altri a fini di arricchimento».

Gli antropologi, studiando le società primitive, hanno rilevato come la prima espressione di scambio di beni si fosse manifestata, soprattutto all’interno del gruppo, attraverso il «dono»; un comportamento che veniva spesso rivestito di ritualità anche religiose, densa di significati. Oggetto del dono era sovente il superfluo, ma anche e soprattutto il prodotto dell’attività individuale.
Attorno a queste consuetudini si è sviluppata una serie di relazioni interpersonali. Il dono implicava una reciprocità che ha preparato il sorgere di una vera e propria comunità economica basata su uno scambio che, col passare del tempo, veniva ad essere regolato da un articolato sistema di sempre più precise norme.
Il ruolo del dono, pur mutando forma e nome, è rimasto presente nelle società fino ai nostri giorni. L’economista Geminello Alvi, nella sua recente opera "Il capitalismo", afferma:
«Non v’è soluzione o rimedio al capitalismo senza il riconoscimento del dono come un atto economico [...] L’atto del dono permane costante archetipo dell’economia, riordino di essa, in armonia cogli altri campi della vita e suo risanamento».

Fin dalle prime collettività primitive, l’oggetto dell’economia è dunque sempre stato il bene o il servizio – l’attività umana rappresenta anch’essa un bene – anche quando l’ingrandirsi della società e il complicarsi delle tipologie di scambio hanno imposto l’utilizzo di strumenti di intermediazione commerciale.
Il denaro ha poi assunto mille forme, adattandosi ai tempi e alle esigenze dei popoli. Come ausilio negli scambi e nei pagamenti furono utilizzate le pecore (da cui il termine latino pecunia) e il sale (da cui la parola salario). In Inghilterra, attorno al 1100, furono inventati i tallies: bastoncini di legno spessi due centimetri e mezzo. Vi si incideva, tramite apposite tacche, il valore che rappresentavano; poi venivano spezzati longitudinalmente in modo da conservare, in ognuna delle due parti, traccia delle iscrizioni. Una sezione veniva consegnata in pagamento, l’altra veniva conservata nel Tesoro dello Stato, per poterne, in qualsiasi momento, affiancandoli, controllarne la validità. Il termine tallies deriva dal verbo inglese to tally, che significa coincidere.
Si trattava di un sistema macchinoso e scomodo – erano bacchette lunghe dai 60 ai 120 centimetri – ma ciò nonostante fu utilizzato per più di sette secoli: i tailles furono aboliti, con una legge del Parlamento, solo nel 1783. La moneta che venne poi, la sterlina, emessa dalla privata Banca d’Inghilterra, essendo gravata da interessi, indusse diversi economisti a rimpiangere le vecchie e disagevoli barre di legno, riconosciute «moneta sana e legittimamente emessa dallo Stato».
Ma ciò che circolò maggiormente, per praticità e diffusione, negli ultimi due millenni sono state le monete: coniate in oro, come il romano solidus, il bizantino bisante e l’arabo dinar, o in argento come il persiano dirham e il denarius. Quest’ultimo fu emesso – con un nome che volutamente si ricollegava con la moneta dell’Impero romano – da Carlo Magno e fu il risultato di una riforma che introdusse un sistema di conto che resistette per oltre un millennio. In Europa – ad eccezione della Spagna che aveva adottato un altro sistema, di origine araba – fino alla Rivoluzione francese; in Inghilterra addirittura fino al 1971. L’unità di misura era la lira (o libbra, a indicarne anche il peso), che si divideva in 20 soldi; il valore di ogni soldo era di 12 denari, piccole monete di circa due grammi d’argento.
L’invenzione della cartamoneta è poi un fatto molto recente, e l’attuale introduzione del denaro virtuale e delle carte di credito, già ne sta prefigurando l’estinzione.
Il denaro dunque non ha mai smesso di essere un semplice strumento dell’economia, peraltro estremamente mutevole e non sempre utilizzato. Nel XVII secolo in molte zone d’Europa – prevalentemente agricole – era ancora in vigore il baratto e solo eccezionalmente si faceva ricorso alle monete. È opportuno poi considerare che, quando ce n’è stato bisogno, i soldi sono stati inventati nei modi più diversi. L’unica condizione è sempre stata quella di essere accettati dai cittadini che dovevano incassarli o spenderli.
