Dott. Daniele Trabucco, Studioso del Diritto Costituzionale, collaboratore
universitario.
In questi ultimi tempi, soprattutto in seguito all'insabbiamento del
disegno di legge che voleva estendere a coloro che militarono nella Repubblica
Sociale Italiana la qualifica di combattenti, è tornata in auge
la tematica della qualificazione giuridica del governo di Salò.
Personalmente non condivido, poiché non ancorata ad alcun dato
positivo, la tesi sostenuta da alcuni costituzionalisti (Balladore Pallieri,Gueli)
secondo la quale la R.S.I. altro non fu se non uno Stato-fantoccio, presupposto
indispensabile per l'occupazione militare tedesca nell'Italia centro-settentrionale.
Su questa linea, si è posizionata la maggior parte degli storici
contemporanei che vede nell'ordinamento di Salò un vero e proprio
regime collaborazionista dei nazisti, incapace di attuare quel programma
socialisteggiante propugnato durante il Congresso di Verona del novembre
1943. Ma, in realtà, ci troviamo innanzi ad un' impostazione di
parte, coniata dalla ideologia della resistenza, e non aderente alla realtà
dei fatti.
Sul piano storico, ha osservato un insigne costituzionalista quale
il prof.Livio Paladin, "sono esistiti ed esistono tutt'oggi i più
vari regimi fondati sull'appoggio di altri Stati, che tuttavia mantenevano
e mantengono una loro originarietà ed indipendenza".
In primo luogo, le norme promanate dalle fonti di produzione del diritto
della Repubblica di Salò, durante il biennio 1943-1945, hanno sempre
ottenuto media obbedienza da parte di coloro che operavano negli ambiti
spazio-territoriali del governo repubblicano a riprova, come confermato
dalla teoria generale del diritto, della effettività dell'ordinamento
giuridico in questione o meglio, in altri termini, della validità
giuridica delle sue disposizioni normative; aspetto difficilmente realizzabile
in seno ad uno Stato a sovranità puramente teorica.
In secondo luogo, è significativo come il III Reich tedesco
abbia riconosciuto diplomaticamente, e non solo sul piano formale, la Repubblica
Sociale di Benito Mussolini attuando uno reale scambio di ambasciatori
(a Berlino, andò Filippo Anfuso dopo essere stato richiamato dalla
sede diplomatica di Budapest; per il governo di Salò, si insediò
Rudolph Rahn già ambasciatore tedesco a Roma) segno evidente e tangibile
della non volontà di considerare la R.S.I. una semplice "longa
manus" dello Stato tedesco.
A questo punto, dopo aver demolito, con argomentazioni chiare e precise,
la tradizionale ed errata visione dello Stato Fascista Repubblicano, risulta
necessario chiarire la qualificazione di suddetta realtà alla luce
degli elementi giuspubblicistici di cui oggi disponiamo.
La definizione più corretta è sicuramente quella
che vede nella restaurazione mussoliniana a Salò, un governo locale
di fatto (Giannini). Infatti, se è vero che non si può parlare
di Stato nell'accezzione moderna del termine in quanto il nuovo ordinamento
fascista si caratterizzava per una sovranità limitata e circoscritta
ad una porzione del territorio italiano (la parte rimanente era soggetta
alla pseudo-sovranità del Regno del Sud), è anche vero come,
dati alla mano, non si può negare la presenza di un apparato esecutivo-amministrativo-legislativo,
munito di Dicasteri abilmente distribuiti nell'ambito del proprio territorio
per un maggior controllo dello stesso (la Presidenza del Consiglio a Bogliaco,
il Ministero dell'Interno a Maderno, il Ministero della Difesa a Cremona,
il Ministero delle Corporazioni e dell'Economia a Verona, il Ministero
dell'Agricoltura a Treviso ecc….) ed in grado, anche se in maniera non
sempre piena, di coordinare la propria azione politica con le iniziative
militari della Wehrmacht.
A sostegno di quanto ora affermato, si può portare, a titolo
esemplificativo, il tentativo di avvio, da parte della Repubblica Sociale,
di un grande programma di socializzazione, non completamente attuato a
causa degli interessi bellico-militari delle autorità germaniche,
ma volto a ridefinire prepotentemente ed in maniera radicale i rapporti
tra capitale e lavoro e tra economia e Stato: la ripartizione degli utili
dell'impresa tra fondo di riserva (a favore dei lavoratori) e capitale
azionario, la partecipazione dei lavoratori stessi ai consigli di gestione
delle fabbriche ecc.
Inoltre, esiste anche un dato giuridico-amministrativo inoppugnabile
che confermerebbe il carattere realmente governativo e sovrano della Repubblica
di Salò: il D.lgs.lgt (ossia Decreto legislativo luogoteneziale)
5 ottobre 1944 n.249 sull'assetto della legislazione nei territori liberati,
ha salvato la validità e l'efficacia degli atti di ordinaria amministrazione
della R.S.I., perché privi di motivazioni ed implicazioni politiche,
differenziando, de facto, gli atti del governo repubblicano mussoliniano
in ragione del loro grado di politicità. Dunque non è propriamente
corretto sostenere che il solo continuatore dello Stato italiano fu il
Regno del Sud dal momento che il riconoscimento dell'attività amministrativa
della Repubblica Sociale Italiana risulterebbe sintomatico della presenza
di una realtà governativa pienamente sovrana nel proprio territorio
ed espressione di coloro i quali non vollero riconoscersi nella compagine
governativa del generale Pietro Badoglio.
