Riporto qui di seguito alcuni brani tratti dal libro Gli Indiani d'America, di Wilcomb E. Washburn, editori Riuniti, sulla personalità dei pellerossa, capitolo due.
Questo
testo è senza dubbio il migliore che ho mai letto sui cosiddetti
“native americans”, i quali nonostante l’appellativo così netto - fatto
che avrebbe dovuto spingere gli ospiti per lo meno a rispettarli - sono
stati invece oggetto, come ben sappiamo, di ripetute, crudeli ed
ingiustificate decimazioni.
Riporto questi brani sorprendenti - come spero scoprirete - sia perché in fondo degli indiani a noi mi pare sia giunta un’immagine poco chiara, legata più che altro a film western - che quasi mai ne hanno saputo tracciare correttamente dei tratti identitari credibili ed adeguati - sia perché questo degli indiani potrebbe diventare, per chi lo volesse, un buon argomento di discussione con amici e conoscenti.
Per esempio, per tutte le ragioni indicate da Alan Watt in Scioccare e Sorprendere, comparso negli ultimi post di Anticorpi. Ecco a proposito riportate, tanto per cominciare, alcune sue “buone ragioni”:
Presto il pubblico sarebbe stato incapace di pensare o ragionare per conto proprio, ciò sarebbe avvenuto in relazione al tipo di informazione che gli sarebbe stata fornita,
Tutti quelli che sono in vita oggi, sono stati stimolati a non pensare.
Il principale strumento della propaganda è fare in modo di interrompere una conversazione tra le persone anche in una semplice stanza.
Bisogna tornare alla comunicazione tra le persone e scovare le prove, perchè la conoscenza è stata frammentata, dato che la conoscenza è potere.
Un libro da leggere insieme per raccogliere informazioni basati sui fatti da fornire al pubblico: analizziamo quel testo, le frasi, il contenuto, ecc. e lo leggiamo in ambito partecipativo. Quella è la partecipazione - vera comunicazione - con informazioni fornite anche da chi magari ha avuto esperienze dirette (di ciò di cui si parla).
http://www.youtube.com/watch?v=K3tAfnDVbv8
http://www.youtube.com/watch?v=K3tAfnDVbv8
Buona lettura, e, spero, buona condivisione.
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Gli indiani adulti cercavano consapevolmente di evitare i conflitti con i loro simili.
L'atteggiamento tradizionale di dignità e riserbo degli indiani era in
nettissimo contrasto con i modi chiassosi e litigiosi dei bianchi con
cui entrarono in contatto, e sembra che fosse il frutto di un lungo
addestramento che cominciava con l'indulgenza dimostrata dai genitori
indiani verso le mancanze commesse dai figli.
John Heckewelder, missionario moravo del 1700, spiegò il comportamento degli indiani Delaware in
questo modo: «I genitori preferiscono rimediare al danno che punire i
figli, perche pensano che i figli potranno ricordarsi della punizione ed
usarla contro di loro vendicandosi una volta raggiunta la maturità».
Heckewelder fece osservare che i
genitori indiani non cercavano di imporre la propria autorità con
metodi duri e coercitivi e che «non erano mai usate né la frusta, né le punizioni, né le minacce per far rispettare gli ordini o per obbligare all'obbedienza».
L'antropologo Anthony Wallace ha notato che a causa di una simile educazione era improbabile che gli indiani si lasciassero guidare dalla «coscienza punitiva necessaria nella società europea». La cooperazione sociale era il frutto di atteggiamenti ed azioni che evitavano accortamente di suscitare antagonismi.
Il concetto di un dio irato che
puniva i malvagi non aveva molto significato per un indiano Delaware,
cresciuto senza ricevere alcuna punizione per le sue mancanze: il suo dio era invece il Grande spirito che reggeva l'ordine naturale.
Individualmente l'indiano Delaware poteva avere un custode personale, di solito uno spirito animale che lo proteggeva e che si rivelava nei sogni o nelle visioni.