Quando in Italia, nel 1975, si era creata una penuria di spiccioli – cui la zecca sopperì solo nel 1978 con un’abbondante conio di monete – furono dapprima usati francobolli e gettoni telefonici (nei bar addirittura caramelle), poi dei «miniassegni» emessi dalle banche. Ne circolarono per un importo totale di oltre 200 miliardi di lire; molti andarono distrutti, o finirono negli album dei collezionisti, procurando al sistema bancario utili a nove zeri.
Quando negli anni del primo conflitto mondiale le esigenze degli armamenti si scontrarono con le regole valutarie in vigore, vinse l’«economia di guerra» e si stampò moneta in quantità spesso esorbitante, rimandando al dopoguerra la soluzione dei problemi inflazionistici che si sarebbero generati. Lo stato maggiore tedesco si fregiò, in quella occasione, del motto «Geld spielt Keine rolle» (il denaro non ha alcuna importanza). Il Direttore generale della Banca d’Italia dichiarò nel 1917: «La Banca ha avuto coscienza della necessità di Stato di dare alla produzione di biglietti un impulso corrispondente a quello che hanno avuto le officine meccaniche con la produzione di proiettili».
L’economista Giacinto Auriti, in polemica con la Banca d’Italia, provocatoriamente, nel 2000 sperimentò nel paese di Guardiagrele, in Abruzzo, il funzionamento di una nuova moneta, il SIMEC, di proprietà del portatore e non dell’Istituto di emissione. I SIMEC, finché la Guardia di Finanza non li sequestrò, furono utilizzati tranquillamente dalla popolazione, dando nuovo impulso alle attività commerciali. Il processo che ne seguì si concluse con una sentenza favorevole ad Auriti; la provocazione era riuscita.
Dunque l’oggetto economico non può che essere il bene; al denaro deve essere riservata l’esclusiva funzione di rappresentare il valore del bene e, solo in questo senso, deve essere utilizzato.
Conseguentemente il denaro dovrebbe essere emesso strumentalmente dallo Stato in una misura adeguata alla ricchezza della nazione. E per ricchezza si intende il valore dei beni mobili ed immobili, dei beni prodotti e di quelli in via di produzione.
Se un governo decide di costruire una grande opera pubblica, ad esempio un’autostrada capace di velocizzare gli spostamenti e semplificare i trasporti, non realizza forse un incremento della ricchezza nazionale? Sarebbe logico allora che lo Stato emettesse moneta pari al valore del nuovo bene con la quale pagare materiali e maestranze.

Perché invece, oggi, è costretto, per pagare il nuovo bene, a emettere Titoli di Stato, quindi accendere un debito, che dovrà essere restituito e sul quale dovrà anche pagare gli interessi? Scrisse Ezra Pound: 
«Dire che uno Stato non può perseguire i propri scopi per mancanza di denaro, è come dire che non si possono costruire strade per mancanza di chilometri».
Inoltre, da quando l’emissione della moneta è passata nelle mani delle banche, la quantità di denaro circolante si è moltiplicata a dismisura. Un denaro che inoltre, col passare dei decenni, ha perso ogni forma di garanzia. Si pensi alla copertura aurea. Inizialmente le monete erano scambiate sulla base della loro contropartita in oro, che era accettato come valore di riferimento internazionale. Le banche di emissione delle varie nazioni dovevano conservare nei loro caveau una quantità di lingotti sufficiente a convertire una prefissata percentuale della cartamoneta messa in circolazione.
Nel luglio del 1944, nella conferenza internazionale di Bretton Woods – una cittadina del New Hampshire, negli USA – le potenze in guerra contro l’Europa sottoscrissero un accordo che prevedeva un nuovo metro di scambio internazionale: il dollaro. Dal «gold standard» si passava al «dollar standard». Il dollaro, a sua volta, a differenza delle altre valute del mondo, rimaneva agganciato all’oro col valore di 35 dollari l’oncia.