L'attività dell'Assemblea Costituente, chiamata a redigere la
Carta Costituzionale del nuovo ordinamento istituzionale repubblicano,
non ha saputo tener conto di questa dicotomia istituzionale comportante
una netta ed evidente divisione di sovranità tra due realtà
governative opposte ma operanti, entrambe, all'interno del territorio nazionale
italiano nell'arco di tempo compreso tra il mese di settembre 1943 ed il
mese di aprile 1945. Sono state le forze politiche che si riconoscevano
nei Comitati di Liberazione Nazionale a rovesciare il dato storico, facendo
prevalere non la verità dei fatti ma unicamente la forza dell'ideologia
antifascista. La stessa Costituzione nel sancire, all'art.3 primo comma,
il principio di eguaglianza formale implicante il divieto di discriminazioni
"di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali" impedisce alle azioni positive ed ai provvedimenti
legislativi di divenire, a loro volta, fonte di ingiustizia, dando luogo
a casi di "discriminazione all'incontrario" (la c.d. reverse
discrimination secondo la famosa espressione coniata dalla giurisprudenza
costituzionale americana della Corte Suprema) proprio come nella fattispecie
in esame, dal momento che il legislatore nazionale ha optato per la non
estensione ai combattenti di Salò, decisi a riscattare l'infamia
del tradimento del 25 luglio 1943, lo status giuridico di combattenti a
cui giustamente e doverosamente riconoscere i benefici già riservati
a coloro che militarono all'interno del fenomeno resistenziale.
BIBLIOGRAFIA
BIN R. e PITRUZZELLA G., Diritto Costituzionale. Torino. Giappichelli.
2004.
CARLASSARE L., Conversazioni sulla Costituzione. Padova. Cedam. 1996.
OLIVA G., La Repubblica di Salò. Firenze. Giunti. 1997.
PALLA M., Mussolini ed il Fascismo. Firenze. Giunti. 1996.
PALADIN L., Diritto Costituzionale. Padova. Cedam. 1998.
I COMBATTENTI DELLA RSI
CONSIDERATI BELLIGERANTI DA UNA SENTENZA DEL TRIBUNALE SUPREMO MILITARE
(N. 747 del 26.4.1954) Ecco la parte conclusiva della sentenza che
legittima le Forze Armate della RSI e, nel contempo, non attribuisce agli
appartenenti alle formazioni partigiane la qualifica di belligeranti, perché
non portavano distintivi riconoscibili a distanza né erano assoggettati
alla legge penale militare.
Nel processo contro alcuni ufficiali della "Legione Tagliamento"
ricorrenti contro la sentenza del Tribunale Militare di Milano che aveva,
tra l'altro negato che la RSI avesse costituito un governo di fatto e che,
pertanto, i suoi ordini potessero ritenersi legittimi, il Tribunale Supremo
Militare ha pronunziato una sentenza di eccezionale importanza (26 aprile
1954, Presidente Buoncompagni, Rel. Ciardi) che ha affrontato e risolto,
con alto senso giuridico e storico, le più dibattute ed ardenti
questioni in tema di collaborazionismo. Diamo qui di seguito, fedelmente
riprodotto, il testo della sentenza dal quale abbiamo tolto, per amore
di brevità, soltanto qualche brano senza intaccare la sostanza delle
motivazioni dell'Alta Magistratura Militare. Ecco il testo della sentenza:
«In questa sede non può trovare asilo passione politica
alcuna. Nell'immediato dopoguerra le divergenze politiche e ideali, i risentimenti
delle famiglie e degli individui, il sangue sparso e la visione della Patria
umiliata, dilaniata e infranta, ebbero indubbiamente influenza sul corso
normale della Giustizia, che, attraverso l'Alta Corte e le Sezioni Speciali
di Corte d'Assise, pronunciò talvolta severissime ed estreme condanne.
Ma oggi che il Paese può dirsi risorto, mercè l'opera costruttiva
dei suoi Governi e il sacrificio, l'energia e la forza d'animo di tutto
il popolo italiano, la Giustizia deve adempiere con la maggiore serenità
ed obiettività possibile la sua missione, sceverando la colpa dall'errore,
il delitto dall'azione ritenuta di giovamento nel divenire della Patria,
e soprattutto rimanendo nei binari della legge».
«Questo Tribunale Supremo Militare ricorda l'anelito di pacificazione
che pervade tutto il popolo italiano e tutti i partiti, nessuno escluso,
anelito tradotto dai singoli Governi che si sono susseguiti, dal 1946 ad
oggi, in decreti di Sovrana clemenza, intesi a porre sempre più
sullo stesso piano morale tutti gli italiani in buona fede, per modo che
tutti si sentano figli della stessa Patria, e non vi siano più dei
tollerati, degli umiliati e dei reietti, cui si possa, ad ogni istante,
rinfacciare un passato che fu piuttosto opera del fato, che degli individui,
salvo la legittima repressione dell'azione delittuosa, da chiunque commessa,
secondo i canoni immutabili del puro diritto».
