Dopo aver trattato qualche mese fa su Rinascita, l’argomento
“Finanza e politica bancaria durante il Fascismo”, è giusto parlare
anche della legislazione sociale che in quel periodo ha portato la
nazione a vette mai viste nel mondo civile, soprattutto in un periodo
durante il quale si sta tentando di distruggere completamente tutto ciò
che ha tale carattere.
Ricordo, qualche anno fa, durante la trasmissione Rai “Annozero”, uno sfegatato Bertinotti difendere a spada tratta le conquiste dello Statuto dei Lavoratori, frutto, secondo il suo ragionamento, “dei trent’anni di vittoria sul nazi – fascismo”. Non mi risulta affatto che lo stesso personaggio si sia prodigato per la salvaguardia dell’articolo 18, né tantomeno abbia citato i progressi economico – sociali fatti dal 1922 al 1945 compreso. E’ tempo di rinfrescare la memoria, ordunque, al caro ex presidente della camera dei Deputati, nonché a tutti i “tecnici”.
Il fondamento della politica sociale del Fascismo è in questa proposizione mussoliniana: “ci siamo già sganciati dal concetto troppo limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà nazionale”. Tutta la politica sociale è stata concepita dal Duce in funzione di questa solidarietà nazionale, che doveva poi trovare la sua piena formulazione nella Carta del Lavoro. Presupposto tale di tale politica è la nuova dignità riconosciuta al lavoro (e non la sua mercificazione). Il lavoro, non viene più considerato per la prima volta una “merce”, bensì una dignità, la più alta manifestazione della personalità. Da oggetto diventa soggetto dell’economia, e si è cittadini in quanto si è produttori. La tutela del lavoro non avrebbe avuto senso, se non fosse stata accompagnata da una costante tutela del cittadino. Da qui, la politica demografica, formulata da Mussolini nel discorso dell’Ascensione del 27 maggio 1927. Essa obbediva ad una concezione morale della vita e ad una visione dei fini nazionali. Inflessibile è stato il Regime nella lotta contro il malthusianesimo. “Massimo di natalità, minimo di mortalità”. Questa la sua formula. Inutile replicare che alla flessione delle nascite si può opporre la riduzione della mortalità. Per il Fascismo si trattava di un sofisma. Se la natalità e la mortalità diminuiscono insieme, la popolazione subisce un profondo cambiamento nella sua composizione: aumenta la percentuale degli anziani e riducendosi quella dei bambini e dei giovani, si va verso l’invecchiamento. Senonché l’indice della mortalità non è comprimibile all’infinito: si può protrarre la durata media della vita umana, ma fino ad un certo limite. Viceversa, l’indice della natalità può regredire indefinitamente, fino allo zero.
Ed i fatti seguirono immediatamente alla dottrina. Ecco “l’Opera per la protezione della Maternità e dell’Infanzia”, istituita dal Duce con la legge del 10 dicembre del 1925. A mezzo di 94 Federazioni provinciali, di oltre 7300 Comitati di Patronato, di un vero esercito di medici, assistenti sanitarie, visitatrici, patronesse, patroni, l’Opera penetrava in ogni casa di città e di campagna, allo scopo di vigilare sulla salute oltre che sulle condizioni sociali, educative, morali dell’infanzia e di prevenire ogni suo male mediante visite consultoriali a domicilio, frequenti e pronti interventi assistenziali. Una fitta rete di istituzioni funzionava ovunque: 3592 consultori ostetrici; 4347 consultori pediatrici; 167 asili nido; 1126 dispensari di latte; 1080 refettori materni e 300 Case della Madre e del Bambino svolgevano un lavoro in profondità oltre che in estensione. I numeri citati appartengono all’anno 1942, e paragonati ai nostri giorni, non possono che suscitare una certa invidia. La mortalità infantile che nel 1922 era di 126 per mille, nel 1940 è discesa al 97. I nati morti nel ‘22 erano il 4,5%, nel 1940 sono stati del 3%.