Ciò nonostante, la Federal Reserve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non sempre rispettò il rapporto di copertura previsto e il dollaro si vide esposto a pericolose fragilità. Nell’agosto del 1971 il presidente Richard Nixon si vide costretto, pur ribadendo per il dollaro il ruolo di unica valuta di riferimento internazionale, a svincolare definitivamente la moneta statunitense dalla copertura aurea.
Liberate da regole e controlli, le Banche Centrali hanno a questo punto moltiplicato l’emissione di cartamoneta, non più facendo riferimento alla quantità di beni esistenti, né alle garanzie disponibili, ma solo rapportandosi alle necessità di liquido occorrenti al sistema monetario e bancario per le proprie speculazioni.
Oltre al denaro stampato, infatti, va considerato il meccanismo della «riserva frazionaria» grazie alla quale le banche si arrogano il diritto di prestar soldi in misura enormemente superiore ai propri depositi. Le banche sono arrivate a inventar soldi, e a prestarli, fino a 50 volte in più del denaro realmente disponibile. Poi ci sono i giochi di valuta, per cui si fanno figurare momentaneamente in cassa somme di denaro che praticamente non esistono. E infine, grazie alla compravendita di pacchetti finanziari – come si è recentemente visto, spesso pieni di carta straccia – e al gonfiamento artificioso di titoli di borsa, la massa di denaro virtuale – che non corrisponde a ricchezza reale – continua a moltiplicarsi.
Riferisce Sergio Romano sul Corriere della Sera del 27 ottobre 2011: «I portafogli delle maggiori banche d’investimento americane sono passati, da due trilioni di dollari vent’anni fa, a 22 trilioni di dollari nella fase che ha immediatamente preceduto la crisi: quasi il doppio del PIL americano».
Alla fine del 1999 i cosiddetti derivati circolanti nel mondo ammontavano a 30.000 miliardi di dollari, pari al 285% del PIL mondiale; solo dieci anni più tardi, alla fine del 2009, avevano raggiunto la quota di 690.000 miliardi di dollari, cioè il 1057% del PIL mondiale.
Sir Josiah Stamp, direttore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941 – un testimone diretto e inconfutabile – scrisse:
«Il moderno sistema bancario crea denaro dal nulla. Il processo è forse il più sbalorditivo trucco da prestigiatore che sia mai stato escogitato. Il sistema bancario fu concepito nel crimine e generato nel peccato. I banchieri posseggono il mondo; se glielo si sottraesse, ma gli si lasciasse ancora il potere di creare denaro, con un tratto di penna riuscirebbero ad avere abbastanza denaro per ricomprarselo [...] Gli si sottraesse invece il potere, tutti i grandi patrimoni come il mio scomparirebbero, rendendo il mondo migliore e più felice. Ma se tu accetti di continuare ad essere schiavo delle banche, lascia che le banche continuino a creare denaro e controllare il credito».

Quantificare con esattezza la mole di denaro – reale e virtuale – oggi circolante in tutto il globo è molto difficoltoso, ma grosso modo si è calcolato che sia dieci o dodici volte superiore alla quantità di denaro necessaria per acquistare tutti i beni esistenti al mondo.
E allora a cosa serve tutto questo del denaro?
Solo a dare forza al potere di chi ha in mano i cordoni della borsa, un potere incondizionato sui popoli e sulle nazioni del mondo.
Questi Signori del denaro, gli epigoni della speculazione, come è oggi di moda definirli, o più concretamente, come la chiamava Ezra Pound, dell’usura, hanno passato tre fasi distinte nella loro scalata al potere. La prima è stata la millenaria pratica di prestare a interesse somme di denaro di cui si disponeva. Seconda fase è stata quella di stampare in proprio i soldi da prestare a interesse. La terza è stata quella di prestare soldi che non esistono nemmeno; che non sono stati stampati da nessuna Banca Centrale. Questa è la fase attuale, quella del denaro virtuale.
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Mentre questi giochi finanziari da guerre stellari stanno affamando popoli e schiavizzando nazioni, ogni volta che si suggeriscono strade diverse da quelle imposte dal monetarismo, si contrappongono allarmi di derive inflazionistiche che tendono a scoraggiare qualsiasi riformatore.
