venerdì 24 giugno 2011

La cosiddetta repubblica partenopea




di Ubaldo Sterlicchio


«Unica ed indivisa la Repubblica Napoletana:

comincia a Posillipo e finisce a Porta Capuana»

Nel 1799, una sparuta minoranza di collaborazionisti (i giacobini napoletani) favorì l’invasione francese, macchiandosi dei gravissimi crimini di “alto tradimento” e di “intelligenza con il nemico”, commessi contro il proprio Popolo e la propria Patria.

I giacobini napoletani, infatti, con l’appoggio delle truppe straniere ed attraverso un “colpo di stato”, instaurarono a Napoli, contro la volontà popolare, una feroce dittatura oligarchica, impropriamente denominata “repubblica” partenopea.

Il giorno 13 gennaio 1799, decine di migliaia di popolani napoletani (i cc.dd. “lazzari”), presero il controllo della città, pronti a combattere fino alla fine contro i francesi invasori ed i giacobini locali; questi ultimi furono costretti a rinchiudersi nelle fortezze della capitale.

Quando il generale Jean Antoine Championnet, comandante in capo dell’Armata francese, decise di attaccare Napoli, i lazzari iniziarono un'eroica quanto impossibile resistenza, che durò fino al giorno 23.

Nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre l’intera città di Napoli combatteva e moriva contro le truppe straniere, i giacobini, asserragliatisi in Castel Sant’Elmo, cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo (come testimoniò lo stesso summenzionato generale francese in un dispaccio inviato al Direttorio di Parigi), provocando un bagno di sangue fra la propria gente.

Benché fossero bersagliati alle spalle dai giacobini, attaccati dall’alto e dal basso dagli studenti sedicenti “democratici” e falciati dalle cariche francesi, i “veri patrioti napoletani“ combatterono con eroico ardimento al Ponte della Maddalena, a Porta Capuana ed a Capodimonte.

Alla fine Championnet prese la città; ma occorsero, per venire a capo della resistenza popolare, tre contingenti di militari francesi e si dovette ricorrere alla mostruosità di dare fuoco alle case del popolo per far venire fuori la gente e fucilarla sul posto.

Nei tre giorni di resistenza, persero la vita ben 10.000 napoletani e più di 1.000 francesi.

Lo stesso generale si rese conto che, senza l’aiuto dei repubblicani napoletani, egli non sarebbe potuto entrare così presto nella capitale, e forse non vi sarebbe entrato mai.

La c.d. repubblica partenopea fu, pertanto, il frutto di una conquista straniera e l’esercito francese di occupazione fu il suo unico sostegno.

Migliaia di valorosi napoletani di ogni estrazione sociale morirono per difendere la loro terra, la loro Patria; tuttavia, sui loro nomi (Michele Pezza detto Fra’ Diavolo, Luigi Brandi, Giuseppe Pronio, Vito Nunziante, Sciarpa, Panedigrano e tanti altri) è calato l’oblio ed oggi si commemora ancora con grande enfasi la nascita della c.d. repubblica partenopea, imposta manu militari dalle truppe di occupazione francesi e caldeggiata da una esigua minoranza di collaborazionisti.

Con l’insorgenza popolare, e fino alla riconquista di Napoli da parte del Cardinale Ruffo (vale a dire nei soli 5 mesi della c.d. repubblica!), furono massacrati più di 60.000 regnicoli, come testimoniò il generale francese Paul Thiébault nelle sue Memorie. Infatti, le truci rappresaglie commesse dalle truppe franco-giacobine contro le popolazioni inermi del Sud provocarono, oltre ai già ricordati 10.000 morti napoletani nella sola settimana della rivolta dei lazzari, 1.300 vittime ad Isola Liri e dintorni; la devastazione di Itri e di Castelforte; 1.200 morti a Minturno in gennaio, più altri 800 in aprile; il massacro di tutti gli abitanti della cittadina di Castellonorato; 1.500 persone furono passate a fil di spada nella sola Isernia; 700 nella zona di Rieti; 700 a Guardiagrele; 4.000 ad Andria; 2.000 a Trani; 3.000 a San Severo; 800 a Carbonara; tutta la popolazione a Ceglie.