L’azione del Regime non conosceva soste in quel campo. In una seduta del 3 marzo del 1937 il Gran Consiglio del Fascismo fissava le direttive della politica demografica ispirandosi alle idee ripetutamente enunciate già da Mussolini ed in parte attuate. Decideva, tra l’altro, un’assoluta preferenza nei lavori e negli impieghi ai padri con numerosi figli, “poiché sulle famiglie numerose ricadono, in tempi eccezionali per la Patria, i pesi dei sacrifici e il maggior contributo di uomini”; una metodica politica del salario famigliare (a pari categoria di lavoro e a pari rendimento, reddito proporzionato agli oneri di famiglia); una revisione delle provvidenze demografiche in atto per imprimere loro un carattere più efficace ad assicurare stabilmente la vita delle famiglie numerose; l’istituzione di prestiti per matrimoni e di assicurazioni dotalizie per giovani lavoratori, già previste dalla Carta del Lavoro; la costituzione di una Associazione nazionale per le famiglie numerose; la revisione delle circoscrizioni provinciali e comunali in base ai risultati del censimento del 1941, sopprimendo Comuni e Province dove una popolazione invecchiata e rarefatta non avesse avuto più bisogno di pubblici istituti; la costituzione di un organo centrale di controllo e di propulsione della politica del Regime nel settore demografico. Queste direttive davano ragione dell’azione organica intrapresa dal Fascismo sin dai primi tempi. Le imposte di successione colpivano soltanto le trasmissioni dei beni in favore del figlio unico e fra gli sposi senza prole, mentre erano esenti da ogni tributo quelle che si riferivano a due o più figli (!). Non diversamente per le imposte, che erano notevolmente alleggerite o addirittura abolite (!) per le famiglie numerose. Nell’assegnazione dei case popolari la preferenza alle famiglie numerose era assoluta. Un po’ come oggi, quando ai richiedenti si preferisce un’altra cittadinanza o parametri impossibili.
Il celibato non era ben visto nella vita pubblica fascista. Infatti, i celibi fra i 25 e i 65 anni venivano colpiti da imposte personali e progressive, ed erano esclusi da numerosi uffici pubblici; non potevano, ad esempio, essere podestà, vicepodestà o consiglieri comunali, presidenti e vicepresidenti delle assemblee provinciali nonché consiglieri nazionali. Nelle amministrazioni dello Stato, i celibi non potevano essere promossi oltre un certo grado.
La difesa della famiglia era il fondamento della politica demografica, che, per essere veramente efficace, doveva favorire la formazione di nuovi nuclei. A questo miravano due istituzioni: i premi di nuzialità e di natalità e i prestiti famigliari. Questi provvedimenti interessavano una vastissima zona della popolazione: dipendenti statali, operai, impiegati privati, professionisti, artisti, piccoli proprietari, piccoli commercianti. Qualunque cittadino italiano, che avesse contratto matrimonio entro l’età stabilità (32 anni per gli ufficiali e gli impiegati, 30 per i salariati) poteva ottenere il premio di nuzialità, qualora fosse appartenuto alla numerosa classe dei dipendenti dello Stato, o il prestito famigliare, qualora non fosse appartenuto a tale classe e il suo reddito globale non avesse superato le 12.000 lire annue. La concessione dei prestiti famigliari, secondo le precise e categoriche disposizioni del Governo dell’epoca, doveva effettuarsi con la massima larghezza, a norma di una circolare ministeriale del 23 novembre del 1937.
La tutela del lavoratore è stata attuata secondo norme rigorosamente scientifiche. In linea pregiudiziale,moccorre segnalare l’umana preoccupazione di contenere il lavoro in termini fisiologici. In altre parole, si era voluto che la quantità di energia spesa nello sforzo quotidiano fosse subordinata a due condizioni. In primo luogo, che fosse in relazione all’età del soggetto; in secondo luogo, che potesse essere normalmente reintegrata con l’alimentazione e col riposo. Leggendo ora questi criteri faranno sorridere, ma per l’epoca si tratta di un’avanguardia assoluta.
Gli orari di lavoro sono stati oggetto di speciali provvedimenti. Nel 1933 l’Italia aderì alla Convenzione di Washington, che stabiliva la giornata di otto ore e la settimana di quarantotto. Successivamente, nell’intento di addivenire ad una più razionale distribuzione della manodopera, le Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori dell’industria firmavano una convenzione (5 novembre del 1934) che riduceva l’orario di lavoro entro il limite di quaranta ore settimanali; aboliva il lavoro straordinario; sostituiva, laddove fosse necessario e possibile, la manodopera femminile con quella maschile, la minorile con l’adulta; limitava nel campo impiegatizio il lavoro delle donne e dei fanciulli alle prestazioni ad essi più convenienti; sostituiva il personale appartenente alla categoria dei pensionati con i disoccupati (l’opposto di oggi, dove un pensionato deve lavorare fino alla morte); integrava il salario dei prestatori d’opera che lavoravano ad orario ridotto o che avessero una famiglia a carico, mediante la costituzione di una Cassa nazionale di integrazione per assegni famigliari. Il riposo settimanale era di ventiquattro ore consecutive, per la prima volta obbligatorio, e doveva, laddove non lo vietassero ragioni di forza maggiore essere praticato di domenica (anche in questo caso, l’opposto dei nostri giorni, viste le neo – tendenze “tecniche”). Un’apposita legge (26 aprile 1934) disciplinava il lavoro delle donne e dei fanciulli. Questi ultimi non potevano essere adibiti al lavoro dove non risultasse, in base a certificato medico, che non fossero sani ed idonei al lavoro; era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni in lavori pericolosi, faticosi ed insalubri; erano vietati il trasporto ed il sollevamento di pesi eccessivi. Egualmente vietato, nelle aziende industriali, era il lavoro notturno per tutte le donne e per i minori di 18 anni. Per quanto riguardava la durata del lavoro dei fanciulli e delle donne, la legge fissava a sei ore la durata massima senza interruzione.