Un'esperienza comune ai bambini
di molte tribù era la «ricerca della visione»: alle soglie della
pubertà, il ragazzo si isolava nei boschi o su una montagna per entrare
in comunione con gli Spiriti, aspettare la sua visione, riflettere sui
suoi sogni e forse anche per mortificarsi con la speranza di entrare in
rapporto con il soprannaturale, oppure soltanto di «trovare se stesso».
Questa
esperienza di maturazione, fondata sulla ricerca individuale piuttosto
che sugli insegnamenti della comunità o sull'obbedienza imposta, serviva
a rinforzare lo spirito di libertà ed indipendenza così spesso
notato da osservatori europei tra gli indiani delle foreste dell'est,
spirito che veniva inculcato dagli atteggiamenti permissivi ed
indulgenti assunti dai genitori nell'educazione dei figli.
Wallace ha scritto che tra i Seneca i
bambini «non vivevano tanto in un mondo infantile, quanto piuttosto
crescevano liberamente negli interstizi della cultura adulta».
I
bambini imitavano il comportamento degli adulti, come ad esempio le
attività di caccia, e i genitori li osservavano con indulgenza e
sostenevano in silenzio i progressi dei figli. Il comportamento degli Irochesi non
era caratterizzato, al contrario di quello dei bianchi, da punizioni
casuali e severe, da violenti scatti di ira oppure da effusioni di
affetto. Wallace ha fatto notare che questa
educazione produceva «una precoce fiducia in se stessi ed un senso di
piacere di fronte alle proprie responsabilità, al prezzo forse di
continue difficoltà nell'affrontare il senso di dipendenza».
La caratteristica dell'indiano «incontaminato» notata da molti studiosi era la fedeltà alla parola data; spesso la parola data all'uomo bianco veniva mantenuta perfino quando danneggiava gli altri fratelli indiani.
Numerosi esempi stanno ad
indicare che l'indiano aveva maggior conto per l'onore individuale che
per l'affinità razziale. John Heckewelder notò la frequenza con cui i
bianchi venivano avvertiti di un attacco imminente dai loro amici
indiani. Heckewelder non era a conoscenza di nessun caso in cui questa
fiducia fosse stata tradita: «All'orecchio dell'indiano la parola
"amico" non ha lo stesso significato vago e quasi indefinito che ha per
noi; non è un'espressione complimentosa ed esteriore, ma comporta la
volontà precisa di aiutare in tutte le occasioni la persona indicata con
quell'appellativo, e rappresenta una minaccia per chi molesti quella
persona [...] ».
Heckewelder
nega l'insinuazione che la amicizia con l'indiano si dovesse acquistare
con i regali e che solo i regali la tenessero in vita. Egli ebbe modo
di notare direttamente che il fatto essenziale era che chiunque
volesse ottenere l'amicizia di un indiano doveva trattarlo con
«assoluta parità»: se gli indiani non dimenticavano i veri amici,
nemmeno perdonavano il disprezzo.
I primi esploratori affermarono
spesso che gli indiani non possedevano né religione né leggi. La
mancanza di leggi scritte e la mancanza degli attributi esteriori propri
delle istituzioni religiose e giuridiche europee contribuirono a creare
negli osservatori europei l'impressione di avere di fronte selvaggi che
non capivano le idee di legge, giustizia e gli altri controlli
istituzionali noti agli europei. Naturalmente era una impressione
sbagliata. Così come avevano una vita
religiosa complessa, tutti i gruppi indiani avevano sistemi giuridici
che mostrano una grande varietà e complessità, ed è irrilevante che
questi sistemi non fossero stati messi per iscritto. La
tradizione e l'educazione ricevuta insegnavano all'indiano che cosa ci
si aspettava da lui, e l'indiano ricordava, molto meglio degli europei, i
termini dei trattati che firmava con i bianchi.