Inoltre, il 23 marzo 1799, 200 prigionieri napoletani furono ammazzati dai francesi, nei dintorni di Chieti, per evitare il fastidio di doverli trasportare fino a Napoli.

Le chiese furono saccheggiate, le Ostie consacrate sparse per terra: il disprezzo per la fede religiosa delle popolazioni italiane era infatti sempre presente nella truppaglia francese.

Lo stesso 23 marzo 1799, a L’Aquila, gli invasori depredarono la chiesa di San Berardino, spargendo per terra le spoglie del Santo ed ammazzando ben 27 frati più tanta gente che si trovava in chiesa, circa un centinaio di persone.

Il Regno di Napoli subì quindi la spietata occupazione straniera; i giacobini napoletani istituirono un antidemocratico governo fantoccio che, per ironia della sorte, non fu riconosciuto neanche dalla stessa Francia.

Le truppe francesi si autodefinirono falsamente “liberatrici” ed i giacobini si ritennero “patrioti”, sostenendo che la rivoluzione era a favore del popolo, per risollevarlo dalla sua miserrima condizione; intanto, però, ne fomentarono la strage, ritenendo che la felicità vada imposta dalle menti elette al prezzo di un bagno di sangue.

Gli invasori francesi imposero anche un’indennità di guerra di complessivi 17 milioni e mezzo di ducati (oltre mezzo miliardo di euro attuali): due milioni e mezzo alla città di Napoli e quindici milioni alle province, indennità che dovevano essere pagate entro due mesi; questo denaro fu raccolto dai collaborazionisti giacobini imponendo al popolo pesantissime tasse. Quelli che non potevano pagare in denaro dovevano portare i loro gioielli ed il loro argento che sarebbero stati stimati da agenti accreditati; molti furono imprigionati o multati col sequestro dei loro possedimenti per una somma doppia di quella che dovevano. «Noi tassiamo anche le opinioni» fece osservare un “democratico” agente addetto alla riscossione ad una signora il cui marito aveva seguito il Re in Sicilia.

I Francesi avevano solo brama di saccheggio e razziarono quanto potettero: tutti i beni pubblici furono dichiarati proprietà della Repubblica francese; confiscarono i Banchi, i depositi di danaro di privati, i beni dei conventi e dei proprietari assenti, le proprietà della Corona, i fondi dell’Ordine Costantiniano, le fabbriche di porcellane di Capodimonte e perfino le antichità degli scavi di Pompei e di Ercolano. Tutto fu fatto, ovviamente, con il beneplacito del governo c.d. repubblicano partenopeo.

Furono quindi trasferite in Francia migliaia di opere d’arte di inestimabile valore.

Una canzone popolare riassunse così la situazione:

«E’ venuto lo Francese

cu’ ‘nu mazzo di carte immano:

Liberté, Egalité, Fraternité,

tu rubbi a me, io rubbo a tte»

e mai, come in questo caso, risultò appropriato il proverbio latino: «vox populi vox Dei».

Altro che liberare i popoli oppressi dalla tirannide ed esportare, dalla sorella repubblica francese in Italia, i democratici valori di Liberté, Egalité, Fraternité.

E’ bene tener presente che, nelle Due Sicilie del ‘700, la maggior parte delle persone colte seguiva il pensiero politico dell’Illuminismo con animo moderato; si pensava più ad una monarchia costituzionale che ad una repubblica. D’altra parte, il disagio materiale della plebe duosiciliana non era così grave come quella francese; non c’erano quindi le condizioni per uno stato insurrezionale, come ben dimostrarono i fatti del 1799 (e, successivamente, del 1820, del 1848 e del 1860). Lo spirito popolare era “borbonico”: le masse ed i loro sovrani consideravano i loquacissimi intellettuali come dei demagoghi, dei pescatori nel torbido. E poi, come avrebbe potuto un popolo, con una tradizione monarchica di ben sette secoli, ormai facente parte del suo DNA, accettare dalla sera alla mattina la repubblica?

Nel 1799 quegli intellettuali, invece, rinunciarono ad un elemento basilare e peculiare dell’Illuminismo napoletano: l’originalità, l’essere precursori e propulsori. Con l’arrivo dei francesi, iniziò la fase dei “liberatori” cui spalancare le porte e con cui collaborare in posizione gregaria. Questo atteggiamento si stabilizzerà nell’800 dei “paglietti” e resterà presente fino ai nostri giorni con i politici meridionali, incapaci di strategie e politiche originali.