Severamente tutelata era l’igiene del lavoro, in virtù del R.D. Del 14 aprile 1927. Chiunque intendesse “costruire, ampliare o adattare un edificio od un locale per adibirlo a lavorazioni industriali in cui debbano presumibilmente essere addetti più di cinque operai”, ne doveva dare notizia al competente Ispettorato corporativo (art. 40).
La tutela morale del lavoratore trovava una garanzia nel “Libretto del Lavoro”, istituito con la legge del 1° gennaio 1935. In quel documento venivano indicate e specificate tutte le condizioni del prestatore d’opera, compresi il grado di istruzione, l’idoneità al lavoro, la qualifica professionale, l’attività esplicata, l’ammontare delle retribuzioni, gli infortuni subiti, le malattie professionali contratte in servizio e la durata delle assenze conseguenti.
La condizioni dell’operaio italiano, dopo venti anni di Fascismo, erano grandemente migliorate, sotto ogni punto di vista. Innanzitutto, il suo suo salario medio era adeguato al costo della vita. Tuttavia, accanto al salario apparente, ne esisteva uno effettivo, che lo superava in maniera sensibile. Alla formazione del salario reale concorrono numerose prestazioni in natura e facilitazioni di ogni genere nei diversi servizi sociali. E proprio queste il regime ha curato maggiormente. Fra queste facilitazioni, alcune sono dei capolavori di genialità e di praticità. Ad esempio, il Dopolavoro, rappresentava una delle più belle ed originali creazioni del Fascismo. Veniva fondato da Mussolini nel maggio del 1925. L’enunciazione del suo programma era semplice e chiara, dovendo “promuovere la costituzione, il coordinamento e la propulsione di istituti atti ad elevare fisicamente, intellettualmente e moralmente i lavoratori intellettuali e manuali nelle ore libere”. Gli iscritti all’O.N.D. potevano contarsi nel 1942 in 4.612.294 persone e le organizzazioni dipendenti 23.362. La previdenza e l’assistenza ai lavoratori erano due capisaldi della Carta del Lavoro, che in quattro dichiarazioni (26, 27, 28, 29) ne precisava i fini e le modalità. Il Fascismo attuava nella maggior misura questi imperativi della solidarietà sociale. All’istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (per chi non intendesse, l’odierno I.N.P.S., vivo e vegeto, senza la “f” di fascista) venivano affidate l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, l’assicurazione obbligatoria per la maternità, la previdenza per la gente di mare. Le legge riguardante l’invalidità e la vecchiaia dei lavoratori veniva riformata nel 1939, in occasione del ventennale del Fascismo. “Intendo – dichiarava il Duce – che la celebrazione del primo ventennale del Fascismo coincida con un forte passo innanzi sulla strada della legislazione sociale, accorciatrice delle distanze”.
L’assicurazione si estendeva a tutti coloro che lavoravano alle dipendenze di altri, esclusi gli impiegati il cui stipendio mensile avesse superato le 1500 lire. Essa comprendeva, quindi, i lavoratori salariati senza limite di guadagno e i piccoli impiegati appartenenti all’industria, al commercio, ai servizi pubblici, all’agricoltura (esclusi i mezzadri e i piccoli affittuari) e ai servizi domestici. Per volere del Duce il limite di età per le pensioni veniva abbassato da 65 a 60 anni per gli uomini (per alcune categorie 55), da 60 a 55 per le donne. Lo annotino “i tecnici”, gentilmente! Contrariamente a quanto era stabilito nelle legislazioni straniere, la pensione alla vedova non era condizionata né al requisito di una data età raggiunta, né al requisito dell’incapacità di lavoro. L’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia e per i superstiti acquistava, così, uno stretto carattere di assicurazione di famiglia.
Di fronte al problema della disoccupazione involontaria, il Fascismo ha scelto direttive di marcia differenti da quelle degli altri paesi. Ha contenuto in limiti modesti il sussidio di disoccupazione. Con ciò ha voluto impedire che potesse venire, in pratica, un comodo surrogato del salario. Nel campo agricolo la disoccupazione che non beneficiava dell’assicurazione obbligatoria, è stata efficacemente combattuta mediante una severa distribuzione della manodopera, imponente alla proprietà fondiaria di assumere dei lavoratori in proporzione all’estensione dei terreni.