«Le leggi che continuamente si susseguono in pro della pacificazione
(da ultimo la pensione concessa agli appartenenti alla milizia), dimostrano
a chiare note, l'indirizzo non solo giuridico, ma altresì etico
del Governo e del Parlamento.
«La cronaca sta diventando storia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre
1943 e nei primi anni del dopoguerra, "quelli del Nord" additavano
come traditori "quelli del Sud" e viceversa. Gli appartenenti
alla Repubblica Sociale Italiana si ritenevano unici depositari dell'onore
militare e dell'amor di Patria, e lo stesso ritenevano coloro che avevano
seguito il Governo del Re».
«Un popolo di antica civiltà romana e cristiana, un popolo
che ha sempre insegnato al mondo il giusto cammino, era, dunque, diventato
un popolo di traditori. Le leggi del vincitore avevano dettato severissime
norme contro il collaborazionismo; ma al giudice spettava e spetta di esaminare
e vagliare se tradimento ci fu, o se solo vi fu incomprensione o errore».
«Questo Tribunale Supremo Militare, giudice esclusivo del diritto,
sente l'altezza del suo compito, nell'ora in cui è doveroso esprimere
una valutazione e un esame approfondito, sereno e obiettivo delle questioni
proposte, nel rispetto delle convenzioni internazionali e del diritto intorno,
e nello spirito cui oggi si informano Governo e Parlamento».
«Pertanto appare necessario prendere anzitutto in esame talune
questioni fondamentali trattate dalla gravata sentenza e specialmente quelle
che concernono il carattere della Repubblica Sociale Italiana, la qualità
di belligeranti dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana, la posizione
giuridica dei partigiani, e, infine, le discriminanti concernenti l'adempimento
del dovere e lo stato di necessità».
Carattere della Repubblica Sociale Italiana
«...Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 la sovranità
di fatto o meglio l'autorità del potere legale, fu nella parte dell'Italia,
ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle Potenze alleate occupanti.
Non poteva altrimenti essere, dal momento che, durante il regime di armistizio,
permaneva lo stato di guerra e l'occupante era sempre giuridicamente "il
nemico"».
«Basti considerare che tutte le leggi e tutti i decreti, compresa
la legge sulle sanzioni contro il fascismo (ordinanza n.2 della commissione
alleata in data 27 aprile 1945), ricevevano piena forza ed effetto di legge
a seguito di ordini degli Alleati). Pertanto, il governo del re era un
governo che esercitava il suo potere "sub condicione", nei limiti
assegnati dal Comando degli eserciti nemici».
«Le situazioni contingenti che ebbero a verificarsi per la dichiarazione
di guerra alla Germania, per la cobelligeranza e per i comuni interessi
esistenti tra lo Stato italiano e gli Stati alleati, non possono mutare
e trasformare la situazione giuridica che si era creata secondo quelle
che erano le regole del diritto internazionale».
«Se questi erano gli aspetti giuridici della Sovranità
nell'Italia del Sud, non poteva per certo il legittimo Governo italiano,
che aveva solo quella limitata potestà che le potenze occupanti
gli concedevano, interferire nell'Italia del Nord e del Centro, dove gli
alleati non erano ancora pervenuti. La autorità del potere legale
era colà in altre mani; una nuova organizzazione politica si era
creata, con un proprio Governo, e, cioè, la Repubblica Sociale Italiana,
riconosciuta come Stato soltanto dalla Germania e dai suoi alleati».
«Indubbiamente tale nuovo Stato non poteva essere considerato
soggetto di diritto internazionale, con gli attributi della piena sovranità
dagli Stati che non lo avevano riconosciuto; esso assumeva, almeno formalmente,
la piena personalità giuridica solo di fronte agli Stati che gli
avevano conferito detto riconoscimento. Tuttavia non poteva, nel campo
del diritto delle genti, negarsi che comunque, un'organizzazione statuale,
sia pure di fatto, esisteva, avente capacità giuridica propria e
una propria sfera, se pur limitata, di autonomia, la quale ultima, si rilevi,
non è sinonimo di indipendenza e di sovranità che altrimenti
dovrebbe parlarsi di Stato di diritto».
«È comunemente accettato nella dottrina internazionalistica
che, nel caso si verifichi un movimento insurrezionale, sussiste un governo
di fatto in quella parte di territorio assoggettato al controllo degli
insorti e sottratta al controllo del Governo legittimo».
«Quest'ultimo perde, "de facto", le attribuzioni e
le competenze di diritto internazionale, condizionate all'esercizio della
potestà territoriale, essendo ad esso succeduto, in quella parte
di territorio, il governo degli insorti».
