domenica 29 luglio 2012

COME SIAMO ARRIVATI COSI’ IN BASSO

Il confronto non può convincere se non si dispone di un minimo di mezzi di comunicazione. Filippo Giannini.

La Nota di Maurizio Barozzi
 
Ottimo, preciso e correttamente rievocativo questo articolo di Filippo Giannini, su come il fascismo sconfisse la Mafia. Ne consigliamo la lettura.
Da parte nostra vorremmo aggiungere un particolare fondamentale: il fascismo mise fuori gioco la Mafia non tanto e non solo con la mano pesante del prefetto Mori, ma soprattutto con i dettami dello Stato fascista e della conduzione governativa dirigenziale di Mussolini, laddove era fondamentale il presupposto che per lo Stato fascista gli aspetti etici e politici prevalessero su quelli economici e finanziari, mentre il fondamento ideologico era: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato e soprattutto niente contro lo Stato».
Sono solo queste le uniche condizioni che rendono impossibile la vita alla Mafia, come del resto alla Massoneria (due poteri, non a caso, spesso associati tra loro).



IL CONFRONTO NON PUO’ CONVINCERE SE NON SI DISPONE DI UN MINIMO DI MEZZI DI COMUNICAZIONE
di Filippo Giannini
  
   Mussolini approdò in Sicilia, a Palermo il 6 maggio 1924. Era in programma una visita ufficiale di quindici giorni. Da continentale aveva una visione vaga della mafia, ma ben presto la sua conoscenza su quel fenomeno si sarebbe approfondita.
   Accompagnato in auto, a Piana degli Albanesi, dal sindaco di quella cittadina, Francesco Cuccia, detto don Ciccio, che ostentava sul petto la Croce di Cavaliere del Regno, pur essendo stato chiamato in giudizio per omicidio in otto processi, tutti risolti per insufficienza di prove, Mussolini avvertì un certo imbarazzo per il comportamento del notabile seduto al suo fianco.
   Don Ciccio, osservato che il suo ospite era seguito da alcuni agenti, confidenzialmente diede un colpetto sul braccio di Mussolini e, ammiccando, gli disse: “Perché vi portate dietro gli sbirri? Vossia è con me. Nulla deve temere!”. Mussolini non rispose, ordinò di fermare la macchina e di far ritorno a Palermo.
   Il giorno dopo ad Agrigento parlò ai siciliani e fu una dichiarazione di guerra alla mafia: “Voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l’incolumità dei cittadini che lavorano. Ebbene vi dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini dai delitti dei criminali. Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra”.
   Mussolini rientrò a Roma il 12 maggio e il giorno dopo convocò i ministri De Bono e Federzoni e il capo della polizia Moncada e chiese ad essi il nome di un uomo idoneo a battere il fenomeno malavitoso siciliano (da “Benito Mussolini nell’Italia dei miracoli”). Il prescelto era Cesare Mori che per la lotta alla mafia si avvalse della preziosissima collaborazione del maresciallo Spanò.
   In pochi anni la mafia venne stroncata, al punto che i così detti Pezzi da 90 furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trovarono fertile terreno. Purtroppo il fenomeno mafioso fu stroncato, ma non le sue radici, come vedremo.
   A questo punto, e per completare gli antefatti del come “siamo caduti così in basso”, dobbiamo andare  con la mente allo sbarco dei liberatori in Sicilia, ed esaminare, anche se sommariamente, il notevole apporto dato dalla mafia siculo-americana alla riuscita dell’operazione dei gangsters d’oltre oceano. Quanto segue è ripreso dal mio volume Dal 25 luglio a Piazzale Loreto.
   E’ noto che la Sicilia – più di ogni altra regione italiana – manteneva da decenni stretti legami con gli Stati Uniti, data la notevole emigrazione di siciliani in quel Paese.
   L’apporto della mafia americana alla riuscita dello sbarco in Sicilia è sempre stato minimizzato, o addirittura negato, dalle autorità storiche alleate; ma la documentazione in merito è così ricca da contestare l’assunto; e ciò è comprensibile, dato che fu una delle tante pagine vergognose dell’intera vicenda.
   I primi contatti con la malavita americana non riguardarono l’operazione “Husky” (così fu indicato lo sbarco in Sicilia), vanno ricercati nell’individuare dei battelli, battenti bandiera americana, che navigavano in Atlantico, e che sin dai primi mesi del 1942 rifornivano di nafta, a peso d’oro, i sommergibili tedeschi che, prolungandone le missioni in mare, facevano strage di navi mercantili alleate. Per dar la caccia a questi “fornitori”, che si supponeva appartenessero all’organizzazione mafiosa, il “Naval Intelligence”, nella veste del comandante Radcliffe Haffenden, prese contatto con Giuseppe Lanza, di origine siciliana e capo del mercato del pesce che, coinvolgendo altri personaggi, fece sapere che se si voleva stroncare la rete dei battelli atlantici, il personaggio all’uopo indicato era Luky Luciano. Dopo qualche tentennamento il “Naval Intelligence” inviò due alti ufficiali della Marina U.S.A. ad incontrare Moses Polakoff, avvocato del gangster, e tutti insieme si recarono nel carcere per un colloquio con l’influente detenuto. Questo ottenne la revisione del processo che poi risulterà essere la strada per il suo definitivo rientro, da uomo libero, in Italia. Lucky Luciano fornì le informazioni necessarie, tanto che, in poche settimane, la Marina americana riuscì a sgominare la rete che alimentava i sommergibili tedeschi.
