venerdì 12 novembre 2010

Filippo Corridoni: un’eredità da non dimenticare



















di: Enzo Schiuma

Se uno dei giovani no global iniziasse a leggere la sua biografia, non potrebbe non esclamare: “Ma questo era uno dei nostri!”. E concluderebbe soddisfatto la lettura… salvo chiedersi poi: “ma come faceva ad essere amico di Mussolini e a credere nella Patria fino a morirne? Ma a chiederselo, oggi, non sarebbe solo lui, ma chiunque altro volesse saperne di più sul suo conto. La sua “eresia” ultrasocialista, non extra ma anti-parlamentare e anti-legalitaria, lo rese un habituè delle patrie galere. I reati commessi? Sempre gli stessi: manifestazioni e cortei non autorizzati, sovvertimento dell’ordine pubblico e incitamento alla sommossa, per essersi con i suoi scritti e discorsi, fatto vindice, non diciamo degli interessi, ma dei bisogni primari del mondo contadino e operaio, a quel tempo esposti a tutte le angherie, vessazioni e noncuranze padronali, senza alcuna legge protettiva.
Ma chi era e di che pasta era fatto Filippo Corridoni? Nasce il 19 agosto 1887 a Pausala (oggi Corridonia), in provincia di Macerata, da modestissima famiglia di operai. Dopo le elementari, grazie a uno zio, frate francescano e noto predicatore, acquisisce nozioni di latino e di cultura classica, che lo renderanno consapevole delle sue radici. Vorrebbe proseguire gli studi classici, ma il padre preferisce avviarlo ad una preparazione tecnica. Anzi, pressato da ristrettezze economiche, lo ritira dalla scuola, per portarlo con sé a lavorare nelle fornaci di laterizi dei paesi vicini. Lavoro pesantissimo, consistente nel trasportare ceste di terra, infornare e cumulare mattoni per settimane intere, dormendo in misere capanne nella struggente speranza di poter tornare a scuola. Ma nella mente del tredicenne che ruba al sonno le ore per studiare, era già matura la volontà di ferro dell’uomo che sarà. Si presenterà da solo agli esami per la licenza tecnica, che supererà brillantemente guadagnandosi anche una borsa di studio.
Si specializza in materie tecniche ma non tralascia la cultura umanistica. Legge testi di Mazzini, di Pisacane e di Marx, ma anche di Cicerone, Seneca e Tito Livio, da cui acquisisce il valore della romanità. Poi si imbatte nel “Devenir social“ di Georges Sorel e ne resta affascinato. La filosofia della prassi diviene la sua filosofia e approda alle scienze sociali. Nella scuola di Fermo supera gli esami finali con ottimi voti e consegue il diploma di Scuola Tecnica Superiore. Grazie al diploma, conosce nuove forme di lavoro, come quella di disegnatore meccanico. Nel 1907 si trasferisce a Milano ed entra nell’industria metallurgica “Miani e Silvestri” dove, quantunque salariato, assapora la gioia di essere lui il responsabile di ciò che fa e di partecipare attivamente al risultato produttivo dell’azienda. Di qui lo stimolo a lottare perché tutti i lavoratori, anche i più umili, possano vedersi riconosciuto il giusto salario e la dignità di lavoro, a cui ogni uomo ha diritto. Si avvicina allora al Partito Socialista diventandone in poco tempo segretario del Circolo giovanile.
Ma torniamo un attimo a Georges Sorel. Cosa aveva interiorizzato Corridoni della filosofia della prassi che l’aveva tanto colpito? Il ruolo dell’uomo come soggetto motore della storia e non come mero ricettore di accadimenti. Comprese così che sia i riformisti che i massimalisti erano ammalati dello stesso male: il parlamentarismo nei primi, ovvero, “le riforme di cui si parla tanto e non si fanno mai”, perché invischiati nei giochi di potere da “non muovere un dito a modificare le cose come stanno”; e la verbosità nei secondi, che s’erano dimostrati, nei fatti, capaci solo di “illudere le plebi e spaventare i borghesi”, senza mai colpo ferire. Per cui, deluso dalla politica del partito, ne esce per dedicarsi esclusivamente all’attività sindacale, dove il socialismo “si fa ogni giorno con i fatti e con le parole appena necessarie a prepararli”. Ed eccolo tra i lavoratori delle piccole fabbriche, poi in riunioni più allargate ed infine in grandi comizi a Milano, Torino e in molte altre città del Nord d’Italia, a seminare il suo messaggio che “solo la lotta dura” li avrebbero portati alla conquista piena dei loro diritti.
