martedì 24 maggio 2011

Sulla scia dell’ultimo libro della Thule Italia Editrice – Il Socialismo Tedesco al Lavoro – pubblichiamo questo articolo di Fabrizio Fiorini apparso sul numero 71 de “L’Uomo Libero” dal titolo: Socialismo tedesco. Economia reale, Stato sociale e diritti dei lavoratori nel Terzo Reich.
«Il nazionalsocialismo può rivendicare il merito di aver sviluppato la personalità al massimo grado, ma in favore e non contro la comunità. Ciò che noi abbiamo in tal modo raggiunto è il vero socialismo“.
Robert Ley (Deutsche Arbeitsfront)
Fabrizio Fiorini
I cinquant’anni che seguirono il rogo di Berlino, contrassegnati dal dogma del nuovo verbo democratico e dall’occupazione sovietico-statunitense del Continente, si contraddistinsero altresì per un appiattimento dell’analisi politica all’interno dell’angusto sistema dialettico che è stato ultimamente definito politicamente corretto. In seno ad esso le sporadiche voci di dissenso politico-culturale furono costantemente messe ai margini non solo – ovviamente – della sfera istituzionale, in quanto categoricamente escluse da ogni forma di gestione del potere, ma anche da quella del riconoscimento culturale tout court, dovendo subire ogni giorno i poderosi attacchi della propaganda che le relegava – demonizzandole – alla cattività sociale, ovvero alla più rigorosa damnatio memoriae.
Questo scenario di oppressione e decadenza, per quanto ulteriori margini di involuzioni non potessero essere previsti – si pensava di essere alle tenebre della mezzanotte, quando si era solo al crepuscolo di mezza sera – trovò nei vent’anni successivi, i due decenni appena trascorsi, una nuova recrudescenza. Fino alla fine del lungo dopoguerra, che possiamo fare convenzionalmente coincidere col 1990, il dibattito politico, sociale ed economico conferiva infatti ancora – per quanto nell’ambito dell’analisi di fenomeni politici comunque decadenti – una sorta di dignità e di riconoscimento culturale al totalitarismo. L’esistenza dell’Unione Sovietica e delle «democrazie popolari» nei Paesi dell’Europa orientale e il sostegno (inizialmente incondizionato, in seguito sempre più tiepido) che a tali entità statuali conferivano i partiti comunisti dell’Occidente delineavano una legittimazione di fondo al fatto che un modello politico, se portatore di giustizia sociale ed elevatore della condizione umana, potesse essere imposto, anche attraverso gli aspetti più esteticamente coercitivi tipici dei regimi totalitari. Non fosse stato applicato al marxismo burocratico ed economicistico, che di «socialista» portava indegnamente il nome, il ragionamento non avrebbe fatto una grinza.
Si consideri l’esempio di due malati neurologici. Il primo ha delle sporadiche carenze di lucidità in un contesto anamnestico di normalità, il secondo si aggira per le strade con lo scolapasta sulla testa e lancia pietre ai passanti. A differenza del primo, col quale i medici potranno concordare congiuntamente un percorso terapeutico, al secondo la terapia dovrà essere somministrata in via coercitiva, per il bene suo e pro rei publicae salutis. E proprio quindi a un malato all’ultimo stadio (che tra l’altro non ha neanche coscienza della sua patologia) che è paragonabile senza mezzi termini la società mercantilistica d’occidente, ed è proprio nel trattamento «sanitario» obbligatorio che risiede il valore positivo del totalitarismo. In ispecie quando occorra riconvertire gli animi, le coscienze e le strutture dello Stato a uno schema socioeconomico socialista, che andrà necessariamente a cozzare contro gli istinti primordiali e predatori che la società capitalista ha esasperato elevandoli all’ennesima potenza. Se questo discorso è stato eziologicamente fondato nella sua applicazione ai sistemi parasocialisti-marxiani europei della seconda metà del ventesimo secolo, in maggior ragione lo è relativamente ai fascismi europei e alle forme politiche del Terzo Reich nazionalsocialista, in cui la ristrutturazione in chiave socialista della società era corollario di una più ampia restaurazione dell’umano che avrebbe svincolato il Volk, comunità organica di destino, dal dogmatismo economicistico capitalista-borghese, dall’umanesimo cosmopolita giudaico-cristiano e dal reificante messianesimo burocratico marxista.
Una sorta di nichilismo istituzionale manifestatosi nel – e dal – cuore d’Europa tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso che la critica politica contemporanea umilia rimarcandone esclusivamente (oltre alle trite leggende holocaustiche) gli aspetti più esteriori della gestione del potere, senza i quali non sarebbe stata neppure ipotizzabile la massiccia spinta rivoluzionaria che da Berlino si irradiò nel continente europeo accendendo le braci – sopite ma mai spente – del socialismo prussiano e del nuovo nazionalismo socialista.