   Così, quando verso la fine del 1942 maturò l’idea di uno sbarco in Sicilia, Haffenden si rivolse di nuovo a Luciano. Questi chiese di essere messo in contatto con i suoi “colleghi” Joe Adonis e Franck Costello, nonché Vito Genovese e altri; tutti insieme questi “gentiluomini”, tramite oscure ramificazioni che erano sopravvissute ai duri colpi inflitti dal prefetto Mori, e tra questi Calogero Vizzini, indiscusso capo della mafia siciliana, si attivarono per favorire il programma predisposto dal controspionaggio americano. Vizzini garantì alloggi e assistenza ad alcune centinaia di agenti americani paracadutati o sbarcati nell’isola e fornì loro informazioni militari di tale importanza che questi agenti, la notte dello sbarco, riuscirono ad uccidere la maggior parte delle sentinelle che vigilavano sui centri di comunicazione e di direzione delle artiglierie costiere.
Una delle funzioni di Adonis era identificare e reclutare italo-americani con collegamenti in Sicilia. Nel maggio 1943 fu creata la “Sezione F” che aveva il compito di radunare e selezionare la massa di dati che venivano raccolti. Sempre in quel mese l’ammiraglio Hewit scoprì che non aveva ufficiali che parlassero italiano. Hewit contattò prontamente Washington, chiedendo che gli venissero forniti ufficiali qualificati per questo compito. La richiesta fu accolta e vennero selezionati quattro ufficiali in possesso delle qualifiche richieste. Questi fecero parte della prima ondata di sbarco e presero terra nella fascia tra Gela e Licata. La loro missione consisteva nel raccogliere informazioni sui campi minati e sui depositi militari dell’Asse.
Al momento dello sbarco gli ufficiali americani della “Sezione F” erano in possesso di un elenco di personaggi siciliani fornito dalla mafia di New York. La maggior parte dei nomi dell’elenco risultarono essere personaggi della malavita siciliana, come a guerra finita testimoniò uno degli ufficiali: il tenente Paul A. Alfieri.
   Ė opportuno citare almeno l’opera disgregatrice effettuata dai gruppi di separatisti guidati da Finocchiaro Aprile. Questi poteva contare sull’aiuto di personalità della nobiltà terriera siciliana che notoriamente aveva, sin dai tempi di Nelson, forti legami con l’Inghileterra. Questi gruppi antifascisti operarono dal 1942 con una serie di sabotaggi, il più notevole dei quali fu condotto contro l’aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca.
   Lo stesso clero siciliano – o almeno la maggior parte di esso – non fu secondo nell’opera di disgregazione morale e di aiuto alle iniziative alleate tese a svilire lo spirito combattivo dei militari.
   Se fino all’autunno del 1942 le intenzioni degli strateghi angloamericani erano distanti dal solo esaminare la possibilità di un attacco alla Sicilia, in quanto gli italiani, a detta di Alexander e di Montgomery, si erano battuti bene in Africa, a maggior ragione, ritenevano,  avrebbero difeso con più forte motivazione il proprio territorio. E questo era sostenuto anche dalla stampa internazionale. Ma ciò che, a nostro avviso, convinse ancor più gli Alleati che la Sicilia era un obiettivo invitante, e dai rischi strettamente militari relativamente circoscritti, era il fatto che “Supermarina” già da alcuni mesi (esattamente dal 6 dicembre 1942) aveva spostato la ancora temibilissima flotta italiana dai porti del sud Italia a quelli, ben più distanti, al nord. La motivazione era di allontanarla da facili offese aeree. E’ un fatto che gli alleati, dopo l’occupazione del nord Africa, pur disponendo, quindi, di basi aeree tali da portare attacchi in qualsiasi area del bacino del Mediterraneo, non sganciarono alcuna bomba sulla flotta italiana.
   Solo lo sviluppo delle situazioni sopra riportate convinse Churchill e Roosevelt che la Sicilia era un obiettivo appetibile perché di rischi limitati: anche se, poi, le cose non andarono esattamente come gli angloamericani si aspettavano.
Le responsabilità dei personaggi incontrati in questo capitolo furono notevoli, perché senza le loro manovre la guerra si sarebbe decisa altrove, non avrebbe devastato il nostro Paese e non avremmo subito l’8 settembre con tutto ciò che quella data ancor oggi rappresenta.
