giovedì 21 gennaio 2010

Anticapitalismo militante: La socializzazione corporativa



Introduzione

Ernesto Massi
, nato nel 1909 a Trieste, è stato cresciuto dal padre con una rigorosa educazione cattolica e un radicato sentimento di orgoglio nazionale, alla fine degli anni '30 diviene docente di geografia economica all'università cattolica di Milano, fonda la rivista "Geopolitica" con il patrocinio di Giuseppe Bottai, combattente sul fronte russo aderisce nel '43 nella Repubblica Sociale Italiana.
Epurato, riprende l'attività scientifica all'Università Statale di Milano e successivamente all'Università Sapienza di Roma confermandosi come uno dei massimi esperti di geopolitica italiana.
Fondatore dell'MSI a Milano nel 1946, ne è stato vicesegretario tra il 1948-1952. Leader della componente sociale anticapitalistica che si opponeva alla deriva moderata e reazionaria del partito, ha fondato nel 1952 il centro studi "Nazione Sociale". Nel 1956 dopo il congresso di Milano che sancisce l'elezione di Artuto Michelini a segretario dell'MSI e la definitiva sconfitta delle posizioni interne, Massi esce dal partito insieme a tutta la sua corrente. Nel 1972 crea "L'Istituto di studi corporativi" di cui fu il primo presidente. Si è spento nel 1997.

A Mosca, in seno all’Accademia Sovietica delle scienze, esisteva un Istituto interessantissimo: “l’Istituto di economia mondiale e di politica mondiale”, diretto da un economista di gran fama, Eugenio Varga, noto anche come esperto economico dell’iternazionale comunista e consigliere di Stalin. Recentemente il Varga è stato licenziato e l’istituto soppresso, colpevole l’economista di non credere nell’imminenza di una crisi economica americana e di aver scritto della possibilità, riscontrata in Paesi non comunisti, di superare depressione e disoccupazione e di attuare una programmazione economica; colpevole l’Istituto di aver documentato le realizzazioni sociali in alcuni Paesi al di là della cortina di ferro. Così in un articolo di fondo dal titolo significativo:”Molte sono le vie che conducono al socialismo”, Augusto Guerriero commentava sul “Corriere della Sera” l’opera del varga: “Lo Stato fascista aveva fatto molte cose di cui parla Varga: alcuni dei mezzi di produzione, il credito, i trasporti, erano già nelle mani dello Stato. Dunque anche il fascismo era una delle vie che conducono al socialismo? Questo appunto hanno sostenuto Ropke, Lippmann, Hayek ecc..ma è sorprendente che lo abbia implicitamente ammesso un marxista come Varga”.Vi è quanto basta nelle righe citate per una larga impostazione di una discussione politica sociale ed economica. Primo equivoco che ha ispirato tra le due guerre la politica europea e mondiale: per il mondo liberale, per la democrazia liberale, fascismo equivale nei fini a comunismo. Secondo equivoco, quello consacrato dalle sanzioni di Stalin a carico del varga e dal citato Istituto: dove non sventola la falce e martello non vi può essere che reazione e turlupinatura del proletariato; cioè non vi è altra via sociale all’infuori del bolscevismo. Si tratta in realtà di due problemi, anzi di un problema solo: ad un congresso nazionale di un movimento che si denonima “sociale”, è inutile ripetere la critica scientifica al marxismo ed al liberalismo. Se siamo qui convenuti è perché fermamente crediamo nella necessità di restaurare un nuovo ordine sociale e che in funzione di tale nuovo ordine vogliamo erigere un nuovo ordinamento economico; ma altresì perché altamente proclamiamo la nostra sfiducia nell’individualismo del sistema liberale-capitalista e la nostra avversione al colletivismo marxista, entrambi incapaci di attuare la giustizia sociale.
com’è possibile che un movimento giovane come il nostro, sappia già tante cose e che a poco più di un anno dalla sua nascita sia uscito con l’impostazione di un programma sociale ed economico che ha fatto riflettere molta gente in Italia e fuori dall’Italia? Gli è che siamo nati maturi ed esperti, come nei paesi dei buddisti nasce saggio il bambino in cui si ritiene essersi reincarnato l’anima del Dalai Lama, dopo la sua morte. Il grande saggio si è spento – lassù sul “tetto del mondo” – ma troppi bonzi sono in giro a cercarne l’erede – e forse tra poco se lo contederanno.
Ebbene, il nostro movimento – per singolare fenomeno di metempsicosi politica – è nato con un’ anima antica, un’anima grande che esprime il travaglio di una generazione, un’anima rinata su un cielo più alto perché purificato dal dolore e dal sacrificio. E quest’anima si guarda intorno smarrita, in un mondo che sembra cambiato e cerca di ritrovarsi e d’inviduare i sentieri del vero e del bene. E noi siamo qui riuniti stamane, per aiutarla – tutti insieme – in questa ricerca.