Quando nel 1985 Bettino Craxi propose di varare la lira pesante (con un rapporto da 1 a 1000) si disse che l’operazione avrebbe favorito un incremento d’inflazione e l’idea fu bocciata. In questi giorni qualcuno ha cominciato a proporre un ritorno alla lira e la risposta è giunta immediatamente: scatterebbe un’inflazione, anche di diversi punti!
Innanzitutto nessuno si è premurato di sostanziare queste affermazioni con spiegazioni economicamente convincenti. Inoltre nessuno si cura di ricordare ciò che avvenne quando, dodici anni fa, dalla lira si volle passare all’euro, operazione questa fortemente voluta dal sistema bancario e finanziario internazionale. Quella scelta produsse un’inflazione addirittura del 100%. Ciò che costava 10.000 lire in pochissimo tempo arrivò a costare 10 euro, cioè 20.000 lire.
Come mai c’è chi ancora si professa orgoglioso di quella manovra – Prodi, Ciampi, Amato e compagnia bella – e nessuno ricorda loro il pesantissimo prezzo d’inflazione che gli italiani furono costretti a pagare?
Mario Monti, prima di formare il nuovo governo, quello «tecnico», quello delle banche, in una lettera dedicata a un Berlusconi premier «euroscettico», pubblicata sul Corriere del 30 ottobre 2011, ha spudoratamente indicato, tra i meriti dell’euro, l’averci garantito, per dodici anni, un «bassissimo tasso d’inflazione».
Strano poi che la preoccupazione per le impennate inflazionistiche scompaia completamente quando si tratta di tutelare la stabilità del sistema bancario.
È notizia di questi mesi che i ministri finanziari, assieme ai vertici delle Banche Centrali riuniti nel G20 di Washington, hanno deciso di immettere nel sistema bancario una ingente quantità di nuovi dollari. Oltre 3000 miliardi. Perché mai, allora, quando si tratta di economia reale, si esclude ogni possibilità di emissione di nuova liquidità, magari sotto forma di biglietti di Stato?
Siamo al paradosso finale o, meglio, al «dopo il danno la beffa». L’attuale crisi è stata causata dal sistema finanziario – una precisa responsabilità, universalmente riconosciuta – e non dall’economia reale. Non sono colpevoli i lavoratori, gli imprenditori, gli studenti, i contadini, i commercianti: non è responsabilità del popolo, ma delle banche, della finanza internazionale – i cosiddetti «speculatori» –, del potere mondialista che si articola nei suoi istituti tentacolari: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca dei Regolamenti Internazionali, Trilateral, Bilderberg, Goldman Sachs, etc. Ebbene, le decisioni dei concitati vertici che si susseguono in giro per il mondo sono tutte nel segno di aiutare – e doviziosamente – il sistema bancario, non i popoli. Anzi, ai popoli si chiede di pagare il conto.
Seguendo i diktat progressivi dei Signori del denaro, l’atteggiamento del governo greco verso i dipendenti statali è stato emblematico; prima licenziamenti di massa, poi, per chi rimane, decurtazione fino al 40% degli stipendi e infine trattenuta alla fonte di tutti gli impegni con il sistema bancario: mutui, finanziamenti, carte di credito, scoperti di conto corrente. Praticamente il governo greco si è mobilitato per tutelare gli «affari» delle banche, disinteressandosi della sopravvivenza delle famiglie.
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  Un’altra domanda sorge spontanea, se si osserva la graduatoria dei debiti pubblici delle nazioni del mondo. Il clamore di queste settimane ha posto in primo piano la Grecia, la Spagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’Irlanda e il Portogallo. Ma la nazione con il debito pubblico percentualmente più alto rispetto al PIL è il Giappone, che supera addirittura il 233%.
Ma del Giappone non si parla. Come mai?
La risposta la si può trovare osservando un’altra graduatoria, quella riguardante le percentuali dei Titoli di Stato piazzati all’estero. Lì troviamo al primo posto l’Irlanda, con un 85%, a seguire: il Portogallo con un 75%, la Grecia col 70 %, gli USA con il 51%, la Spagna con il 46% e l’Italia con il 44%.