In un dispaccio del 21 gennaio 1799 inviato dai giacobini napoletani allo Championnet, al fine di invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo scritto: «Non la Nazione, ma il Popolo è nemico dei francesi». Il fare una distinzione fra la categoria di “Nazione” e quella di “Popolo”, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine di giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni di individui di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta essere una testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche della loro utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il popolo, atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e luogo. Noi, più semplicemente ed obbiettivamente, riteniamo che debba chiamarsi “patriota” colui che difende la propria Patria dall’invasione straniera, anche a costo del sacrificio della propria vita.

Eppure, a distanza di due secoli, nel 1999, il Parlamento della Repubblica Italiana stanziò (rectius, sperperò!) ben 8 miliardi di lire per le celebrazioni di quella effimera repubblica giacobina di servi!

Ed è estremamente significativo che, mentre negli altri paesi europei si festeggiano ancora oggi le ricorrenze storiche che ricordano le battaglie vinte contro Napoleone e si venerano come eroi coloro che impugnarono le armi e sacrificarono la propria vita combattendo l’invasore francese, in Italia, al contrario, si spende denaro pubblico per festeggiare la “rivoluzione napoletana”, che dagli storici più attenti è stata definita, nel migliore dei casi, una “rivoluzione passiva”, cioè imposta dall’esterno e non maturata nella stessa società. Si esaltano, nel contempo, personaggi che, pur di imporre le proprie idee, collaborarono con le forze straniere, consegnando nelle loro mani la Patria. Peraltro, la toponomastica del Sud è piena di vie, piazze, lungomari dedicati a queste persone, mentre la congiura del silenzio grava sui lazzari e su chi ha riconquistato il regno del Sud.

Il cardinale Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello e Bagnara liberò Napoli il 13 giugno, dopo una tragica battaglia che rivide i lazzari in azione al suo fianco. Il 21 giugno 1799 i francesi ed i collaborazionisti si arresero.

Tuttavia, durante l'assedio di Napoli, il cardinale Ruffo, da buon cristiano, aveva cercato di salvare i giacobini rinchiusi in Castel Sant’Elmo, offrendo loro la fuga via terra; ma costoro vollero consegnarsi ad Orazio Nelson, che assediava Napoli dalla parte del mare, reputando preferibile fidarsi di un ammiraglio protestante piuttosto che di un prete cattolico. Però, appena essi si imbarcarono, Nelson li fece arrestare tutti. Se non fosse stato per quest’ultimo, essi sarebbero potuti partire per la Francia e sarebbero stati dimenticati; senza saperlo, egli li trasformò in martiri, quantunque essi fossero stati legalmente perseguiti dalla giustizia per essersi macchiati di “alto tradimento” e di ”intelligenza con il nemico”, reati questi puniti, in ogni tempo e in ogni luogo, con pene draconiane.

Tuttavia, non ci fu quel bagno di sangue che ancora oggi affermano coloro che si ostinano ad esaltare le gesta della c.d. repubblica partenopea, contro tutte le ragioni della storia e del buon senso.

La Giunta di Stato processò circa ottomila prigionieri e ne condannò a morte 105 (6 dei quali ottennero la grazia); 222 all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 alla deportazione, 67 all’esilio, da cui molti tornarono; furono punite in tutto 1.004 persone, mentre gli altri 7.000 carcerati vennero rimessi in libertà.

I giacobini napoletani, invece, avevano fatto di più e di peggio! Basti considerare che, in soli 5 mesi essi avevano condannato a morte e giustiziato, dopo processi farsa, ben 1.563 oppositori al regime filo-francese.

Orazio Nelson, quindi, ne fece impiccare 99, e da questo atto è nato il mito dei «martiri della repubblica partenopea», di cui sempre si incolpano i Borbone.

Ma, se si vuole essere realmente imparziali nel giudizio storico, occorre tener presente fino in fondo la reale gravità del loro tradimento verso il popolo e verso i sovrani; gravità peggiorata dal fatto che essi consegnarono lo Stato in mano ad un nemico invasore e dal fatto che i traditori erano per lo più nobili od intellettuali, frequentatori della Corte di Napoli e spesso amici della coppia reale, molti dei quali da questa precedentemente beneficiati.