La questione sociale


Ricerca di politica sociale ed economica, non economica sociale com’è stato erroneamente stampato sui programmi. Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo ben intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune.
L’economia, invece, è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica della scienza dei fini.
Ed ecco l’impostazione del problema: risponde l’attuale ordinamento della società – che prende il nome dal capitalismo – ai fini naturali e sopranaturali dell’uomo ?
Documentiamoci prima di rispondere.

L’avvento della macchina ed il sorgere della grande industria, determinando quella che gli storici dell’economia hanno chiamato la “rivoluzione industriale” hanno avuto per conseguenza la violenta distruzione di vaste zone dell’artigianato, trasformando rapidamente milioni di artigiani in lavoratori salariati. Soffermiamoci un istante sulle ripercussioni sociali di tale fatto. Separazione del lavoro della proprietà dei mezzi di produzione e situazione dell’uomo ridotto a vendere la forza di lavoro come una qualsiasi merce: premesse queste, per la commercializzazione del lavoro, la spersonalizzazione dei rapporti di lavoro, la disciplina opprimente della fabbrica e la degradazione del lavoratore.
Nasce il mercato del lavoro, causa dell’umiliante inferiorità in cui cadranno larghi strati di popolo in tutti i Paesi. Inoltre – conseguenza non meno grave – il capitale assume una funzione determinante nel nuovo aspetto sociale; e se prima occorreva relativamente poco per aprire una bottega artigiana e al garzone aveva la possibilità di diventare padrone di bottega, con l’aumento degli investimenti richiesti dalla macchina tali possibilità si riducono fortemente fino a quasi annullarsi. Si aggiunga che le depressioni cicliche e le continue inflazioni distruggendo i risparmi, privano il lavoratore dell’unico mezzo per trasformarsi con le proprie forse in imprenditore. Donde arresto al ricambio sociale, squilibri, nascita del proletariato e con esso della “questione sociale”.



Giustizia sociale


In una prima fase la questione sociale ha al suo centro il proletariato. Soffermiamoci cul concetto di proletariato, la cui definizione è essenziale per le conclusioni cui vogliamo arrivare. Il Vito ha dimostrato che non si tratta di un concetto economico-giuridico, in quanto il proletariato non si identifica con il salariato anche se questi ne costituisce in prevalenza la cornice.
Il proletariato non è neppure concetto economico-sociale, perché non si identifica con il pauperismo, che è di tutti i tempi e non è un portato del sistema capitalista. E non corrisponde nemmeno ad un concetto politico, cioè non significa esclusione della direzione della cosa pubblica, chè oggi la partecipazione del proletariato alla vita politica è ovunque in atto.
E’ bensì vero che i caratteri essenziali dei tre concetti rientrano più o meno nell’idea di proletariato, ma il suo fondamento è morale e s’identifica in uno stato del lavoratore incompatibile con la dignità della persona umana. Così inteso il proletariato appare radicato nel sistema capitalistico, il cui meccanismo con le sue crescenti deficienze funzionali ostacola il ricambio sociale e l’elevazione del proletariato stesso. Di più, l’evoluzione strutturale dell’economia, accentuando gli ostacoli al funzionamento del sistema della concorrenza, ha progressivamente aggravato la situazione del proletario, abbandonandolo pressochè inerme alle crisi economiche, alle guerre, alle inflazioni.