«Indubbiamente pressoché immutato era rimasto l'ordinamento
giuridico esistente nella Repubblica Sociale Italiana: gli stessi codici,
le stesse leggi venivano applicati dagli organi del potere esecutivo e
dalla Magistratura. L'organizzazione statuale si manteneva in piedi a mezzo
delle autorità preposte (dei Prefetti, delle Corti e dei Tribunali,
degli uffici esecutivi, delle Forze Armate e di Polizia)».
«Evidentemente l'Autorità tedesca ebbe allora ad inserirsi
nella vita italiana del centro-nord, con i suoi princìpi e i suoi
durissimi metodi di lotta; indubbiamente le autorità della Repubblica
Sociale Italiana subirono talvolta la pressione e le direttive del loro
alleato, pur opponendosi spesso con energia alle sue iniziative; ma tutto
ciò non può mutare la posizione giuridica della Repubblica
Sociale Italiana, di essere un governo di fatto, sia pure a titolo provvisorio,
che manteneva relazioni diplomatiche con alcuni Stati e intrecciava rapporti
internazionali, quanto meno ufficiosi, con molti altri che pur non l'avevano
riconosciuta».
«La storia di tutte le guerre insegna che molto spesso, anche
quando trattasi di alleati, che insieme combattono sul territorio appartenente
ad uno di essi, lo Stato più forte e più potente finisce
col prendere le maggiori iniziative, interferendo nella vita e nella potestà
dello Stato meno forte, imponendo le sue direttive e, talvolta, la sua
forza e i suoi tribunali (esempio: corpi di spedizione alleati nella guerra
1915-1918 in territorio greco). Tuttavia la situazione di fatto che viene
a crearsi tra l'alleato più potente e quello meno forte non incide
sul carattere formale e giuridico dell'alleanza. Da ciò consegue
che, nella specie, non basta rifarsi ai metodi tedeschi, per dedurne che
essi erano gli occupanti e per negare alla Repubblica Sociale Italiana
il carattere di un Governo di fatto; né la situazione fluida, durata
pochi giorni, tra l'8 e il 23 settembre 1943, giorno in cui Mussolini ebbe
a proclamarsi capo dello Stato fascista repubblicano e capo del governo,
autorizza a ritenere che solo un regime di occupazione si sia costituito
nel centro-nord dell'Italia ad opera delle Forze Armate tedesche. Si dimentica
in tal modo che anche le Forze Armate alle dipendenze di Mussolini e di
Rodolfo Graziani occupavano il territorio suddetto, che l'ordinanza Kesselring,
in data 11 settembre 1943, che assoggettava il territorio italiano alle
leggi tedesche, cessò di avere efficacia proprio con il 23 settembre
1943, quando, se pur non ancora proclamata la Repubblica Sociale Italiana
(che nacque il 25 novembre 1943), esisteva già il cosiddetto Stato
fascista repubblicano».
«Certo è che in quei giorni, la sovranità dello
Stato italiano si ridusse solo ad una consistenza formale e giuridica:
il re aveva lasciato la capitale e con il suo Governo aveva, a seguito
dell'armistizio, preso contatto con gli alleati, nel nobile intento di
salvare l'unità e l'indipendenza d'Italia. Il Governo legittimo
potè così incominciare a consolidarsi, secondo le direttive
degli alleati, e a lanciare i suoi ordini e i suoi proclami».
«Dal parallelo che scaturisce tra il regime del centro-nord e
quello del sud appare, adunque, che "de facto", il Governo legittimo
e quello di Mussolini avevano una libertà limitata: "de jure",
era peraltro, preclusa al governo legittimo, ogni indipendenza, mentre,
invece, tale formale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale
Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l'autorizzazione
dell'alleato tedesco».
«Quando vuol darsi una definizione giuridica di una organizzazione
insurrezionale è, pertanto, necessario non solo prendere in esame
il suo ordinamento giuridico e la sua sfera di autonomia nel territorio
ad essa soggetto, ma guardare altresì detta organizzazione al cospetto
degli altri Stati, con particolare riferimento al governo legittimo. Se
lo Stato nazionale domina, nonostante l'insurrezione, la situazione che
si è creata, e ha la possibilità e la capacità di
esaurirla in breve termine, allora può discutersi e forse anche
negarsi l'esistenza di un governo di fatto insurrezionale; ma quando tale
capacità non esiste, quando il governo legittimo è addirittura
alla mercè del nemico, e l'autorità del governo insurrezionale
si consolida nei suoi ordinamenti, e la sua vita è di non breve
durata, allora non è più possibile negare a quest'ultimo
il carattere di un governo di fatto, secondo i princìpi comunemente
accolti nella dottrina internazionalistica».
«Pertanto, deve concludersi che la Repubblica Sociale Italiana
era retta da un governo di fatto, dalla quale nozione scaturiscono le conseguenze
giuridiche che tra breve saranno esaminate».
«Per esaminare a fondo il problema occorre rifarsi all'origine
della belligeranza. Quando fu pubblicato l'armistizio dell'8 settembre
1943, una parte delle Forze Armate italiane non lo accettò e proseguì
nelle ostilità contro il nemico, e, cioè, contro gli alleati
che avevano messo piede in Italia».