Piaccia o meno, infatti, il Terzo Reich fu anche uno Stato socialista, il crogiuolo politico e istituzionale in cui prenderà forma il vero socialismo del XX secolo, un socialismo erede della millenaria tradizione germanico-europea, un socialismo radicale nel suo mirare alla definitiva eradicazione (anche nel campo extra-economico) del morbo borghese e della mentalità mercantile. Ed ancora un socialismo allo stesso tempo istituzionale nella sua attuazione di strutture sociali, economiche e assistenziali volte alla preservazione del benessere, della sobrietà e della elevazione extramorale del popolo, un socialismo, infine, attuale in quanto consapevole della necessità contingente di blindare le conquiste popolari in un contesto politico totalitario e di militarizzazione sociale volto alla difesa dai nemici interni (il risorgere di tendenze borghesi, il potere residuale del capitalismo bancario) ed esterni (le plutocrazie capitaliste e marxiste che contro il Reich scatenarono la più violenta guerra d’aggressione che la storia ricordi).
Svincolamento dalla finanza internazionale ed eradicazione dell’indole borghese.
Nella storia dell’economia, l’evento che ha contrassegnato il passaggio epocale tra la società tradizionale e la decadenza della modernità è stato segnato (contestualmente ai prodromi del capitalismo moderno) dallo slegamento delle dinamiche e delle politiche economiche delle società e degli Stati da quella che può essere definita «economia reale» e il loro avvicinamento alla fumosa «economia finanziaria». Per economia reale si intende quella che può essere tangibilmente percepita dal popolo, che vede sotto i propri occhi la ricchezza dello Stato nascere dal proprio lavoro e trasformarsi in benessere collettivo e servizi, in sicurezza militare e tutela sociale, nella casa e nel pane, nella tranquillità per il proprio futuro scaturita da una corretta gestione del presente.
È la sola economia possibile, che per sua natura non può che essere stata socialista ante litteram, escludendo a priori ed essendo la naturale antitesi all’accumulazione e alla predazione capitalista, sia questa gestita da apparati statali o da privati. L’economia finanziaria è invece quel complesso di norme e consuetudini che «regolano» i processi di arricchimento di ristretti e parassitari settori della società e prescrivono, finché è possibile, il mantenimento di una parvenza di adeguato tenore di vita alla parte politicamente più rilevante della società, che si lascerà così addomesticare al ruolo di guardiana del sistema: la borghesia. L’economia finanziaria si basa sulla speculazione, sulla ricchezza nominale delle Borse, sui prodotti finanziari, sulle fluttuazioni dei mercati, su un sistema di costante prevaricazione esercitato dalle banche su popoli e governi e – non ultimo – sul signoraggio monetario di cui queste si arrogano la titolarità, sulla creazione cioè di ricchezza dall’emissione di moneta prestata, quindi addebitata agli Stati all’atto dell’emissione.
Proprio con la liberazione dal giogo bancario mosse i primi passi la nuova economia del Reich, consapevole del fatto che gli errori, in economia come in ogni campo dell’esistenza, sono sempre nelle premesse e che senza tale fondamentale prerequisito non sarebbe stata possibile la radicale trasformazione della società tedesca in chiave nazionale e socialista. Già nel 1933, infatti, il rilancio dell’economia fu fondato sul marco, per il quale fu imposto il corso forzoso e la non convertibilità in oro. Il reichsmark divenne così lo strumento della pianificazione, il cui valore sarebbe stato quindi garantito esclusivamente dalla ricchezza e dalla stabilità del nuovo Stato, il quale a sua volta ne avrebbe difeso la tenuta attraverso le prime misure fiscali realmente popolari che penalizzavano le rendite finanziarie e – soprattutto – tramite le nuove disposizioni inerenti le banche, disposizioni che manifestarono storicamente (e che nei secoli a venire testimonieranno) la portata epocale, la straordinaria potenza e la ferrea determinazione della rivoluzione nazionalsocialista.