La sorte del lavoratore è sempre più legata all’incertezza: e tale precarietà offende la personalità morale dell’uomo. Questo è il punto essenziale che si avvicina al cuore del problema. Il lavoratore percepisce talvolta un salario relativamente elevato eppure continua a sentirsi insoddisfatto della propria condizione, a ritenersi leso nei suoi diritti, a considerare ingiusto l’ordinamento in cui vive. La posizione economica del salariato si ripercuote sfavorevolemente sul suo spirito non solo in quanto il salario è insufficiente, e può anche essere sufficiente, ma in quanto incapace di dargli la sicurezza del domani e la fiducia nell’avvenire. Egli vive sempre nella preoccupazione costante che il salario, l’unica fonte di reddito, possa cessare per eventi connessi alla propria persona, o all’azienda in cui lavora, o all’intera economia sociale: come fluttazioni cicliche, oscillazioni stagionali, disoccupazione di massa.
Tutto ciò si riflette sulla personalità morale del lavoratore. La mancanza di risorse, sia pure modesta, gli impedisce di guardare con fiducia l’avvenire, gli toglie la possibilità di educare ed istruire convenientemente la prole e rende in gran parte vana la libertà civile e l’eguaglianza giuridica e pressochè illusori i diritti politici. E’ inutile aggiungere dell’inferiorità contrattuale in cui viene a trovarsi nei riguardi del datore di lavoro. In una seconda fase le modificazioni di struttura dell’economia contemporanea estendono i limiti della questione sociale. Gli utili di congiuntura connessi alle oscillazioni cicliche, tipiche dell’economia capitalista, accentuano l’ineguale distribuzione della ricchezza e del reddito a scapito di categorie sempre più vaste determinando un processo di proletarilizzazione che abbraccia strati sempre più larghi dei ceti cosidetti piccoli o medi borghesi. Anziché ad un’evoluzione il sistema porta ad’involuzione sociale: non è il proletariato che si evolve e si differenzia, sono gli altri ceti che si proletarilizzano. Le guerre accellerano il fenomeno. Aumentano le differenze del tenore di vita, aumentano le distanze sociali. La costante svalutazione monetaria, le distruzioni dovute alla guerra, la minor disponibilità di beni di consumo completano il quadro. Ecco perché consideriamo questo ordinamento sociale ingiusto, in contrasto con i fini etici dell’uomo e della società ed incapace di attuare la giustizia sociale.