«Indubbiamente i comandanti dei reparti che non obbedirono agli
ordini del governo legittimo violarono la norma di cui all'articolo 168
codice penale militare di guerra, con cui si punisce l'arbitrario prolungamento
delle ostilità».
«Questo fatto non sopprimeva, di fronte agli alleati, la qualità
di belligeranti che spettava a tutti i combattenti; di fronte agli anglo-americani
e loro alleati, tuttora nemici, anche in clima di armistizio non potevano
i combattenti italiani - sia pure ribelli agli ordini del Supremo Comando
italiano - perdere il loro carattere di belligeranti, così come
è stabilito nelle convenzioni internazionali e come è comunemente
accettato».
«Mai è avvenuto nella storia di tutte le guerre, di negare
tale caratteristica alle truppe che non accettano la resa. Colpevoli i
combattenti che non obbedirono agli ordini del re, di fronte allo Stato
italiano, ma sempre soldati e belligeranti di fronte al nemico».
«I combattenti che non si arresero ritennero di dover mantenere
fede all'alleato tedesco, e fronteggiarono a viso aperto l'avversario,
venendo dal medesimo fino all'ultimo trattati come combattenti e come belligeranti».
«L'articolo 40 del citato regolamento annesso alla Convenzione
dell'Aja dichiara che ogni grave infrazione dell'armistizio, commessa da
una delle parti, dà diritto all'altra di rinunciare e, in caso d'urgenza,
anche di riprendere immediatamente le ostilità. Nella specie che
ci occupa non ci fu infrazione da parte dello Stato italiano, ma solo da
parte di considerevoli unità, di terra, di mare, e dell'aria. Ed
allora il conflitto non ebbe a cessare: gli alleati fronteggiarono egualmente
truppe tedesche e italiane, e solo più tardi, molto stentatamente,
si attuò la cobelligeranza coi reparti regolari italiani, fiancheggiati
dalle formazioni partigiane».
«Ciò appartiene alla Storia! Non può, pertanto,
negarsi, alla stregua dell'articolo 40 suddetto, che gli appartenenti alle
Forze Armate della R.S.I. abbiano conservato la qualità di belligeranti,
né è possibile concepire che tali Forze avessero detta caratteristica
solo di fronte agli alleati e non al cospetto dei cobelligeranti italiani».
«Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra
concesso dagli alleati - d'accordo col Governo legittimo italiano - ai
militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai
primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali
che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere
di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando
in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana
post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo
del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo».
«Belligeranti, adunque, erano i combattenti del Centro-Nord,
anche se ribelli o insorti e, quindi, punibili secondo il diritto interno
in base allo svolgimento di regolari giudizi».
«Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi suesposta.
Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto,
soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto
questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti.
Anche a voler considerare, per dannata ipotesi come fa la sentenza impugnata,
i reparti della RSI quali milizie alle dipendenze del tedesco invasore,
egualmente dovrebbe ad essi riconoscersi la qualifica di belligeranti,
perché, comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi
e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per
quanto era possibile, nei confronti dell'avversario belligerante, alle
leggi e agli usi di guerra (i partigiani non erano belligeranti, come si
vedrà in seguito); né può far velo a tale soluzione
giuridica la caratteristica insurrezionale di detti reparti, poiché
l'articolo 1 della Convenzione dell'Aja non fa distinzioni di sorta. D'altronde
l'interpretazione pressoché autentica di questi princìpi
è fornita dall'articolo 4 della Convenzione di Ginevra, 8 dicembre
1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, convenzione che
ha reso normativo quello che era già accettato nell'attuazione pratica
del diritto internazionale bellico».
«Infatti il n. 2 del detto articolo 4, prendendo evidentemente
le mosse dall'articolo 3 del Regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja
il quale dichiara che gli appartenenti alle forze armate delle parti belligeranti
hanno diritto, in caso di cattura, al trattamento dei prigionieri di guerra,
precisa che "sono prigionieri di guerra i membri delle altre milizie
e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti
di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agente
fuori e all'interno del loro territorio, anche se questo territorio è
occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi
i movimenti di resistenza organizzati, adempiano le condizioni seguenti:
a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b) avere
un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare apertamente
le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di
guerra".
«Questi princìpi erano stati già applicati durante
la guerra, tant'è che gli alleati ottennero dalla Germania il trattamento
di legittimi combattenti alle formazioni della "Francia Libera"
del generale De Gaulle, nonostante la resa dello Stato francese».
«L'impugnata sentenza tratta in un modo troppo semplicistico
il problema della belligeranza, considerando l'organizzazione militare
della Repubblica Sociale Italiana come "rivolta alla ribellione
contro lo Stato legittimo, e quindi non aventi alcun valore le norme, gli
ordini, i vincoli di subordinazione e i poteri gerarchici da essa emanati".
«Pertanto, rifacendosi solo al diritto interno, negando la caratteristica
di governo di fatto alla Repubblica Sociale Italiana, che perfino il Pubblico
Ministero aveva riconosciuto con serena obiettività e profondità
di argomentazioni - pur non traendone le necessarie conseguenze - ha finito
col non ritenere la belligeranza degli avversari, per potere, in prosieguo
di motivazione, trattare soltanto da ribelli i combattenti della Repubblica
suddetta, ed escludere, quindi, le fondamentali discriminanti dell'adempimento
del dovere e dello stato di necessità di cui si dirà in seguito».