Numerose banche private furono infatti nazionalizzate, e sulle banche che restavano in mani private erano esercitate funzioni di controllo progressivamente crescenti da parte di appositi istituti pubblici. Per quanto riguarda la Reichsbank, una serie di disposizioni legislative che presero avvio con la legge del 27 ottobre 1933 e culminarono con quella del 16 giugno 1939, liberarono l’istituto bancario dalla perniciosa tutela della finanza internazionale (tutela esercitata tramite la Banca dei Regolamenti Internazionali), stabilirono che il suo presidente e i maggiori funzionari dovessero essere nominati dal Presidente del Reich e la trasformarono di fatto in un Ente dello Stato. Prendeva così corpo, nell’Europa del ventesimo secolo, la più eretica delle eresie: la riappropriazione nazionale e popolare dell’Istituto bancario centrale di emissione (e taluni ancora pensano che la guerra mondiale iniziò per Danzica!).
I provvedimenti legislativi a tutela del nuovo corso economico socialista tedesco, strutturalmente orientati in una pianificazione quadriennale, non si fecero attendere e furono nel loro complesso orientati alla definizione della figura del nuovo cittadino del Reich, che era liberato dalla servitù economica cui era sottoposto durante il precedente periodo di dittatura liberale e veniva finalmente vincolato a un patto nazionale che sarebbe tornato a conferire vigore all’economia tramite la repressione dell’indole borghese e la sottomissione dell’economia alle direttive politiche del Governo e dello Stato. Tali provvedimenti legislativi furono chiosati con efficacia dal decreto del primo dicembre 1936, che così recitava al suo articolo 1: «Ogni cittadino tedesco che, consciamente o inconsciamente, spinto da basso egoismo o da qualsivoglia vile sentimento, avrà contravvenuto alle disposizioni legislative, causando in tal modo un grave pregiudizio all’economia tedesca, potrà essere condannato a morte e subire la confisca dei beni».
Un’economia di produzione
In un tale contesto lo sviluppo economico avrebbe quindi potuto affermarsi solo sui solidi binari dell’economia «reale», di produzione, un’economia intesa come servigio reso allo Stato e quindi alla comunità nazionale totalitariamente concepita: il Volk.
Nel dominio dell’agricoltura nazionale, la Neuadel aus Blut und Boden, la nuova nobiltà di sangue e suolo delineata e auspicata nell’analisi politica del Ministro dell’agricoltura Richard Walter Darre, trovò compimento e realizzazione nell’istituto giuridico dell’Erbhof, istituito dalla legge 29 settembre 1933, completata dal decreto 21 dicembre 1936. L’Erbhof, catalizzatore dello spirito del contadinato germanico e decantatore politico dell’aristocrazia agraria socialista del nuovo Stato tedesco, consisteva nell’unità base dell’ambiente rurale nazionale che le famiglie di sangue germanico tramandavano ai loro discendenti e che era categoricamente esclusa da qualsivoglia negozio giuridico di natura capitalistica, quali la compravendita, l’alienazione totale o parziale, l’ipoteca.
La legge sull’Erbhof sortì quindi un duplice effetto ed ebbe una duplice manifestazione nell’affermazione pratica e nell’istituzionalizzazione della dottrina socioeconomica nazionalsocialista: innanzitutto quella per cui la legislazione statale si trovò a coincidere con le istanze di tutela nazional-razziale della società promuovendo, appunto, l’indissolubile vincolo tra Blut e Boden (sangue e suolo); la seconda fu invece la dimostrazione del livello di straordinario avanzamento sociale del contadino germanico il quale, in quanto ancora vincolato a un modello sociale e di sviluppo tradizionale e millenario, riuscì a fare propria, con completa naturalezza, una riforma politica intrinsecamente socialista senza che de iure si eliminasse la proprietà privata sul bene (un bene di profonda utilità sociale quale il terreno agricolo), misura che in contesti di decadenza come l’attuale potrebbe invece rendersi totalitariamente necessaria al fine di contrastare le resistenze «proprietarie» di quello che oggi è il contadino-borghese. All’agricoltore, il Bauer, nazionalsocialista era pertanto concessa quella libertà che – ci si figuri oggi – già all’epoca era privilegio degli uomini più liberi, la libertà suprema, quella cioè derivante dalla consapevolezza di se stessi e dal radicato senso di responsabilità nazionale: la libertà di padroneggiare la proprietà privata senza il rischio che la proprietà padroneggiasse sul possessore, secondo le regole di esasperazione dell’accumulo di ricchezza che vigono nelle società ad economia capitalista.