Assicurazioni sociali

Ecco perché intendiamo modificarlo per le vie di un’opportuna politica sociale di una corrispondente politica economica. Nella prima fase, in cui la questione sociale s’identifica più o meno con il problema del proletariato, la politica sociale fu in prevalenza politica artigiana, poi politica operaia: le prime leggi sul lavoro riguardano tutto il lavoro industriale. Soltanto in epoca più recente si afferma l’idea che tutte le classi sociali danneggiate dallo svolgersi della vita sociale ed economica devono essere protette. Si ha un progressivo ampliamento della politica sociale attraverso il nascente sistema delle assicurazioni sociali: essa si estende a tutelare tutti quelli che l’agire incontrollato delle forze economiche mette in condizioni di inferiorità materiale e morale. Fino a quando però le misure protettive devono muoversi nell’ambito del sistema economico di concorrenza, che è concepito come ineluttabile, esse hanno scarsa possibilità di esplicazione. Soltanto quando si arriva ad acquisire il principio che il regime di concorrenza non è fine a se stesso ma – come ogni forma organizzazione economica e come l’economia stessa – ha funzione puramente strumentale in vista del raggiungimento dell’ideale etico del bene comune, soltanto allora si pongono le condizioni favorevoli ad una più ampia impostazione e ad un nuovo indirizzo della politica sociale. Secondo le idee del giusnaturalismo individualista, ereditate dagli economisti classici inglesi, la vita sociale doveva essere governata dalla libertà naturale. Non si poteva pertanto pensare ad un sistema organico di politica sociale, in quanto implicante la consapevole disciplina della distribuzione della ricchezza in armonia ad un principio ordinatore. Ispiratore della politica sociale poteva essere soltanto un concetto di assistenza o di beneficienza pubblica. Ritroviamo tuttora tale concetto a base della politica sociale di tutti i partiti cosidetti liberali o conservatori in Europa e fuori d’Europa. Si vuol alleviare la sorte dei lavoratori o per motivi umanitari e religiosi, o per la preoccupazione politica di prevenire moti sociali, o per interesse, allo scopo di stimolare il rendimento individuale. Respingiamo una siffata concezione nel modo più deciso. La nostra concezione dello Stato ci rende consapevoli della sua funzione e della sua responsabilità di fronte ai rapporti sociali. La coscienza sociale nostra – e non soltanto nostra perché non invano per lunghi anni qualcuno ha seminato – è decisamente orientata all’idea che la relazione fra classi sociali non possono essere abbandonate al predominio d’ interessi privati e che la sorte delle categorie lavoratrici impone all’intera collettività oneri e responsabilità ben definite. Non dunque interventi correttivi ed assistenziali ma una organica e completa impostazione di politica sociale, rivolta alla riforma della società, e al ripristino dell’ordine sociale.
Si tratta di costruire un edificio a categorie maggiormente differenziate, in cui sia riattivato per nuove vie quel processo di ricambio fra le categorie stesse che è premessa ad un funzionamento normale della società ed insuperabile profilarsi di patologia sociale. Il lavoro concepito ad un tempo come soggetto dell’economia ma anche come dovere sociale deve salire al primo piano nel nuovo ordinamento. La politica sociale deve essere volta al bene comune cioè al fine etico della giustizia sociale. Ritengo superfluo citare i documenti in cui tali concetti sono consacrati. Essi vanno dall’Enciclica Quadrigesimo Anno di Pio XI alla Carta del Lavoro, dai messaggi sociali di Pio XII alla legge sulla socializzazione.

I tempi sono maturi

Per realizzare il nuovo assetto sociale è necessario pensare ad un nuovo ordinamento economico e ad una politica economica che ai fini sociali sia decisamente ispirata, agli istituti su cui basarla, agli organi con cui organizzarla. Sono maturi i tempi dell’economia sociale. L’ordinamento economico-capitalista scaturito dal giusnaturalismo e dai nuovi concetti di razionalismo e di libertà consacrati dalla rivoluzione francese, ha rappresentato il sabba classico dell’individualismo materialista, che ha improntato di sé tutte le istituzioni nate ad esprimere le esigenze del capitalismo. Sono queste le istituzioni “ottime” del capitalismo. E mente gli economisti della scuola di Manchester approffondiscono le leggi che dovrebbero regolare in modo automatico la produzione e lo scambio, mentre il “laissex faire, laissez passer” diventa la bandiera dei capitalisti ed il Bastiat sogna le sue “Harmonies Economiques”, il capitalismo rapidamente si evolve in un supercapitalismo, o meglio degenera, come sostengono gli economisti, rendendo impossibile il raggiungimento di quell’equilibrio economico, che in realtà nessuno ha mai avuto la fortuna di vedere realizzato. Le istituzioni per il loro vizio d’origine non hanno potuto impedire la degenerazione dell’assetto economico-giuridico del secolo scorso in un sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non poteva mancare una reazione. E la reazione venne, ma subì l’influenza materialista dei tempi e sbagliò strada e impostazione. Marx ha semplicemente capovolto Ricardo. Il proletariato ha cercato la battaglia sullo stesso terreno dell’utilitarismo e del materialismo, con le stesse armi del mercato, considerando il lavoro una merce da cedere al migliore offerente.
Il marxismo ha avviato il problema della riforma sociale in un vicolo cieco, in fondo al quale stanno la proletarilizzazione generale, la collettivazione, il socialismo di Stato.
Il bilancio è stato catastrofico. Da cent’anni i proletari sfilano per le metropoli industriali seguendo le rosse bandiere della falce e martello senza che alcun passo innanzi abbia fatto il proletariato sulla via della sua redenzione morale. Né poteva essere diversamente avendo il marxismo cercato di dare una soluzione economica – confondendo il mezzo col fine – al problema del proletario che è essenzialmente morale. Ben diversa era la via da percorrere.