«La generosità indiana messa in
risalto dalla maggior parte degli studiosi va vista alla luce della sua
utilità funzionale oltre che alla luce di un concetto astratto di
giustizia. Presso popolazioni la cui sopravvivenza dipende dalla caccia,
la ripartizione dei beni costituisce una necessità vitale.
A causa delle incertezze sulla riuscita della caccia, sulle dimensioni
della preda, e a causa delle difficoltà nel conservare la carne, nelle società di cacciatori i beni si dividevano, di norma, con liberalità e generosità. Questa
etica era radicata nella società e soltanto pochi cercavano di
ignorarla, anche se esistono alcuni esempi, come il caso degli eschimesi
Copper: quando potevano le donne nascondevano il cibo, soprattutto d'inverno quando non cucinavano all'aperto.
Nel
sottolineare la generosità degli indiani, non si deve ignorare
l'esistenza dell'invidia e dell'avidità: essere generosi significava
aspettarsi di ricevere uguale generosità nel momento del bisogno. Dagli
studi di alcune comunità indiane risulta che esistevano antagonismi e
rancori alimentati dalla convinzione che il rapporto di generosità
reciproca non fosse stato completamente rispettato.
Tale inadempienza finiva per portare ad un nuovo allineamento dei gruppi sociali all'interno della comunità che prendeva delle misure contro chi non si conformava, arrivando spesso ad emarginarlo.
Tale inadempienza finiva per portare ad un nuovo allineamento dei gruppi sociali all'interno della comunità che prendeva delle misure contro chi non si conformava, arrivando spesso ad emarginarlo.
Le remunerazioni psicologiche
accumulate dal cacciatore fortunato lo compensavano di solito del senso
di privazione che avrebbe altrimenti provato di fronte all'obbligo di
dividere la sua preda con chi aveva avuto minor fortuna o con i membri
delle tribù più indigenti. Il grande cacciatore era tra le persone più
ammirate ed onorate dalla comunità. La preda cacciata era «sua» in senso
proprio perché le società indiane di solito non praticavano il
comunismo economico; le regole della società imponevano però al
cacciatore di condividere la sua fortuna e la sua abilità con i membri
meno fortunati e meno abili della comunità.
Il termine spregiativo «Indian giver», cioè colui che dà con una mano e prende con l'altra, getta luce sulla natura dello scambio tra gli indiani. In
una società dove non esiste un'economia di mercato regolata da
misurazioni monetarie, deve prevalere un più informale sistema di
scambio di merci o di servizi in proporzioni all'incirca uguali. In
mancanza di unità di misura precise, esiste una forma più vaga di
equivalenza etica. Se alla mancanza di un'economia di mercato
aggiungiamo la distanza che separa persone che non parlano la stessa
lingua, risulta evidente la necessità di uno scambio «silenzioso» ma
equivalente sia eticamente che economicamente.
Durante i primi contatti tra gli
esploratori e gli indiani della costa, quando tutti temevano di venire
imbrogliati, accadeva spesso che ognuna delle due parti lasciasse una
quantità di beni equivalenti che l'altra parte avrebbe preso
successivamente. Questi primi scambi silenziosi, fatti a distanza,
costituiscono il modello meglio adatto a chiarire la generosità
«utilitaristica» degli indiani. Si da
liberamente aspettandosi però di ricevere una quantità equivalente che,
una volta ricevuta, viene valutata sulla base di quanto si è dato in
origine.
Se ne consideriamo il valore
psicologico, a prescindere da quello monetario, lo scambio è
soddisfacente. Il senso di soddisfazione è dovuto non soltanto alla
restituzione del valore economico (che è forse l'elemento meno
importante) ma soprattutto alla risposta diplomatica ed umana.
L'atteggiamento degli indiani verso i beni materiali era tutt'uno con l'atteggiamento verso la terra (...)