Ma è nella lotta contro la tubercolosi, dimenticata dalla storiografia, che il Fascismo ha attuato i suoi principi totalitari. La Carta del Lavoro, nella Dichiarazione XXVII, aveva nettamente enunciato il programma, disponendo “l’assicurazione della malattie professionali e della tubercolosi come avviamento all’assicurazione generale contro tutte le malattie”. Il problema si presentava come uno dei più gravi. V’erano gli aspetti profilattico, organizzativo e finanziario. Il Regime l’ha affrontato risolutamente e con metodo. Ha deciso, innanzitutto, l’assicurazione obbligatoria. Nel 1942 erano di fatto assicurati circa otto milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e delle altre categorie professionali.; ma l’assicurazione avrebbe mancato al suo scopo se non avesse incluso nella sua sfera d’azione anche i famigliari degli assicurati. Raggiungeva così, i quindici milioni il numero delle persone tutelate contro la tubercolosi dall’ordinamento assicurativo. Sono da aggiungere 400 mila famiglie mezzadrili e coloniche – con un complesso di tre milioni di componenti – i maestri delle scuole elementari e i direttori didattici.
Nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il Fascismo ha capovolto il tradizionale concetto del risarcimento, riguardato unicamente come riparazione del danno individuale. Secondo la sua concezione, il risarcimento è uno dei momenti, e nemmeno il più saliente, dell’intero processo riparatore dell’unità lavorativa, innestata nel grande quadro delle forze produttive della Nazione. Esso chiudeva un trentennio di sterili discussioni e riconosceva nettamente “l’identità sostanziale” di una causa lesiva concentrata (infortunio) e di una causa lesiva diluita nel tempo (malattia professionale). Ha pertanto ammesso la necessità di risarcire anche l’usura e il deperimento lenti, dovuti, al pari della lesione istantanea, a particolari influenze del ciclo produttivo.
Fin dal suo sorgere, il Fascismo poneva al primo piano il problema della mutualità per le malattie. La Carta del Lavoro, nella Dichiarazione XXVIII stabiliva che “nei contratti collettivi di lavoro sarà decisa, quando sia tecnicamente possibile, la costituzione di Casse mutue per malattia, con contributo dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera, da amministrarsi da rappresentati degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi”.
I lavoratori iscritti alle Casse mutue nel settore industriale, superavano, nel 1942, i tre milioni e i loro famigliari assommavano a cinque milioni. Ma è nell’agricoltura che si manifestava la più intensa attività assistenziale. Alla fine del 1939 u lavoratori agricoli ed i loro famigliari iscritti alle Casse mutue toccavano la cifra di oltre sette milioni. I contributi riscossi superavano i 109 milioni contro i 50 dell’anno precedente. Nel luglio del 1936 l’assicurazione obbligatoria di maternità, già in vigore per le lavoratrici dell’industria e del commercio, veniva estesa a tutte le categorie addette ai lavori agricoli, compresi fra i 55 e i 60 anni di età.
Quest’opera che possiamo definire imponente di assistenza e solidarietà sociale ha comportato l’erogazione di somme imponenti. Tuttavia non c’era nessuno “spread” a fare da ricatto. Durante i venti anni del Regime le somme erogate per invalidità e vecchiaia, tubercolosi, disoccupazione, nuzialità e natalità, assegni famigliari, trattamenti degli impiegati privati richiamati alle armi, trattamenti operai dell’industria richiamati, integrazione guadagni operai industria lavoranti ad orario ridotto, prestiti matrimoniali, hanno toccato la cifra di 25 miliardi, 896 milioni e 787.962 lire. Per la mutualità malattie sono stati erogati 3 miliardi, 841 milioni e 6321.462 lire. Per le assicurazioni infortuni 4 miliardi, 413 milioni e 114.486 lire. La differenza tra i fondi, in una nazione che all’epoca era più povera forse di oggi, e la nostra, è forse la BCE? Il FMI?
Questo grandioso programma di legislazione sociale non esaurisce l’opera spiegata dal Regime solo nella solidarietà nazionale. La bonifica integrale, l’autarchia, la Carta della Scuola, l’organizzazione giovanile, le opere pubbliche, la colonizzazione della Libia (volenti o dolenti), la riforma dei Codici, sono altrettanti aspetti di quell’azione, vasta e profonda, che Mussolini ha voluto, indicato ed attuato per il rinnovamento e la prosperità dell’Italia. E ciò non si è fermato al Fascismo Regime, bensì è continuato durante la Repubblica Sociale Italia, le cui conquiste sociali sono spiegate molto spesso ed in maniera eccellente da Maurizio Barozzi.