Per Luigi Blanch, il più equilibrato storico napoletano, i Giacobini «erano una minoranza quasi impercettibile aspirante a stabilire, per mezzo della conquista, una forma di governo non voluta dal paese e appunto in quell’anno talmente screditata in Francia che con applauso cessò il 18 brumaio. Ciò ch’essi volevano contrastava coi princìpi liberali, basati sull’indipendenza nazionale all’esterno e sul consenso della gran maggioranza all’interno: furono contenti della dolorosa campagna del ’98 e irritati dall’energica resistenza popolare... Nel senso morale fu una fortuna che divenissero vittime; ché, se avessero trionfato, sarebbero stati carnefici tanto più crudeli quanto più erano pochi. Sacrificati, hanno ispirato compassione per gl’individui e simpatia per la causa. Sacrificatori, avrebbero ispirato orrore per gli uni come per l’altra».

Harold Acton osservò che «da allora è stata perfezionata la tecnica per cui una minoranza può impadronirsi del potere della Stato contro la volontà della maggioranza, e la maggior parte di noi sa dove questo può condurre. Un attento esame della breve vita della repubblica partenopea ci porta a dubitare che essa avrebbe potuto mantenere il potere, se non sottomettendo la maggioranza a violenze ed a continue minacce di violenza».

Peraltro, la motivazione reale che spinse la stragrande maggioranza della popolazione del Regno ad aderire al sanfedismo fu il netto ed anche violento rifiuto del giacobinismo e dei suoi ideali rivoluzionari; e, quindi, la fedeltà alle concezioni tradizionali della fede religiosa e della monarchia, che caratterizzavano l’antica società cristiana occidentale.

I fratelli Goncourt scrissero mirabilmente che «le menti mediocri giudicano l’ieri da quello che è l’oggi, si stupiscono della grandezza e della magia della parola “Re”. Essi credono che questo amore per il sovrano sia solo servilismo; in realtà egli era a quei tempi la religione del popolo (che lo chiamava “nostro padre”), così come il concetto di patria lo è stato nel ventesimo secolo. Quando le frontiere nazionali cadranno, anche il concetto di patria sembrerà vuoto e limitativo visto con gli occhi degli uomini che vivranno allora».

Ed in particolare a Napoli, la grandiosità e la magia della parola “Re” ben esisteva, nonostante la presenza e l’avversione di una malcontenta minoranza di cosiddetti liberali. A tale proposito, Francesco Saverio Nitti, quantunque fosse liberale e filo-piemontese, obbiettivamente ammise che «le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’99, il ’20, il ’48, il ’60, le classi popolari, anche se mal guidate o fatte servire a scopi nefandi, sono state per la monarchia borbonica e per il re».

Alla stessa stregua dell’attaccamento al Trono, i napoletani erano anche indissolubilmente legati all’Altare, in quanto il sentimento religioso cattolico era da secoli profondamente radicato nella coscienza popolare.

L’ideologia giacobino-massonica, invece, si presentava come sovvertitrice di tali valori, ragione per la quale essa suscitò la violenta rivolta di quel popolo fortemente attaccato alla monarchia, alle tradizioni locali, alla cultura atavica, alla religione della Chiesa cattolica apostolica romana; sentimenti questi che gli atei sedicenti “rivoluzionari” del 1799 tentarono, antidemocraticamente ed intollerantemente, di soffocare nel sangue.

Ubaldo Sterlicchio

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Fonti consultate:

(1) Gustavo Rinaldi, “Il Regno delle Due Sicilie, tutta la verità”, Controcorrente, Napoli, 2001.

(2) Harold Acton, “I Borboni di Napoli”, Giunti, Firenze, 1997.

(3) www.realcasadiborbone.it, Storia e documenti, “Il Cardinale Ruffo e le insorgenze filoborboniche”.

(4) Autori vari, “La Storia proibita”, Controcorrente, Napoli, 2008.

(5) Lino Patruno, “Fuoco del Sud”, Rubettino, Soveria Mannelli, 2011.

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