Obbiettivi

IL salario non deve essere negoziato come una merce qualsiasi ma deve essere sottratto al mercato del lavoro. Abbandonarlo alla domanda e all’offerta sarebbe immorale, perché alle diminuzioni di salario il lavoratore non può opporre una minore offerta, perché ogni giorni di astensione dal lavoro è perdita grave per chi non ha altre possibilità di vita. Il salario non è soltanto un elemento del costo di produzione, cioè un problema economico, ma costituisce il reddito del lavoratore: come tale è un problema sociale che dalla sfera privata va portato sul piano dell’interesse pubblico.

Programma economico

Una volta sottratto il salario che è il principale fattore della produzione al gioco della domanda e dell’offerta, tutto il sistema economico liberale-capitalista incominciò a zoppicare rendendo necessari sempre più frequenti interventi dei overni nella vita economica. Ma non si tratta più ormai di rabberciare le falle più pericolose dell’attuale ordinamento capitalistico attraverso interventi più o meno sporadici e più o meno efficaci di politica economica. Occorre costruire un nuovo ordinamento basato su istituti adeguati, atti a razionalizzare la vita economica contemporanea ed a orientarla ai fini sociali che abbiamo più sopra illustrati: cioè un ordine economico razionale e riflesso al servizio della giustizia sociale. Sia ben chiaro che singole riforme o singoli istituti o determinati ordini di provvidenza, anche largissime, non possono risolvere la crisi economico-sociale dei nostri tempi. Occorre una riforma organica attraverso un sistema compiuto e molteplice di mezzi e modi che penetri nei numerosi congegni dell’attuale ordinamento economico-finanziario, che tuttora risentono dell’orientamento individualistico. Le misure più coraggiose a favore di certe categorie sono destinate a fallire il loro scopo, quando non siano inquadrate in una visione completa ed armonica del sistema economico. Tale visione può dare soltanto il piano o se preferite il programma economico. Nell’economica socialista il piano presuppone l’asservimento dell’individuo ai fini produttivi, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, l’eliminazione dell’iniziativa individuale e quasi sempre il lavoro coatto. Nell’economia sociale il piano è strumento per l’attuazione della giustizia sociale, tende a coordinare i fini economici con quelli etici, rispetta – pur limitandola – l’iniziativa privata, non ripudia l’istituto della proprietà alla quale riconosce una funazione sociale, non abolisce il mercato pur non abbandonandolo più esclusivamente al prezzo la funzione direttiva dell’indirizzo e del volume della produzione. E’ evidente che un piano o programma economico non può essere costruito sui postulati dell’economia individuale. Ormai anche l’economia sociale ha però scientificamente progredito e può offrire alla politica economica tra l’altro i concetti del costo sociale, che si sovrapone al costo economico e che deve avere il sopravvento dell’ordinamento dell’economia dei popoli, e il concetto di benessere collettivo, che non è un dato esclusivamente empirico ma nella cui formulazione non si può prescindere dall’ausilio dell’etica.
Un piano economico così inteso può conciliare le esigenze dell’individualità con quelle delle socialità ed agire dai intermediario ai fini produttivi e distibutivi, non solo nei contrasti tra capitale e lavoro, ma anche in quelli meno evidenti ma non meno determinanti tra produttori e consumatori, tra agricoltori ed industria, tra produzione e commercio.
Ma veniamo agli obbiettivi concreti del programma economico che assurge a strumento fondamentale della politica di economia sociale. Possiamo distinguere gli obbiettivi immediati da quelli lontani.
Sono obbiettivi immediati:
– la lotta contro la disoccupazione attraverso il programma dell’occupazione totale nel senso del full employment degli economisti anglo-sassoni (da essi scoperto dopo venti anni di esperienze italiane);