Bertinotti, tecnici vari, tecnocrati, mi auguro che possiate leggere. Tacere ed ammirare.
Ricordo, qualche anno fa, durante la trasmissione Rai “Annozero”, uno sfegatato Bertinotti difendere a spada tratta le conquiste dello Statuto dei Lavoratori, frutto, secondo il suo ragionamento, “dei trent’anni di vittoria sul nazi – fascismo”. Non mi risulta affatto che lo stesso personaggio si sia prodigato per la salvaguardia dell’articolo 18, né tantomeno abbia citato i progressi economico – sociali fatti dal 1922 al 1945 compreso. E’ tempo di rinfrescare la memoria, ordunque, al caro ex presidente della camera dei Deputati, nonché a tutti i “tecnici”.
Il fondamento della politica sociale del Fascismo è in questa proposizione mussoliniana: “ci siamo già sganciati dal concetto troppo limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà nazionale”. Tutta la politica sociale è stata concepita dal Duce in funzione di questa solidarietà nazionale, che doveva poi trovare la sua piena formulazione nella Carta del Lavoro. Presupposto tale di tale politica è la nuova dignità riconosciuta al lavoro (e non la sua mercificazione). Il lavoro, non viene più considerato per la prima volta una “merce”, bensì una dignità, la più alta manifestazione della personalità. Da oggetto diventa soggetto dell’economia, e si è cittadini in quanto si è produttori. La tutela del lavoro non avrebbe avuto senso, se non fosse stata accompagnata da una costante tutela del cittadino. Da qui, la politica demografica, formulata da Mussolini nel discorso dell’Ascensione del 27 maggio 1927. Essa obbediva ad una concezione morale della vita e ad una visione dei fini nazionali. Inflessibile è stato il Regime nella lotta contro il malthusianesimo. “Massimo di natalità, minimo di mortalità”. Questa la sua formula. Inutile replicare che alla flessione delle nascite si può opporre la riduzione della mortalità. Per il Fascismo si trattava di un sofisma. Se la natalità e la mortalità diminuiscono insieme, la popolazione subisce un profondo cambiamento nella sua composizione: aumenta la percentuale degli anziani e riducendosi quella dei bambini e dei giovani, si va verso l’invecchiamento. Senonché l’indice della mortalità non è comprimibile all’infinito: si può protrarre la durata media della vita umana, ma fino ad un certo limite. Viceversa, l’indice della natalità può regredire indefinitamente, fino allo zero.
Ed i fatti seguirono immediatamente alla dottrina. Ecco “l’Opera per la protezione della Maternità e dell’Infanzia”, istituita dal Duce con la legge del 10 dicembre del 1925. A mezzo di 94 Federazioni provinciali, di oltre 7300 Comitati di Patronato, di un vero esercito di medici, assistenti sanitarie, visitatrici, patronesse, patroni, l’Opera penetrava in ogni casa di città e di campagna, allo scopo di vigilare sulla salute oltre che sulle condizioni sociali, educative, morali dell’infanzia e di prevenire ogni suo male mediante visite consultoriali a domicilio, frequenti e pronti interventi assistenziali. Una fitta rete di istituzioni funzionava ovunque: 3592 consultori ostetrici; 4347 consultori pediatrici; 167 asili nido; 1126 dispensari di latte; 1080 refettori materni e 300 Case della Madre e del Bambino svolgevano un lavoro in profondità oltre che in estensione. I numeri citati appartengono all’anno 1942, e paragonati ai nostri giorni, non possono che suscitare una certa invidia. La mortalità infantile che nel 1922 era di 126 per mille, nel 1940 è discesa al 97. I nati morti nel ‘22 erano il 4,5%, nel 1940 sono stati del 3%.