«In tal modo, disavvenendo a tutte le norme in materia, si perpetua
una particolare valutazione dei fatti che, se era spiegabile nei primi
dolorosi anni del dopoguerra, oggi non può essere consentita, nel
clima dell'auspicata pacificazione e delle sopite passioni politiche, e
nell'austera applicazione del puro diritto».
Carattere di non belligeranza dei partigiani
«Il giudice di merito ha, invece attribuito ai partigiani le
qualità belligeranti, con una peregrina interpretazione delle disposizioni
vigenti».
«Sotto il profilo etico deve subito rilevarsi che tale qualifica
non può togliere ai partigiani quell'aureola di eroismo di cui molti
si circondarono, ben conoscendo che da belligeranti non potevano essere
trattati, ed essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale
loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti
delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni
dei plotoni d'esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano
farsi usbergo della qualifica suddetta».
«L'impugnata sentenza, si è richiamata alla citata Convenzione
di Ginevra, quando si è trattato di qualificare belligeranti i partigiani,
dando un'interpretazione arbitraria alle norme surriferite».
«Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano
le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e
alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario,
invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni
partigiane, considerate per se stesse, per quelle che erano e per il modo
con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle
Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome».
«All'uopo si osserva: 1) i belligeranti devono avere a capo una
persona responsabile per i propri subordinati. Non si comprende come il
concetto di responsabilità possa conciliarsi con quello di clandestinità,
per cui i capi del movimento partigiano, per non farsi riconoscere, per
non essere identificati e traditi, e correre l'immediato rischio di morte,
si nascondevano sotto pseudonimi, eliminando, per tal modo, quanto meno
le responsabilità di ordine immediato».
«Non si può dalla pratica verificatasi in guerra, per
cui talvolta i capi delle forze avversarie si incontravano per venire a
patti, dedurre senz'altro una inesistente giuridica responsabilità
dei capi partigiani, che, era invece, accuratamente evitata».
«2) I belligeranti devono avere un segno distintivo fisso, riconoscibile
a distanza. Qui la sentenza è del tutto generica, poiché
si limita a citare due montanari che furono denunciati perché avevano
un fazzoletto verde; essa poi accenna, genericamente, a quanto ebbe a riferire
il teste - on. Ezio Moscatelli - e infine dichiara, per scienza propria
e contrariamente ad ogni norma processuale, constare al Collegio che la
formazione del Veneto e del Mortarolo portavano i richiesti distintivi
di belligeranza».
«Tali distintivi devono essere fissi e riconoscibili a distanza.
Questo doveva dimostrare il giudice di merito e non l'ha fatto».
«La nostra legge di guerra, approvata con Regio Decreto 8 luglio
1938 n. 1415, dispone all'articolo 25, in armonia con le convenzioni internazionali,
che i legittimi belligeranti debbono indossare un'uniforme od essere muniti
di distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza».
«La sentenza non ha affatto dimostrato - e non lo poteva - che
esistesse un distintivo fisso di tal genere, comune a tutti i partigiani
e riconoscibile a distanza, sostitutivo, in altri termini, della uniforme».
«La lotta clandestina, condotta dai partigiani senza dar quartiere
e senza riceverne, imponeva dei metodi e degli accorgimenti che contrastavano
coi segni di riconoscimento richiesti. Essi, che pur costituirono il nerbo
della resistenza e addussero un apporto fondamentale alla definitiva vittoria
delle Forze Armate del legittimo Governo italiano, combatterono una guerra
singolare e, per certi aspetti, eroica, sacrificandosi e immolandosi per
il bene supremo della Patria. I loro atti di guerra non hanno bisogno di
essere legittimati attraverso la qualifica della belligeranza; agirono
come agirono, perché tra i reparti fascisti e i reparti partigiani
regnavano, quanto più, quanto meno, sistemi di combattimento, di
guerriglia, che avevano accantonato, come si vedrà in seguito, le
fondamentali norme del Codice penale militare di guerra. La loro opera
deve essere apprezzata e riconosciuta, per quanto essi fecero nell'interesse
del Paese, salvo la punibilità delle azioni delittuose eventualmente
compiute».
«3) I belligeranti devono portare apertamente le armi. La stessa
sentenza riconosce che non sempre ciò era possibile, poiché
tale requisito deve essere considerato alla luce della tecnica particolare
della guerra partigiana».
«4) Infine, i belligeranti debbono attenersi alle leggi e agli
usi di guerra, sul qual punto il giudice di merito non ha fornito che vaghe
indicazioni; ma di questo si dirà meglio in seguito».
«Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari,
ma non assoggettati alla legge penale militare, per lo espresso disposto
dell'articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n. 93, non possono essere
considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni
che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono».