E il Giappone? È in fondo alla graduatoria, con uno striminzito 4%.
Allora il problema non è la consistenza del debito pubblico o il mancato pareggio di bilancio, ma di chi ha in mano i Titoli. Se le banche internazionali o i risparmiatori nazionali. Allora il problema è di sovranità finanziaria.
Quando è distribuito all’interno della nazione il debito pubblico può essere anche un’opzione di politica economica non necessariamente negativa. Scriveva l’economista francese Jean Francois Melon: «I debiti dello Stato sono i debiti della mano destra verso la sinistra, e perciò il corpo non ne è indebolito, se ha il corretto nutrimento e sa come distribuirlo».
Per molti secoli in Italia il debito pubblico è stato assorbito dai risparmiatori all’interno dei singoli Stati. Scrive Mauro Carboni: «Nelle città-stato italiane la pianta del debito pubblico si sviluppò in maniera rigogliosa, recando dividenti politici senza provocare contraccolpi economici, dal momento che quasi ovunque il possesso dei titoli era concentrato nelle mani dei residenti e l’onere del debito attivava una circolazione di risorse del tutto interna alla comunità».
A questo riguardo è molto interessante osservare il grafico del debito pubblico italiano negli ultimi quarant’anni. Con lievi oscillazioni il valore si era stabilizzato sul 50% del PIL. A una certa data ha cominciato a salire fino a sfiorare il 120%.
Quella data è il 1981.
E non è forse proprio il 1981 l’anno in cui Andreatta e Ciampi hanno esentato la Banca d’Italia dall’acquisto dei Titoli di Stato ed è cominciata la ricerca di acquirenti all’estero? Potrebbe essere dunque corresponsabile dell’aumento del debito pubblico la diminuzione di sovranità finanziaria? E non è proprio negli anni Ottanta che si è verificato un aumento della pressione fiscale dal 31 al 40%?
Allora, forse, le cose non sono esattamente come ci vengono presentate.
L’oggetto della crisi finanziaria e della conseguente crisi economica è sempre una Nazione succube di forti poteri esterni. Senza libertà e indipendenza economica il popolo, al momento del bisogno, scopre che non può scegliere soluzioni alternative. È la mancanza di sovranità finanziaria che ci paralizza, che ci pone in una situazione di crisi ed aggrava un debito pubblico già appesantito da decenni di dissennata politica incompetente e clientelare. E all’origine della sovranità finanziaria non può che esserci la sovranità monetaria.
Disse Henry Ford: «È un bene che la gente non sappia come funziona il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo sapesse credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione».
Sarebbe dunque bene che qualcuno si prendesse la briga di informare la gente. Ma l’informazione è ancora blindata dal controllo che i poteri forti hanno dei mass media.
Ciò nonostante, le informazioni «politicamente scorrette» sono sempre più numerose e la possibilità che qualcuna di queste possa attraversare le maglie della censura si fa sempre più grande. E in ciò si sta dimostrando molto prezioso il ruolo di Internet.
Riportiamo alcuni esempi di recenti notizie che, appena uscite, sono state sfumate, non è stato dedicato a loro né rilievo, né commenti, e sono state archiviate in un limbo che ricorda molto da vicino il ministero della Verità di orwelliana memoria.
Nel 1913, quando fu delegata ad operare come Banca Centrale americana la privata Federal Reserve, tutti i parlamenti dei singoli Stati, come d’uopo in una nazione federale, furono chiamati a ratificare il voto del Senato.
Tutti approvarono, tranne il North Dakota, uno Stato al confine con il Canada, tra il Montana e il Minnesota, che invece dette vita ad una propria Banca di Stato. Si era formato un forte movimento d’opinione, la Nonpartisan League, che vinse le elezioni ed impose la propria politica ostile a Wall Street e ai banchieri privati.
La Banca del North Dakota è rimasta un istituto pubblico indipendente dal Federal Reserve System, con una storia di tutto rispetto. Anche nel 1929, mentre la grande crisi fece traballare tutte le banche statunitensi, continuò imperturbabile, senza particolari scossoni, la propria attività. Inoltre, mentre tutte le banche del circuito federale sono governate da personaggi nominati dall’«alto» e tutti provenienti dai vivai di Wall Street, i tre massimi dirigenti della Banca del North Dakota sono eletti dai cittadini. E questo, al popolo, giustamente, piace e dà fiducia.