– la lotta contro l’inflazione e la difesa delle entrate reali dei lavoratori, cioè il loro livello di vita, attraverso i programmi di produzione dei generi alimentari e dei beni di largo consumo; attraverso i piani d’importazione degli stessi prodotti deficitari; attraverso i piani di rifornimento dei centri industriali.
Sono obbiettivi lontani:
– la sicurezza sociale – nel senso ad essa attribuito dal Beveridge – circa l’addeguamento degli investimenti al potenziale lavorativo e la “socializzazione della domanda” (problema questo di grande attualità in Italia dove la capacità di acquisto del mercato interno diminuisce di giorno in giorno; in tale senso al Beveridge si riferisce opportunamente anche la relazione del delegato di Cosenza, Mino Ciampolillo);
– la stabilizzazione della vita economica nei riguardi delle fluttuazioni cicliche, sì da prevenire la formazione degli utili di congiuntura che aggravano la sperequazione nella distribuzione della ricchezza e rendono più ingiusto e intollerabile l’attuale ordinamento economico; in connessione la stabilizzazione monetaria quale difesa del risparmio;
– una miglior distribuzione del reddito si da difendere la piccola proprietà e favorirne la diffusione, attraverso i programma valutari e tributari, e – ove sia richiesto – attraverso la politica dei prezzi . In contrapposizione alle espropiazioni violente del sistema marxista il programma economico tende ad una ridistribuzione della ricchezza attraverso un’azione coordinata di giustizia sociale diretta ad incrementare i redditi di lavoro ed a superare l’ingiusta sperequazione tra i redditi suddetti ed i compensi al capitale.
Da quanto precede derivano inevitabili limitazioni al diritto di proprietà e d’iniziativa, che hanno un profondo contenuto etico: la destinazione naturale dei beni, l’ordine naturale imposto ai beni economici orientato al bene comune. I diritti dell’uomo – come le sue tendenze, facoltà e necessità – sono i diritti di un essere sociale. Se non vogliamo fare della persona umana una realtà disarmonica e assurda anche i suoi diritti devono permeati di socialità e prestarsi a fare dell’uomo il servitore del bene comune. E’ per la stessa natura umana che veniamo ad affermare che la proprietà ha una ragione sociale o non è(P. Vermeersch S.J.).
Ma per attuare una così organica e completa forma di economia sociale occorrono gli istituti e gli organi. E’ inutile diversamente parlarne. Anche oggi il governo democristiano parla di programmi sociali e di politica di sinistra ma finchè non vedremo sorgere gli organi adatti per realizzarli, le destre economiche italiane possono continuare a dormire tranquille. Il problema degli istituti e degli organi ci riporta in pieno alla politica sociale. La determinazione del volume e dell’indirizzo della produzione e del programma di distribuzione non sono più soltanto atti economici privati, ma atti economici sociali di pubblico interesse(Attività politica – nella relazione di Enrico Brugo, che la distingue dall’attività tecnica della direzione aziendale); ad essi deve concorrere in modo adeguato il lavoro. Tutte le categorie devono perciò partecipare all’elaborazione del piano, insieme alle rappresentanze statali, in difesa del consumatore e dell’interesse collettivo. Ed ecco che torna la formula corporativa, che opportunamente perfezionata ed adattata ai caratteri della vita contemporanea appare la più idonea ad esprimere un ordinamento di economia sociale e ad ispirarne gli organi e le istituzioni. Un grande Maestro ha scritto che il sindacalismo non può essere fine a se stesso; o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione… Senza il sindacalismo non è pensabile la corporazione, ma senza la corporazione il sindacalismo viene, dopo le prime fasi, ad esaurirsi in una azione di dettaglio estrabea al processo produttivo.
La concezione corporativa da noi invocata non va intesa come rievocazione di organi passati, ma come ispirazione dottrinaria dei nuovi organi che dovranno sorgere, come sintesi economico-sociale, come autodisciplina di categorie, associazioni e solidarietà tra i fattori della produzione, realizzata per cicli economici a mezzo di organi centrali e periferici.