«Il magistrato ha un vasto campo di valutazione, quello concernente
il dolo che, in tema di collaborazione propone il quesito seguente: il
giudicabile ha inteso di collaborare all'invasione del tedesco, ha voluto
effettivamente tale invasione, o ha ritenuto di agire per una sia pure
errata visione del bene e del divenire della Patria? Tale quesito, in altri
termini ne pone un altro: è possibile, nonostante la proclamata
figura giuridica del "tedesco invasore", ammettere una volontà
di collaborazione non rivolta all'evento invasione, ma volta invece al
"divenire della Patria"? È possibile pensare che l'agente,
lungi dal ritenere la sua opera collaboratrice intesa a favorire l'invasione,
abbia, in buona fede, creduto che la Repubblica Sociale Italiana si avvalesse
delle forze tedesche per fronteggiare lo stesso nemico (gli alleati), ma
non certo per agevolare il tedesco nei suoi piani militari e politici ai
danni dell'Italia».
"La storia dirà un giorno - e la cronaca già
si sofferma su questo punto - se i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana
si opposero, con i mezzi a loro disposizione, ai piani del tedesco, e se
mirarono - sia pure ponendosi contro il Governo legittimo - al solo bene
dell'Italia, quale essi lo ritennero".
«Certo è che, nella disamina delle responsabilità
occorre avere presenti i proposti quesiti in tema di dolo, al fine di accertare
quale fu il movente e quale lo scopo per cui si attuò, nei singoli
casi, la collaborazione».
«La Suprema Corte di Cassazione, dopo una prima rigorosa giurisprudenza,
che risentiva del clima in cui ebbe a formarsi, ha sin dal primo semestre
del 1947, discusso e ammesso la possibilità, nella soggetta materia,
delle discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità».
«Per lo contrario l'impugnata sentenza ha, con criterio unilaterale,
come si è superiormente rilevato, ritenuto che la organizzazione
militare della Repubblica Sociale Italiana, era rivolta alla ribellione
contro lo Stato legittimo, donde nessun valore poteva attribuirsi alle
norme, agli ordini, ai vincoli di subordinazione e ai poteri gerarchici
che da essa promanavano. All'uopo la sentenza ricorda che, secondo la legge
sulle sanzioni contro il fascismo, deve parlarsi di "sedicente Repubblica
Sociale Italiana" e che tale appellativo è sintomatico per
la soluzione della questione».
«Deve, in proposito, rilevarsi che il termine "sedicente"
intende contrapporre tale Repubblica dello Stato italiano legittimo; essa
fu solo "sedicente", perché non ebbe il pieno riconoscimento
internazionale, né si sostituì allo Stato legittimo».
«Queste locuzioni "Stato di diritto", "Stato legittimo",
non rispondono pienamente alla terminologia del linguaggio tecnico-giuridico,
ma sono utilmente adottate per significare che non si tratta di uno Stato
di fatto (altra locuzione praticamente utile), ma dell'unico, vero, legittimo
Stato. Con tali argomenti il giudice di merito ha posto il veto e ha risolto
ogni premessa per la discussione e l'ammissibilità delle discriminanti
parole. È mai possibile che, in tal modo, siano annullati i princìpi
posti dal Codice penale e dai Codici penali militari, da ogni legislazione
civile, dichiarando in blocco inapplicabili tali cause di esclusione?».
«In definitiva, quando la resistenza e l'insurrezione armata
assume, in grande stile, forme di organismo militare vero e proprio, quando
non si tratta di una ribellione di pochi, ma di imponenti masse, è
ovvio che, nei limiti consentiti e in omaggio alle esigenze dell'umanità
i governi di fatto non possono essere trattati senz'altro come governi
aventi giurisdizione su un'accolita di ribelli e di fuori legge; ché
altrimenti, accertata l'originaria e libera volontà di porsi agli
ordini della Repubblica Sociale Italiana, risulterebbe imponente il numero
dei colpevoli di collaborazionismo, sia pure beneficiati di amnistia; in
questa ipotesi la delinquenza politica si sarebbe palesata come generalità
di vita vissuta da centinaia di migliaia di uomini e non come eccezione;
il che non può essere, perché è l'eccezione che delinque
e non la generalità».
«D'altronde, come può oggi parlarsi più di una
accozzaglia di ribelli, quando la Convenzione di Ginevra ha inteso proprio
tutelare i movimenti di resistenza organizzata, come sopra è detto?».
«Più che dall'essere la Repubblica Sociale Italiana un
Governo di fatto, le discriminanti in questione traggono origine dalla
riconosciuta qualità di belligeranti ai combattenti della Repubblica
suddetta. Si comprende che, negata loro tale qualità, ne deriva
ch'essi fossero un'accozzaglia di ribelli, di traditori e di banditi, nonostante
che imponente fosse il numero dei reparti, degli ufficiali, dei decorati
che non vollero deporre le armi; ammessa, invece, tale qualifica nell'indiscutibile
spirito delle Convenzioni internazionali dell'Aja e di Ginevra, il problema
delle cause discriminanti può e deve senz'altro essere posto e risolto».