Secondo l'interpretazione di Wallace, nell'irochese coraggioso,
indipendente e sicuro di sé, si nascondeva un desiderio inconscio di
essere accudito, di essere passivo. Questo desiderio trovava espressione
nel rito irochese di «indovinare i
sogni», durante il quale un individuo alludeva appena ai propri sogni
durante una riunione, i cui componenti, da parte loro, cercavano di
scoprire il significato dei sogni e di soddisfarne i desideri latenti.
Wallace fa notare che la
tendenza alla passività, che non era permessa apertamente, emergeva nei
sogni che mantenevano un contenuto manifesto «attivo», ma venivano
soddisfatti per mezzo di una ricezione passiva. Wallace mette in risalto
che, proprio come un bambino, l'individuo che sognava poteva soltanto
alludere ai propri desideri reali, che erano spesso di natura sessuale,
finché qualcuno non indovinava quali fossero questi desideri che
venivano poi soddisfatti dal consiglio riunito. In questo modo la
società irochese socializzava il processo attraverso il quale
l'individuo si confrontava con i suoi bisogni e le sue paure più
riposte, e creava un rimedio efficace contro la disorganizzazione
individuale e sociale.
In
modo simile le spinte e le paure inconsce dell'irochese dal piglio
sicuro e dall'aspetto taciturno trovavano sfogo nei rituali della Società delle facce, i cui membri, nascosti dietro le maschere contorte di figure mitiche, potevano manifestare
atteggiamenti infantili e proibiti in altre occasioni e, cosi facendo,
curare le malattie, forse di natura psicosomatica, e allontanare la
stregoneria. Quando indossava quella maschera, l'irochese poteva agire come non gli era permesso fare nella vita di tutti i giorni.*
Con una saggezza inconscia, ha fatto notare Anthony Wallace, «la Società delle facce aveva trovato il modo di dare sfogo «alla rabbia e alla paura, alla libidine e all'odio, all'ambizione senza limiti ed alla abietta passività, alla fredda crudeltà ed al nobile altruismo» senza causare troppe paure nel paziente. Sotto la copertura delle Facce finte gli irochesi potevano indulgere nel loro desiderio di essere passivi, «di essere bambini irresponsabili, esigenti e capricciosi, e di competere con lo stesso Creatore […]»
Con una saggezza inconscia, ha fatto notare Anthony Wallace, «la Società delle facce aveva trovato il modo di dare sfogo «alla rabbia e alla paura, alla libidine e all'odio, all'ambizione senza limiti ed alla abietta passività, alla fredda crudeltà ed al nobile altruismo» senza causare troppe paure nel paziente. Sotto la copertura delle Facce finte gli irochesi potevano indulgere nel loro desiderio di essere passivi, «di essere bambini irresponsabili, esigenti e capricciosi, e di competere con lo stesso Creatore […]»
Wallace è arrivato alla conclusione che gli
Irochesi avevano raggiunto intuitivamente un alto grado di progresso
psicologico, arrivando a riconoscere le parti consce ed inconsce della
mente. Conoscevano la grande forza dei desideri inconsci, erano
consapevoli che la frustrazione dì questi desideri poteva causare
malattie mentali e fisiche (psicosomatiche). Avevano
capito che questi desideri venivano espressi in forma simbolica nei
sogni e che da solo l'individuo non riusciva sempre ad interpretare
adeguatamente questi sogni. Avevano notato la distinzione tra il
contenuto manifesto e quello latente dei sogni e per scoprire il
significato nascosto impiegavano una tecnica che ricorda quella delle libere associazioni. Sapevano
anche che il modo migliore per dare sollievo ai disturbi psichici e
psicosomatici era di soddisfare i desideri repressi, direttamente oppure
in maniera simbolica. Sarebbe giusto affermare che gli Irochesi e
le altre culture indiane del XVII e XVIII secolo possedevano una
maggiore comprensione della psicodinamica di quanto non avessero gli
illuminati europei dell'epoca.
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