Nel campo della produzione industriale si manifestò in maggior misura la propensione delle autorità del Terzo Reich allo sviluppo della dimensione tangibile dell’economia nazionale, alla promozione di quell’economia reale e popolare libera dai condizionamenti della finanza internazionale e facente perno e leva sull’obiettivo primario, consistente nell’elevazione sociale del popolo. In seno alle direttive stabilite dal Piano economico quadriennale e forti della stabilità conferita dalla nazionalizzazione del sistema bancario e monetario, si stabilì pertanto di indirizzare la volontà economica dello Stato nella direzione dell’incremento massiccio della produzione, della razionalizzazione del consumo attraverso il controllo da esercitarsi sulla domanda e sull’offerta, a livello tanto microeconomico quanto macroeconomico, dello sviluppo della rete logistica di distribuzione, dei trasporti e dei servizi e, quale naturale conseguenza, del conseguimento dell’autosufficienza economica, condizione necessaria per Berlino a tutelarsi dall’ostilità internazionale di cui era vittima già dagli albori della rivoluzione, a causa del massiccio sabotaggio economico e della dichiarazione di guerra mercantile dichiarata al nuovo Reich dalla finanza ebraica internazionale.
La metodologia operativa che sottese la rinascita industriale tedesca prevedeva il ruolo guida del Governo e segnatamente del Ministero dell’economia nazionale nella gestione dei cartelli obbligatori che, istituiti con la legge del 15 luglio 1935, avrebbero regolamentato le dinamiche produttive del sistema industriale germanico. Tra questi «cartelli», in base a una visione più che mai organica dell’economia politica, era prevista la fattiva collaborazione e compensazione/compenetrazione reciproca nell’interesse del più alto fine comune della complessiva crescita economica nazionale; a tal fine rivestivano un ruolo fondamentale le funzioni ispettive e direttive del Ministero, il quale si avvaleva altresì della collaborazione di un Commissariato per il controllo sui prezzi le cui deliberazioni rivestivano valore fortemente limitante al libero arbitrio che taluni settori della produzione avrebbero potuto far proprio appunto in quanto «cartellizzati». Alle autorità ministeriali spetterà inoltre il ruolo di coordinamento e direzione delle nuove Camere economiche, agile e funzionale trait d’union posto in essere dal governo nazionalsocialista per coniugare il Volk al sistema produttivo, avente funzioni di controllo sull’operato delle imprese e di educazione politica al nuovo corso socialista e nazionale. Completeranno il quadro di sviluppo industriale una cospicua quota di partecipazioni statali e il lancio di un piano di potenziamento della rete dei trasporti, sia su gomma che su rotaia, tramite la realizzazione di grandi opere di viabilità pubblica.
La formazione dei lavoratori dello Stato all’onore sociale
Se il quadro complessivo del sistema economico e produttivo tedesco conferisce – pur se attraverso una trattazione sommaria – un senso di completezza, funzionalità e organicismo e desta meraviglia se rapportato alla effettiva brevità temporale della parabola politica del Terzo Reich nazionalsocialista, è solo attraverso lo studio delle politiche sociali e del lavoro che può comprendere in pieno la portata epocale e sovraumana di quella rivoluzione. Le strutture portanti del sistema sociale della nuova Germania affondano le proprie radici nella tradizione europea e declinano con verbo moderno il lascito socialista, nazionale e comunitario che questa ci ha tramandato, dopo aver spiccato il volo sulle ali dell’aquila romana e aver viaggiato per secoli attraverso le antiche sippe -famiglie, in senso ampio, che furono le prime istituzioni germaniche -, attraverso la civiltà carolingia, attraverso il socialismo prussiano fino a giungere al bagliore delle prime bandiere rosse, bianche e nere.
La più alta manifestazione della tutela nazionalsocialista sul lavoratore e sul cittadino del Reich è senza dubbio alcuno rappresentato dai tre nuovi istituti statuali denominati Commissariati del lavoro, Tribunali dell’onore sociale e Fronte del lavoro tedesco.
I Commissariati del lavoro avevano mansioni di vigilanza ed educazione popolare sul rispetto del nuovo spirito nazionalsocialista nell’ambito dei rapporti tra sistema produttivo e lavoratori, dirimevano i conflitti che sarebbero sorti, fissavano i parametri salariali; favorivano, insomma, lo sviluppo armonioso delle attività produttive e facevano riferimento diretto al Ministero dell’Economia. I Tribunali dell’onore sociale rappresentavano la quintessenza dell’istituzionalizzazione della rivoluzione nazionalsocialista: rivestivano mansioni ispettive, inquirenti e sanzionatone nei confronti degli eventuali soprusi dei datori di lavoro e delle imprese nei confronti dei lavoratori, e quindi del Volk, dello Stato. Avevano finanche il potere di ammonire, sanzionare e addirittura esautorare i dirigenti d’azienda che non si fossero adeguati al nuovo corso politico nazionalpopolare e che avessero tentato di restaurare istituti giuridici e giusla-voristici del precedente regime liberale. In tali tribunali, poderosa barriera eretta a difesa dell’onore sociale dei cittadini del Reich (e che nei tempi moderni avrebbero dovuto lavorare a pieno regime…) erano strutturalmente inseriti rappresentanti della Daf, il Fronte del lavoro tedesco, emanazione sindacale della Nsdap e custode della regola nazionalsocialista all’interno del mondo del lavoro nel suo complesso.