«Lo Stato italiano punisce i suoi sudditi, per l'opera collaborazionistica
col tedesco invasore, ma nel contempo è innegabile, per le cose
dette che occorre tenere presente l'inquadratura militare della Repubblica
Sociale Italiana, delle gerarchie costituite, degli ordini emanati e della
legge militare colà imperante (quella italiana); né può
da un lato riconoscersi la belligeranza e da un altro negarsi l'esistenza
di un ordinamento militare, fondato sull'obbedienza e sulla disciplina
militare».
«...Ciò premesso, per la serena valutazione dei fatti
occorre fissare il punto di partenza, che nella sfera dell'ordine psicologico,
prende le mosse dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Si è rilevato
che, inizialmente, una parte delle Forze Armate italiane non volle accettare
l'armistizio e proseguì nelle ostilità contro il nemico della
guerra sino allora combattuta, intendendo mantenere fede all'alleato tedesco;
le armi italiane non furono inizialmente rivolte contro i propri fratelli,
e se scontri inizialmente vi furono tra reparti italiani e reparti italiani,
più che altro si verificarono per la fatalità delle circostanze».
«I reparti che avevano seguito l'ordine del Governo legittimo
pensarono soprattutto a fronteggiare il tedesco invasore, e, purtroppo,
avvenne l'inevitabile, per cui si trovarono di fronte figli della stessa
grande Madre. In quei giorni nefasti il potere regio era pressoché
annullato, e solo formalmente esisteva, come si è dianzi rilevato,
la sovranità italiana. L'esercito era disperso e infranto, gli alleati
apparivano vittoriosi, tutto cadeva in rovina e grande era il disorientamento
delle coscienze. In tale confusione, nella carenza dei poteri costituzionali,
il soldato, l'ufficiale italiano fu chiamato a risolvere il tragico quesito,
se mantenere fede all'alleato o ubbidire al Governo del re».
«Quando si afferma la tesi della libera determinazione dei singoli
nella scelta del fronte, si dimentica la tragica situazione cui si è
fatto segno, si oblia che la guerra fraterna non fu inizialmente voluta,
ma fatalmente sorse dalla disfatta, che, comunque, tutti gli italiani,
salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando;
che, se si può parlare di collaborazionismo e di tradimento nel
senso giuridico, non si può certo affermare che le centinaia di
migliaia di soldati, che rimasero al nord a combattere contro gli alleati
e le truppe regie, fossero un'accozzaglia di traditori. Accettare e consacrare
alla storia una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza,
annullare il retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che
nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni
una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano».
«Ricostruita così la verità storica degli avvenimenti,
non deve da tale ricostruzione trarsi la stolida illazione che non vi siano
colpevoli, poiché non v'ha dubbio che debbono essere inesorabilmente
colpiti coloro che agirono in mala fede, eccedettero in faziosità,
compirono azioni delittuose, crudeltà efferate ed innominabili sevizie».
«Tutta l'antecedente esposizione deve servire solo ad obiettare
e a serenamente apprezzare i fatti, a non porre senz'altro le premesse
di una ribellione, libera nella determinazione e totalitaria nei delittuosi
scopi, per cui si giunga inesorabilmente a colpire quanto non è
giusto colpire, e si perpetuino i rancori, gli antagonismi, le inimicizie,
allontanando la auspicata pacificazione, che non può essere attuata
se non nel clima di una tranquillante giustizia».
«L'impugnata sentenza ha ritenuto che l'errore di fatto in cui
possono essere caduti taluni imputati, nel ritenere legittimi gli ordini
provenienti dagli organi della Repubblica Sociale Italiana, sia inescusabile,
in quanto l'illegittimità di tale organismo è elemento di
norme penali che quella illegittimità sanciscono. Ciò non
è esatto, perché il dolo domina tutti gli estremi del reato,
e alla sua ricerca non si sottrae neppure l'estremo della illegittimità».
«Ma v'ha di più! La tesi del giudice di merito non può
essere accolta. Una volta riconosciuto che la Repubblica Sociale Italiana
costituiva un governo di fatto e che i suoi combattenti dovevano essere
considerati belligeranti, ne consegue che gli ordini impartiti dai superiori
ai loro subordinati dovevano essere eseguiti. Non può far velo alla
soluzione del quesito, che è di ordine strettamente giuridico, il
carattere insurrezionale del Governo suddetto, per trarne l'illazione generica
della illegittimità di tali ordini».
«La legittimità o l'integrità non è in funzione
della insurrezione, della ribellione al potere regio, ma va posta in relazione
all'organizzazione politica e militare che si era costituita con il suo
ordinamento giuridico, con le sue leggi, con le sue autorità».
Se lo sbandamento delle coscienze e la fatalità degli eventi
portò molti combattenti nei quadri militari della Repubblica Sociale
italiana, non è esatto parlare a priori, di illegittimità
degli ordini, e tanto meno escludere le discriminanti putative, se per
giustificabile errore, i soggetti ritennero di adempiere al loro dovere
e di agire nello stato di necessità (Art. 59, Ultimo Comma, Codice
Penale)».
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 e N. 47 del Marzo e Aprile 1999.
C.D.L. Edizioni srl
http://www.italia-rsi.org/legittimita/sentenzacomb.htm
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