   L’invasione della Sicilia venne preceduta da mesi di terrorismo aereo, coinvolgendo in questa operazione città piccole e grandi. Scrive Antonio Falcone (“StoriaVerità”, N° 22): I bombardamenti a tappeto subiti da Messina furono di tale intensità che alla fine non restava più da bombardare che le macerie, cosa che gli alleati continuarono a fare con particolare accanimento. Palermo arrivò a subire ben dodici incursioni nello spazio di 120 minuti: le “fortezze volanti” si succedevano in formazioni di 50 per volta e aravano la città in lungo e in largo scaricando a casaccio tonnellate di esplosivo. Nei primi di luglio le incursioni diventarono ininterrotte, con il bombardamento contemporaneo di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Agrigento, Trapani, Augusta ed altri centri. Poi fu la volta dei centri minori, e poi anche quella dei villaggi e persino delle campagne, dove gli incursori si divertivano a mitragliare perfino i contadini intenti ai lavori. Il giorno e la notte precedenti lo sbarco, l’offensiva raggiunse il massimo di intensità, tanto che i pochissimi aerei italiani ancora in grado di combattere riuscirono ad abbattere 58 apparecchi nemici in 48 ore. Come racconterà poi uno di questi ultimi difensori del cielo siciliano, le formazioni nemiche erano così massicce che bastava sparare nel mucchio, alla cieca, per essere sicuri di colpire. Al momento dello sbarco, l’isola era dunque completamente disarticolata>.
Veniva messa in pratica anche in Sicilia quella “metodologia” studiata nei dipartimenti di Buchinghamshire, procedura da adottare per la distruzione delle città nemiche. L’insediamento avvenne nel marzo 1940: il Quartier Generale del “Bomber Command”, costituitosi ufficialmente sin dal 14 giugno 1936 presso Uxbridge. Uno degli organizzatori della nuova tecnica di guerra fu il già ricordato Sir Arthur Harris, tristemente definito proprio dai suoi “the Butcher”, cioé “il macellaio”.
   Fu proprio sulla Sicilia che vennero usate, verso la fine del 1942, le prime bombe “block-buster” da 8.000 libre. Oltre alla morte che proveniva dal cielo, si doveva lamentare la quasi totale distruzione degli impianti, delle comunicazioni, della rete stradale e ferroviaria e, di conseguenza, i rifornimenti dal continente si ridussero vicino allo zero e l’amministrazione militare dovette provvedere a sfamare i civili. Edda Ciano, la figlia del Duce, in quel momento si trovava in Sicilia quale crocerossina e scrisse una lunga lettera al padre evidenziando le spaventose carenze alimentari, mediche alle quali erano sottoposti i siciliani che, a suo dire, si comportavano ugualmente con coraggio di fronte ai bombardamenti.
Lo scopo della “guerra totale” si stava raggiungendo in quanto la popolazione esausta, affamata, attendeva l’arrivo degli invasori come la fine di un incubo, come una “liberazione”.
Quanto sopra riportato è confermato dai verbali segreti riguardanti una riunione presieduta da Hitler del 20 maggio 1943; riunione a cui parteciparono von Keitel, Rommel, Neurath e parecchi altri alti ufficiali; il manoscritto della riunione è custodito nella biblioteca dell’Università della Pennsylvania. Hitler chiede notizie sulla situazione in Sicilia a Neurath e questi risponde: “Sì, mio Führer, ci sono stato e ho parlato col generale Roatta (in quel momento comandante della 6° armata italiana in Sicilia, nda). Tra l’altro Roatta mi ha detto di non aver troppa fiducia nella difesa della Sicilia. Ha sostenuto d’essere troppo debole e di avere truppe male equipaggiate. Soprattutto ha una sola divisione motorizzata; le altre sono fisse. Ogni giorno gli inglesi fanno del loro meglio per bombardare le locomotive delle ferrovie siciliane, perché sanno benissimo che è quasi impossibile portare materiale per sostituirle o ripararle, quando non sia impossibile del tutto (…). Delle navi traghetto – credo che ce ne fossero sei -  n’è rimasta soltanto una (…)”.
   In questa situazione, appena sufficientemente tracciata, il 10 luglio 1943 le forze alleate mettevano piede sull’isola. Per la precisione, i primi a toccare terra furono gli uomini di una Brigata aerotrasportata britannica e un reggimento di paracadutisti americani dell’82° Divisione partiti da Tunisi. Quest’operazione si sviluppò la sera  del 9 luglio, cioè sette ore prima degli sbarchi; l’intento era di prendere alle spalle le difese costiere italiane. L’operazione risultò disastrosa per gli alleati: 61 velivoli vennero abbattuti (alcuni addirittura dal “fuoco amico”), altri dovettero rientrare alle basi o andarono dispersi. Solo dodici alianti britannici e circa duecento paracadutisti americani poterono prender terra nei punti stabiliti. Ma la maggior parte di essi venne catturata.
   La mattina del 10 luglio, improvvisamente, la battaglia divampò sul mare, nel cielo, e nella striscia di territorio costiero corrispondente all’angolo sud-orientale della Sicilia, tra Licata e Augusta