L’azione del Regime non conosceva soste in quel campo. In una seduta del 3 marzo del 1937 il Gran Consiglio del Fascismo fissava le direttive della politica demografica ispirandosi alle idee ripetutamente enunciate già da Mussolini ed in parte attuate. Decideva, tra l’altro, un’assoluta preferenza nei lavori e negli impieghi ai padri con numerosi figli, “poiché sulle famiglie numerose ricadono, in tempi eccezionali per la Patria, i pesi dei sacrifici e il maggior contributo di uomini”; una metodica politica del salario famigliare (a pari categoria di lavoro e a pari rendimento, reddito proporzionato agli oneri di famiglia); una revisione delle provvidenze demografiche in atto per imprimere loro un carattere più efficace ad assicurare stabilmente la vita delle famiglie numerose; l’istituzione di prestiti per matrimoni e di assicurazioni dotalizie per giovani lavoratori, già previste dalla Carta del Lavoro; la costituzione di una Associazione nazionale per le famiglie numerose; la revisione delle circoscrizioni provinciali e comunali in base ai risultati del censimento del 1941, sopprimendo Comuni e Province dove una popolazione invecchiata e rarefatta non avesse avuto più bisogno di pubblici istituti; la costituzione di un organo centrale di controllo e di propulsione della politica del Regime nel settore demografico. Queste direttive davano ragione dell’azione organica intrapresa dal Fascismo sin dai primi tempi. Le imposte di successione colpivano soltanto le trasmissioni dei beni in favore del figlio unico e fra gli sposi senza prole, mentre erano esenti da ogni tributo quelle che si riferivano a due o più figli (!). Non diversamente per le imposte, che erano notevolmente alleggerite o addirittura abolite (!) per le famiglie numerose. Nell’assegnazione dei case popolari la preferenza alle famiglie numerose era assoluta. Un po’ come oggi, quando ai richiedenti si preferisce un’altra cittadinanza o parametri impossibili.
Il celibato non era ben visto nella vita pubblica fascista. Infatti, i celibi fra i 25 e i 65 anni venivano colpiti da imposte personali e progressive, ed erano esclusi da numerosi uffici pubblici; non potevano, ad esempio, essere podestà, vicepodestà o consiglieri comunali, presidenti e vicepresidenti delle assemblee provinciali nonché consiglieri nazionali. Nelle amministrazioni dello Stato, i celibi non potevano essere promossi oltre un certo grado.
La difesa della famiglia era il fondamento della politica demografica, che, per essere veramente efficace, doveva favorire la formazione di nuovi nuclei. A questo miravano due istituzioni: i premi di nuzialità e di natalità e i prestiti famigliari. Questi provvedimenti interessavano una vastissima zona della popolazione: dipendenti statali, operai, impiegati privati, professionisti, artisti, piccoli proprietari, piccoli commercianti. Qualunque cittadino italiano, che avesse contratto matrimonio entro l’età stabilità (32 anni per gli ufficiali e gli impiegati, 30 per i salariati) poteva ottenere il premio di nuzialità, qualora fosse appartenuto alla numerosa classe dei dipendenti dello Stato, o il prestito famigliare, qualora non fosse appartenuto a tale classe e il suo reddito globale non avesse superato le 12.000 lire annue. La concessione dei prestiti famigliari, secondo le precise e categoriche disposizioni del Governo dell’epoca, doveva effettuarsi con la massima larghezza, a norma di una circolare ministeriale del 23 novembre del 1937.
La tutela del lavoratore è stata attuata secondo norme rigorosamente scientifiche. In linea pregiudiziale,moccorre segnalare l’umana preoccupazione di contenere il lavoro in termini fisiologici. In altre parole, si era voluto che la quantità di energia spesa nello sforzo quotidiano fosse subordinata a due condizioni. In primo luogo, che fosse in relazione all’età del soggetto; in secondo luogo, che potesse essere normalmente reintegrata con l’alimentazione e col riposo. Leggendo ora questi criteri faranno sorridere, ma per l’epoca si tratta di un’avanguardia assoluta.
Gli orari di lavoro sono stati oggetto di speciali provvedimenti. Nel 1933 l’Italia aderì alla Convenzione di Washington, che stabiliva la giornata di otto ore e la settimana di quarantotto. Successivamente, nell’intento di addivenire ad una più razionale distribuzione della manodopera, le Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori dell’industria firmavano una convenzione (5 novembre del 1934) che riduceva l’orario di lavoro entro il limite di quaranta ore settimanali; aboliva il lavoro straordinario; sostituiva, laddove fosse necessario e possibile, la manodopera femminile con quella maschile, la minorile con l’adulta; limitava nel campo impiegatizio il lavoro delle donne e dei fanciulli alle prestazioni ad essi più convenienti; sostituiva il personale appartenente alla categoria dei pensionati con i disoccupati (l’opposto di oggi, dove un pensionato deve lavorare fino alla morte); integrava il salario dei prestatori d’opera che lavoravano ad orario ridotto o che avessero una famiglia a carico, mediante la costituzione di una Cassa nazionale di integrazione per assegni famigliari. Il riposo settimanale era di ventiquattro ore consecutive, per la prima volta obbligatorio, e doveva, laddove non lo vietassero ragioni di forza maggiore essere praticato di domenica (anche in questo caso, l’opposto dei nostri giorni, viste le neo – tendenze “tecniche”). Un’apposita legge (26 aprile 1934) disciplinava il lavoro delle donne e dei fanciulli. Questi ultimi non potevano essere adibiti al lavoro dove non risultasse, in base a certificato medico, che non fossero sani ed idonei al lavoro; era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni in lavori pericolosi, faticosi ed insalubri; erano vietati il trasporto ed il sollevamento di pesi eccessivi. Egualmente vietato, nelle aziende industriali, era il lavoro notturno per tutte le donne e per i minori di 18 anni. Per quanto riguardava la durata del lavoro dei fanciulli e delle donne, la legge fissava a sei ore la durata massima senza interruzione.