Rivelandosi oratore di rara qualità, promotore e organizzatore di scioperi e manifestazioni sempre più turbolente, viene arrestato più volte, incarcerato e poi rilasciato. Sorvegliato a vista, va esule a Nizza dove continua la sua attività politica e sindacale. Nel 1908 torna in Italia per partecipare all’organizzazione degli scioperi bracciantili di Parma e, per eludere il controllo della polizia, vi si reca sotto falso nome. Poi recatosi ad un grande comizio indetto dalla CGdL, chiede di parlare e riscuotendo da incognito più applausi degli oratori ufficiali, riesce a ribaltare in favore dello sciopero l’orientamento generale dei presenti. Nel 1910, grazie ad un’amnistia che gli consente il ritorno all’attività pubblica, fonda il giornale “Bandiera rossa” e collabora con il giornale “Bandiera proletaria”, diretto da Edmondo Rossoni, cercando di influenzare in senso rivoluzionario l’orientamento delle masse, ancora succube del fatalistico “se dio vuole” clerico-riformista.
Il 27 settembre del 1911, il governo Giolitti dichiara guerra alla Turchia e lo Stato Maggiore prepara l’intervento militare in Libia. Corridoni è tra i promotori dell’occupazione dei binari per impedire la partenza dei treni carichi di soldati diretti ai porti di imbarco (con lui Mussolini, Bombacci, Nenni ed altri). Nel 1912, disperando di poter promuovere la rivoluzione del bracciantato, torna a Milano preferendo svolgere la sua azione fra gli operai dell’industria, meno timorati di Dio. Famoso un suo comizio in piazza del Duomo, davanti a 100 mila persone, all’indomani della costituzione dell’USI (Unione Sindacale Italiana), alternativa alla CGdL, fondata da Alceste e Amilcare De Ambris, a cui aderisce insieme a molti altri massimalisti, tra cui Giuseppe Di Vittorio, Michele Bianchi, Cesare Rossi, Edmondo Rossoni ed altri.
Crescono intanto la sua fama, il suo fascino e le sue doti oratorie che unite alla sua natura di uomo volitivo e intransigente, lo renderanno presto l’idolo indiscusso del Sindacalismo Rivoluzionario, ormai punta di diamante di tutto il movimento operaio italiano. Ovunque appaia, nei comizi e nei cortei, è acclamato dalle folle come “L’Arcangelo dei lavoratori”. Il 7 maggio partecipa alla “Settimana rossa”, in Umbria e Romagna, guidata da Benito Mussolini, Pietro Nenni e Nicola Bombacci, che avrà i caratteri di una vera insurrezione, con scontri violentissimi con le forze dell’ordine, sedati infine dall’intervento dell’Esercito. Corridoni si mostrerà tra i capi il più instancabile e coraggioso, e sarà l’ultimo a mollare. La sua fama è ormai alle stelle e il suo nome è lo spauracchio del padronato milanese, Durante una manifestazione è riconosciuto, arrestato e duramente percosso dalla polizia, a cui si uniscono gli insulti dei borghesi all’interno della Galleria Vittorio Emanuele.
Ma allora ha ragione quel giovane no global - dirà il lettore - se le cose stanno così era un marxista della più bell’acqua. Nossignore, era approdato al socialismo non dal “Capitale” di Carlo Marx, ma dai “Doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini, e dei problemi sociali aveva una visione non materialistica ma etica. Considerava la sua, più che una missione, un atto di fede. Riteneva il materialismo storico una contraddizione in termini: “la storia non è materia - soleva dire - perché è memoria di ciò che è stato e non è più…, quindi è un’astrazione”. Inoltre il concetto di libertà in Mazzini è all’opposto di quello di Marx: quest’ultimo la intende in funzione della rivoluzione di classe, che la trasforma nel suo contrario, quando lede quella delle altre e, se applicata ai singoli, porta direttamente all’”homo homini lupus”; per Mazzini, invece, la libertà è un valore quando è quella che si riconosce agli altri e non quando se ne fa uso proprio. Infatti, più che un diritto, è il primo dei “doveri dell’uomo” verso i suoi simili, e solo in questo senso ha un ritorno.