    Che la tensione nervosa e il timore dell’ignoto degli invasori fossero elevati è l’unica giustificazione che si può concedere per le atrocità messe in atto sin dai primi momenti degli sbarchi.
   Si deve ad un paracadutista americano l’aver portato a termine la prima “operazione bellica”: toccata terra nella campagna di Vittoria (Ragusa), pugnalò un pastore accanto alle sue pecore.    Questo non fu che l’inizio delle efferatezze compiute dalle forze Alleate – come documenteremo nel corso di questo volume – ricordandone le più eclatanti, anche se poco o affatto conosciute.
    Il maestro Rocco Tignino di Licata, ben noto nel paese per il suo antifascismo, capì subito che se gli americani entravano nel paese la guerra era finita. Il maestro esce sul balcone esultante e per tre volte urla: viva la libertà. Una raffica di mitra, sparata dagli americani, lo fulmina all’istante.
   Il podestà di Biscari Salvatore Mangano, suo figlio Valerio, studente liceale, il fratello Ernesto, ufficiale medico in licenza dal fronte russo, decisero di portare le proprie donne lontano dalla zona di sbarco e di combattimento. Il prefetto indossava la divisa delle autorità fasciste per facilitare . Tutti presero posto nella “Balilla” di proprietà del prefetto e si avviarono a Modica, piccolo centro in provincia di Ragusa. . Gli americani fecero scendere gli occupanti; gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Benché disarmati furono fucilati sia il Podestà che il figlio Valerio.   e gratuita morte del padre. Raccontano anche che sia stato trovato abbracciato al padre col volto imberbe sfregiato da un’arma da taglio (forse un colpo di baionetta)”. Certamente anche il capitano medico Ernesto Mangano venne ucciso “insieme a parecchi altri “ritenuti pericolosi””, in quanto “di lui non si ebbero mai più notizie”.
   Carlo D’Este, nome italiano di un ufficiale americano, autore del libro “1943: lo sbarco in Sicilia”, scrive che la difesa italo-tedesca fu costretta ad arretrare e a concentrarsi intorno agli aeroporti di Comiso e Biscari. Alla difesa partecipavano soprattutto i militari della “Livorno” e reparti della 219° Divisione Costiera. L’attacco era portato dagli americani della 45° Divisione, comandata dal generale Patton, e in particolare su Biscari operavano i fanti del 180° Reggimento. Carlo D’Este a pagina 254 e seguenti scrive: “La lotta prolungata per la conquista del campo d’aviazione di Biscari diede origine al primo ripugnante incidente della campagna. In due episodi separati, settantatre prigionieri di guerra italiani, furono massacrati da un capitano e da un sergente del 180° Reggimento della 45° Divisione. Gli scontri, che erano iniziati il giorno D tra le due forze avversarie, si erano fatti accaniti intorno alla strada provinciale 115. Prima dell’invasione, Patton aveva parlato personalmente all’intera divisione e aveva avvertito le sue truppe di ciò che le aspettava in Sicilia: (dalla documentazione che più avanti presenteremo, Patton) ammonì (i suoi uomini, nda) di fare molta attenzione nei casi in cui i tedeschi o gli italiani avessero alzato le mani mostrando l’intenzione di arrendersi. Affermò che qualche volta il nemico si comportava in quel modo per far abbassare la guardia ai soldati. Patton avvertì i membri della 45° Divisione di stare attenti a quell’insidia e di ‘uccidere quei figli di puttana’, a meno che non fossero certi della loro reale intenzione di arrendersi””. Da parte sua il colonnello Federeck E. Coockson, della 180°, affermò che le parole del generale Patton bisognava interpretarle nel giusto significato: killers e che durante i combattimenti non dovevamo prendere prigionieri>.