Associazione unificata al di sopra e contro il frazionismo sindacale liberale e il classismo sindacale marxista, aderente al Partito nazionalsocialista, la Deutsche Arbeitsfront poteva contare sulla totalitaria adesione di tutti i lavoratori del nuovo Reich (il numero di iscritti raggiunse i venticinque milioni e quattro milioni furono le imprese aderenti) e quello che rivestiva era un ruolo sociale di importanza tale da non poter essere paragonato a quello di nessuna altra struttura dello Stato e del partito. Tra le sue funzioni vi erano quelle di educazione dei lavoratori alla dottrina politica nazionalsocialista, l’educazione professionale, l’insegnamento dei mestieri, la protezione e la difesa dei lavoratori, il collocamento, l’assistenza giuridica, l’emissione di incentivi alla produzione e la gestione dello svago e del dopolavoro attraverso la sua branca denominata Kraft durch Freude (Forza attraverso la Gioia), allora la maggiore organizzazione di tale genere in tutto il mondo. Congiuntamente e parallelamente alla KdF esercitava le proprie funzioni il Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (Nsv), l’Organizzazione nazionalsocialista per il benessere popolare, la struttura di assistenza e di soccorso sociale del Terzo Reich.
La reale natura dell’assistenzialismo nazionalsocialista è egregiamente descritta da uno dei suoi massimi dirigenti, Werner Reher: «In tutti i paesi civilizzati esistono delle organizzazioni per l’assistenza sociale che debbono la propria origine e il proprio mantenimento all’iniziativa privata. Alcune di queste operano sotto l’egida di confessioni religiose [...]. L’idea che ispira tutte loro scaturisce dal principio cristiano di amore per il prossimo [...]. Il desiderio e lo scopo di tutte queste iniziative è quello di favorire una politica sociale mediante la quale il disagio economico del singolo divenga perlomeno sopportabile. Il principio di base è, pertanto, che la povertà sia una condizione permanente nella quale una determinata classe sociale deve vivere. [...] Predicare e praticare questo principio indebolisce la resistenza morale di coloro che si trovano ad aver bisogno di aiuto». Spinta rivoluzionaria anche nell’assistenza sociale, dunque, secondo quanto prescritto dal governo dello Stato socialista del Reich germanico. Dove non c’era più posto per lo stucchevole piagnisteo dell’elemosina cristiana e dove gli altari del pietismo e della rassegnazione venivano finalmente soppiantati dalla fede nella comunità nazionale del Volk.
Tant’è che i risultati conseguiti dal Nsv non si fecero attendere a lungo e già nei primi anni, dopo il 1933, erano decine di migliaia le situazioni di difficoltà alleviate dalla solidarietà nazionale del popolo e del governo sotto forma di beni alimentari e di prima necessità nonché di investimenti al fine di eradicare le cause che possono aver visto protrarsi lo stato di indigenza dei cittadini in alcune zone del Reich. Numerose furono inoltre le iniziative volte all’incentivo alla natalità tramite il sostegno alla maternità (lavoro femminile, asili nido, assistenza), curate dalla sezione Mutter und Kind (Madre e figlio) dell’organizzazione di assistenza sociale nazionalsocialista.
Cos’accadde quindi nel cuore d’Europa nel bel mezzo del XX secolo? Nel pieno della sua notte buia, la «modernità» si fermò. La decadenza fu invertita. L’economia, in un clima continentale di follia mercantilistica e finanziaria, tornò a essere l’unica economia possibile: dallo Stato e dal popolo per lo Stato e per il popolo, per la nazione e per il socialismo. E il mondo tornò «ai ritmi di sempre».
È per questo motivo che le città della Germania e dell’Europa sono state rase al suolo in un mare di fuoco; è per questo motivo che milioni di tedeschi sono stati deliberatamente sterminati; questo è il motivo per cui a quel popolo -a perenne monito per l’Europa tutta – dopo aver distrutto le case, le scuole, le fabbriche, le strade, i ponti. Il Sistema ha imposto che distruggesse da solo la propria anima e procedesse a ritmi serrati verso l’estinzione e l’annullamento di sé. Ma il serpente si è morso la coda: questo motivo è lo stesso per cui l’immagine delle rivoluzioni fascista e nazionalsocialista è destinata a proiettarsi sul XXI secolo.

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