Indubbiamente in Corridoni una svolta c’è stata. Da uomo attento alla nuova realtà industriale, capisce subito quanto sia utile la piccola borghesia dei ceti emergenti (impiegati, tecnici, artigiani, insegnanti), nella sua funzione di traino di tutte le attività operaie. Si fa vindice di queste categorie che chiamerà “produttrici”, estendendo poi il termine a tutti i lavoratori, compiendo così egli stesso il primo traino. Un’altra svolta l’avrà, dopo l’assassinio di Sarajevo del 28 giugno 1914, di fronte al profilarsi di un nostro intervento in guerra. Conflitto che offriva però all’Italia di completare il suo Risorgimento, riscattando le terre irredente del Trentino e della Venezia Giulia, e alle forze sociali di contribuire alla lotta contro le aristocrazie europee degli Imperi Centrali. Corridoni, fa sue ambedue le motivazioni. Mussolini, più pragmatico, che dalle colonne dell’Avanti s’era già dichiarato per l’intervento, ne aggiunge una terza: ipotecare al proletariato il ruolo di protagonista che avrebbe assunto a guerra finita per uscirne poi dominatore del campo. L’azione di Corridoni è ormai parallela con quella di Mussolini, che ospita i suoi articoli sul Popolo d’Italia, il nuovo giornale da lui fondato dopo aver lasciato l’Avanti all’inazione socialista.
Nasce così la prima e più importante scissione del partito socialista: da un lato il troncone pacifista degli internazionalisti; dall’altro i riformisti, massimalisti e finanche anarchici, a cui si associano repubblicani, nazionalisti e futuristi, accomunati dall’unico intento di dedicare ogni sforzo alla vittoria della Patria in guerra. Ed è allora che Corridoni, proprio lui, l’intransigente guerriero antimilitarista, sforna il suo motto primigenio “La Patria non si nega, si conquista” che, fattosi dottrina e progetto politico, diverrà poi il seme da cui nascerà il Fascismo, nella sua espressione più autentica e genuina.
Ma come era giunto a questo, si chiederà il no global? Semplicissimo, ribaltando in sinonimia l‘antinomia marxiana di Patria e di Popolo. Mazzini non dice forse che Dio si esprime attraverso la volontà dei popoli? Sotto la spinta creativa e volitiva dei futuristi e dei sindacalisti rivoluzionari, l’interventismo si trasforma in volontarismo.
L’arruolamento alle armi è numerosissimo e Corridoni è tra i primi. Ottiene l’assegnazione ad un reparto di retrovia, ma insiste per essere inviato al fronte, minacciando di abbandonare la compagnia. Viene allora accontentato e assegnato al 142esimo Reggimento Fanteria, già in linea sul Carso. Partecipa a cruenti combattimenti e al ritorno, provato ma non domo, ripete la sua frase abituale “Dobbiamo vincere ad ogni costo, perché la nostra è guerra di Popolo!”.
E siamo giunti al fatale 23 ottobre del 1915, giorno dell’assalto alla Trincea delle Frasche, Filippo Corridoni è in testa alla sua compagnia, animando i compagni che si dispongono alla base della collina sulla cui cima è la munita trincea austriaca. Si cantano gli inni della patria… e al segnale d’attacco è tra i primi a saltare fuori e a raggiungere la trincea nemica, dove, ritto in piedi, vedendo i nostri avanzare e gli austriaci fuggire, agita il berretto gridando “Vittoria!.. Viva l’Italia!” Non finisce di dirlo… che cade colpito in fronte da un preciso colpo di fucile. Viene decorato di medaglia d’argento alla memoria, che Mussolini farà tramutare in medaglia d’oro nel 1925.
Dal 1919 inizia così una sorta di caccia al mito dell’eroe, sia dal Fascismo che dall’antifascismo che si contendono la sua appartenenza. Ma a lungo andare il meno motivato mollerà la presa e si ritirerà in buon ordine. E cosa è rimasto di lui? Una cosa è sicura: non è mai morto, perchè, come eroe della Patria e del Lavoro, Filippo Corridoni concorrerà non poco a costruire il fascismo con l’esempio e il suo insegnamento. Non a caso, Benito Mussolini, lo terrà a maestro, richiamandosi a lui nelle scelte sociali più rivoluzionarie della sua rigogliosa e solo infine sfortunata parentesi governativa. Una per tutte, la legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese del 1944 è di certo retaggio corridoniano.

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4621

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