   Continua D’Este: <Vicino all’aeroporto di Biscari, il 14 luglio una forza di fanteria incominciò a essere bersagliata dall’artiglieria pesante e dal fuoco dei tiratori scelti. Durante lo scontro che ne seguì dodici uomini furono feriti dalle granate prima che la piccola forza nemica si arrendesse. Risultò che si trattava di un gruppo di trentasei italiani, parecchi dei quali indossavano abiti civili. Il comandante della compagnia di fanteria ordinò di uccidere i prigionieri, al che essi furono allineati sull’orlo di una vicina fossa e giustiziati da un plotone di fanteria. Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi>. Un sottufficiale americano ricevette l’ordine di scortare i prigionieri nelle retrovie per essere interrogati. “Dopo circa un chilometro e mezzo di strada il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei “figli di puttana”, il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente eliminò gli sventurati italiani”.
   Gli ispiratori e gli autori di questo massacro furono, oltre al generale Patton, il capitano Jhon T. Campton che impartì l’ordine, e il sergente Horace T. West che l’eseguì. Lo stesso sergente West, nel corso del giudizio, affermò “che nel corso del trasbordo, fecero ricorso all’uso di droghe”. Lo stesso sergente, sempre nel corso dell’inchiesta, fra l’altro disse: “Sin dai primi combattimenti, ebbe l’impressione che i soldati tedeschi fossero molto crudeli; ma non da meno furono i soldati americani che, alle prime case che visitarono, rastrellarono e rubarono tutto ciò che era commestibile e violentarono le donne che vi vivevano, alla presenza dei bambini”.
I due episodi non passarono inosservati e il generale Omar Nelson Bradley, comandante del Secondo Corpo d’Armata, ordinò che gli autori fossero immediatamente deferiti alla Corte Marziale, con l’accusa di “premeditato assassinio di 84 prigionieri di guerra”.
La Corte Marziale a fine agosto 1943 sentenziò la non colpevolezza del generale Patton e del capitano Campton; mentre il sergente West fu condannato all’ergastolo. Dopo un anno di prigione,  la condanna del sergente fu commutata in servizio di prima linea. Il capitano Campton, ripreso servizio, morì durante un’azione di guerra.
   E non abbiamo accennato alle prodezze dei marocchini del generale francese Alphonse Juin, o delle americanate compiute a Pantelleria o a Castelnuovo delle Marche, o la teoria del Moral Bomber. E – a proposito – quando si parlerà dei barili di gas nervino (made in Usa) che ancora, pericolosissamente, giacciono sul fondale di Bari?
   Ne riparleremo!
   Dopo essere stati liberati e soggiogati da cotanti manigoldi e essere ancora sottomessi al loro america way of living, ci chiediamo ancora COME SIAMO CADUTI COSI’ IN BASSO?
   Nel 2002 mi recai in Sicilia nelle zone dove avvennero i fatti. Raccolsi varie testimonianze e al ritorno, per accrescere la documentazione scrissi  al Department of the Army di Arlington in Usa, al quale chiesi tutta la documentazione del caso. In data 8 ottobre 2002 il Dipartimento mi inviò quanto richiesto, cioè il processo a carico degli autori del massacro. Il tutto, tradotto in italiano, è contenuto in appendice nel mio volume sopra citato.

Termino questo articolo oggi, 27 luglio 2012, quando hanno inizio le olimpiadi. Solo per curiosità: quanti sanno che nelle Olimpiadi del 1932 l’Italia Fascista nel medagliere fu seconda solo dietro agli Stati Uniti e nel 1936 si piazzò terza?

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