Severamente tutelata era l’igiene del lavoro, in virtù del R.D. Del 14 aprile 1927. Chiunque intendesse “costruire, ampliare o adattare un edificio od un locale per adibirlo a lavorazioni industriali in cui debbano presumibilmente essere addetti più di cinque operai”, ne doveva dare notizia al competente Ispettorato corporativo (art. 40).
La tutela morale del lavoratore trovava una garanzia nel “Libretto del Lavoro”, istituito con la legge del 1° gennaio 1935. In quel documento venivano indicate e specificate tutte le condizioni del prestatore d’opera, compresi il grado di istruzione, l’idoneità al lavoro, la qualifica professionale, l’attività esplicata, l’ammontare delle retribuzioni, gli infortuni subiti, le malattie professionali contratte in servizio e la durata delle assenze conseguenti.
La condizioni dell’operaio italiano, dopo venti anni di Fascismo, erano grandemente migliorate, sotto ogni punto di vista. Innanzitutto, il suo suo salario medio era adeguato al costo della vita. Tuttavia, accanto al salario apparente, ne esisteva uno effettivo, che lo superava in maniera sensibile. Alla formazione del salario reale concorrono numerose prestazioni in natura e facilitazioni di ogni genere nei diversi servizi sociali. E proprio queste il regime ha curato maggiormente. Fra queste facilitazioni, alcune sono dei capolavori di genialità e di praticità. Ad esempio, il Dopolavoro, rappresentava una delle più belle ed originali creazioni del Fascismo. Veniva fondato da Mussolini nel maggio del 1925. L’enunciazione del suo programma era semplice e chiara, dovendo “promuovere la costituzione, il coordinamento e la propulsione di istituti atti ad elevare fisicamente, intellettualmente e moralmente i lavoratori intellettuali e manuali nelle ore libere”. Gli iscritti all’O.N.D. potevano contarsi nel 1942 in 4.612.294 persone e le organizzazioni dipendenti 23.362. La previdenza e l’assistenza ai lavoratori erano due capisaldi della Carta del Lavoro, che in quattro dichiarazioni (26, 27, 28, 29) ne precisava i fini e le modalità. Il Fascismo attuava nella maggior misura questi imperativi della solidarietà sociale. All’istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (per chi non intendesse, l’odierno I.N.P.S., vivo e vegeto, senza la “f” di fascista) venivano affidate l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, l’assicurazione obbligatoria per la maternità, la previdenza per la gente di mare. Le legge riguardante l’invalidità e la vecchiaia dei lavoratori veniva riformata nel 1939, in occasione del ventennale del Fascismo. “Intendo – dichiarava il Duce – che la celebrazione del primo ventennale del Fascismo coincida con un forte passo innanzi sulla strada della legislazione sociale, accorciatrice delle distanze”.
L’assicurazione si estendeva a tutti coloro che lavoravano alle dipendenze di altri, esclusi gli impiegati il cui stipendio mensile avesse superato le 1500 lire. Essa comprendeva, quindi, i lavoratori salariati senza limite di guadagno e i piccoli impiegati appartenenti all’industria, al commercio, ai servizi pubblici, all’agricoltura (esclusi i mezzadri e i piccoli affittuari) e ai servizi domestici. Per volere del Duce il limite di età per le pensioni veniva abbassato da 65 a 60 anni per gli uomini (per alcune categorie 55), da 60 a 55 per le donne. Lo annotino “i tecnici”, gentilmente! Contrariamente a quanto era stabilito nelle legislazioni straniere, la pensione alla vedova non era condizionata né al requisito di una data età raggiunta, né al requisito dell’incapacità di lavoro. L’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia e per i superstiti acquistava, così, uno stretto carattere di assicurazione di famiglia.
Di fronte al problema della disoccupazione involontaria, il Fascismo ha scelto direttive di marcia differenti da quelle degli altri paesi. Ha contenuto in limiti modesti il sussidio di disoccupazione. Con ciò ha voluto impedire che potesse venire, in pratica, un comodo surrogato del salario. Nel campo agricolo la disoccupazione che non beneficiava dell’assicurazione obbligatoria, è stata efficacemente combattuta mediante una severa distribuzione della manodopera, imponente alla proprietà fondiaria di assumere dei lavoratori in proporzione all’estensione dei terreni.