Inoltre si tratta di una Banca che concede finanziamenti a tasso agevolato alle aziende, alle famiglie e agli studenti, ma chiude i bilanci sempre in attivo e distribuisce gli utili ai cittadini sotto forma di detrazioni fiscali.
Oggi, mentre la crisi negli USA schiaccia l’incremento del PIL ad uno striminzito 1% e dilata la percentuale di disoccupazione oltre il 10%, il North Dakota vanta un incremento del PIL a due cifre e ha una disoccupazione sotto il 4%. Pura combinazione?
Altra notizia sfumata: quattro mesi fa il parlamento dello Utah, con una forte maggioranza di 47 voti contro 26, ha deciso di coniare direttamente monete d’oro e d’argento e di emettere biglietti di Stato.
Altra notizia sfumata: gli Stati di California, Ohio e Florida hanno deciso di mettere allo studio una riforma del tipo del North Dakota: Banca di Stato e sganciamento dal Federal Reserve System.
Altra notizia sfumata: in luglio lo Stato del Minnesota ha dichiarato fallimento; tutti i dipendenti pubblici sono stati licenziati e tutti i servizi statali e assistenziali sospesi in attesa che ad occuparsene arrivassero altre autorità con nuovi fondi.
Altra notizia sfumata, anzi del tutto ignorata: nella graduatoria dei debiti pubblici del mondo, nell’ultimissima posizione – solo il 3% rispetto al PIL – c’è la Libia e la Central Bank of Libya è di completa proprietà dello Stato. Evidentemente l’impossibilità di agire sulla Libia, attraverso gli abituali ricatti monetari, aiuta a porre nella giusta luce gli otto mesi di bombardamenti della NATO appena conclusi.
Altra notizia sfumata: il presidente Hugo Chávez ha chiesto il rimpatrio delle 100 tonnellate di oro che il Venezuela aveva in deposito nel caveau della Banca d’Inghilterra.
La vicenda nasce alla fine degli anni Ottanta, al tempo delle presidenze di Jaime Lusinchi e di Carlos Andrés Pérez, quando il Venezuela chiese ed ottenne un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e gli fu imposto di depositare, in garanzia, 211 tonnellate d’oro nei caveau delle Banche Centrali d’Inghilterra, Svizzera, USA, Francia e Panama.
Saldato da molti anni il debito – grazie al petrolio e all’oro di cui quel paese americano è ricco – Chávez ha, in un primo momento, deciso di lasciare in custodia – regolarmente retribuita – l’oro nei caveau dove si trovava. Oggi, probabilmente in considerazione della turbolenza dei mercati e della gravità della crisi finanziaria internazionale, ne ha invece chiesto la restituzione. Ma la richiesta di Chávez a Londra ha creato un forte imbarazzo. Per le proprie speculazioni, la Banca sembrerebbe abbia venduto non solo il proprio oro, ma anche quello del Venezuela che aveva in custodia.
Ora si stanno agitando; devono trovare un modo per uscire d’impaccio, ma l’acquisto ­ – in una volta sola – di 100 tonnellate d’oro sul mercato internazionale, farebbe ulteriormente gonfiare le quotazioni che in questo momento hanno già toccato i massimi storici. Si sta diffondendo il sospetto che Londra abbia messo gli occhi sui depositi aurei della Libia di Gheddafi: sono giuste giuste 140 tonnellate...
Questa storia, oltre ad appartenere alla categoria delle notizie sfumate, è una storia preoccupante. Infatti gran parte delle 2.500 tonnellate dell’oro della Banca d’Italia non è a Roma, ma a Londra e negli Stati Uniti, a Fort Knox. Sembra che l’ultima ispezione in quei caveau risalga a molti anni fa. Ci può essere il rischio che l’oro di Bankitalia abbia fatto la fine.

 Mario Consoli su "Rinascita" (13 Agosto 2012)

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