Ma è nella lotta contro la tubercolosi, dimenticata dalla storiografia, che il Fascismo ha attuato i suoi principi totalitari. La Carta del Lavoro, nella Dichiarazione XXVII, aveva nettamente enunciato il programma, disponendo “l’assicurazione della malattie professionali e della tubercolosi come avviamento all’assicurazione generale contro tutte le malattie”. Il problema si presentava come uno dei più gravi. V’erano gli aspetti profilattico, organizzativo e finanziario. Il Regime l’ha affrontato risolutamente e con metodo. Ha deciso, innanzitutto, l’assicurazione obbligatoria. Nel 1942 erano di fatto assicurati circa otto milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e delle altre categorie professionali.; ma l’assicurazione avrebbe mancato al suo scopo se non avesse incluso nella sua sfera d’azione anche i famigliari degli assicurati. Raggiungeva così, i quindici milioni il numero delle persone tutelate contro la tubercolosi dall’ordinamento assicurativo. Sono da aggiungere 400 mila famiglie mezzadrili e coloniche – con un complesso di tre milioni di componenti – i maestri delle scuole elementari e i direttori didattici.
Nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il Fascismo ha capovolto il tradizionale concetto del risarcimento, riguardato unicamente come riparazione del danno individuale. Secondo la sua concezione, il risarcimento è uno dei momenti, e nemmeno il più saliente, dell’intero processo riparatore dell’unità lavorativa, innestata nel grande quadro delle forze produttive della Nazione. Esso chiudeva un trentennio di sterili discussioni e riconosceva nettamente “l’identità sostanziale” di una causa lesiva concentrata (infortunio) e di una causa lesiva diluita nel tempo (malattia professionale). Ha pertanto ammesso la necessità di risarcire anche l’usura e il deperimento lenti, dovuti, al pari della lesione istantanea, a particolari influenze del ciclo produttivo.
Fin dal suo sorgere, il Fascismo poneva al primo piano il problema della mutualità per le malattie. La Carta del Lavoro, nella Dichiarazione XXVIII stabiliva che “nei contratti collettivi di lavoro sarà decisa, quando sia tecnicamente possibile, la costituzione di Casse mutue per malattia, con contributo dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera, da amministrarsi da rappresentati degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi”.
I lavoratori iscritti alle Casse mutue nel settore industriale, superavano, nel 1942, i tre milioni e i loro famigliari assommavano a cinque milioni. Ma è nell’agricoltura che si manifestava la più intensa attività assistenziale. Alla fine del 1939 u lavoratori agricoli ed i loro famigliari iscritti alle Casse mutue toccavano la cifra di oltre sette milioni. I contributi riscossi superavano i 109 milioni contro i 50 dell’anno precedente. Nel luglio del 1936 l’assicurazione obbligatoria di maternità, già in vigore per le lavoratrici dell’industria e del commercio, veniva estesa a tutte le categorie addette ai lavori agricoli, compresi fra i 55 e i 60 anni di età.
Quest’opera che possiamo definire imponente di assistenza e solidarietà sociale ha comportato l’erogazione di somme imponenti. Tuttavia non c’era nessuno “spread” a fare da ricatto. Durante i venti anni del Regime le somme erogate per invalidità e vecchiaia, tubercolosi, disoccupazione, nuzialità e natalità, assegni famigliari, trattamenti degli impiegati privati richiamati alle armi, trattamenti operai dell’industria richiamati, integrazione guadagni operai industria lavoranti ad orario ridotto, prestiti matrimoniali, hanno toccato la cifra di 25 miliardi, 896 milioni e 787.962 lire. Per la mutualità malattie sono stati erogati 3 miliardi, 841 milioni e 6321.462 lire. Per le assicurazioni infortuni 4 miliardi, 413 milioni e 114.486 lire. La differenza tra i fondi, in una nazione che all’epoca era più povera forse di oggi, e la nostra, è forse la BCE? Il FMI?
Questo grandioso programma di legislazione sociale non esaurisce l’opera spiegata dal Regime solo nella solidarietà nazionale. La bonifica integrale, l’autarchia, la Carta della Scuola, l’organizzazione giovanile, le opere pubbliche, la colonizzazione della Libia (volenti o dolenti), la riforma dei Codici, sono altrettanti aspetti di quell’azione, vasta e profonda, che Mussolini ha voluto, indicato ed attuato per il rinnovamento e la prosperità dell’Italia. E ciò non si è fermato al Fascismo Regime, bensì è continuato durante la Repubblica Sociale Italia, le cui conquiste sociali sono spiegate molto spesso ed in maniera eccellente da Maurizio Barozzi.
Bertinotti, tecnici vari, tecnocrati, mi auguro che possiate leggere. Tacere ed ammirare.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=14296
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