Non crediamo alla proclamata insanabilità del conflitto capitale e lavoro: vi ravvisiamo anzi un’affermazione di sapore marxista, in contrasto con la dottrina cattolica(v. Rerum Novarum e Quadrigesimo anno) e con l’essenza della dottrina sociale del corporativismo(P. Brucculeri S.J. – Intorno al corporativismo, in “La Civiltà Cattolica”). Ma allora cade la principale obbiezione contro la struttura degli organi corporativi. Si può dire piuttosto che l’idea corporativa non è stata applicata in tutte le sue conseguenze. Appare evidente che non si può più pensare ad una organizzazione corporativa che si arresti come in passato alle soglie dell’azienda – così scrive efficacemente il delegato di Cagliari Mario pazzaglia – ma ad una corporazione che dovrà entrare viva ed operante nell’azienda allo scopo di realizzare all’interno di essa la collaborazione sociale e di ancorarvi l’attuazione del programma economico. Si arriva così al concetto di socializzazione che completa e perfeziona l’idea corporativa, dalla quale direttamente deriva. Le premesse programmatiche della legge sulla socializzazione sono esplicite in proposito. Oggi non possiamo più concepire il corporativismo senza la socializzazione, né possiamo vedere un’azienda socializzata senza un inquadramento corporativo. Siamo giunti così ad un punto essenziale della nostra relazione: i consigli di gestione. Purtroppo ci manca il tempo di esaminare i precedenti, le funzioni e le varie forme di consiglii di gestione, consigli di impresa, comitati di impresa, consigli o comitati misti di produzione, consigli industriali misti, commissioni interne, sorti nella legislazione dei vari Paesi, per chiamare in qualche modo il lavoro a compartecipare alla vita aziendale. Non vogliamo naturalmente richiamarci alle leggi societiche del 1917 sul controllo operaio che furono ben presto svuotate di ogni contenuto dal decreto Lenin del 15 Aprile 1919. Ma potremmo riferirci alla legge 16 Maggio 1919 che istituiva i consigli di azienda in Austria e alla legge 4 Febbraio 1920 che istituiva gli stessi consigli in Germania, alla recente ordinanza 22 Febbraio 1945 che istituiva i comitati d’impresa in Francia o al progetto di legge sull’istituzione dei consigli di gestione nel Belgio, al progetto inglese sull’istituzione dei “consigli per lo sviluppo dele industrie” o alle commissioni paritetiche di produzione sorte recentemente negli Stati Uniti e affiancatesi alle già esistenti “company unions”, che risalgono al 1920.
Nella “socializzazione corporativa” (così l’ha definita nella sua concettosa relazione anche il delegato di Reggio Calabria Leonardo Meliadò)la funzione del consiglio di gestione non può esaurirsi in compiti consultivi. Chiamando il lavoro alla corresponsabilità del processo produttivo si crera un fatto nuovo che conferisce nuovo valore e ben altra compattezza e solidità alla organizzazione corporativa. Il principio della corresponsabilità della gestione non solo nei riguardi del capitale ma anche del lavoro, autorevolmente sostenuto dal Costamagna, vi trova la sua consacrazione. Né è possibile che il sistema degeneri in un egoismo d’azienda o di categoria perché esso trova i limiti dell’inquadramento corporativo.
La nostra socializzazione non si riduce ad un problema di ripartizione degli utili: ciò sarebbe immiserirla. Anzi da un punto di vista scientifico-economico tale ripartizione è da respingere, poiché gli utili di congiuntura che non vogliamo riconoscere e che verrebbero in tal modo lagalizzati; una ripartizione degli utili può essere accettata soltanto come soluzione transitoria. Bisogna pensare la socializzazione nel quadro del nuovo ordinamento economico da noi auspicato, in cui siano ridotti al minimo i rischi d’impresa ed in cui siano stabilizzati i prezzi e salari. Noi vediamo nella socializzazione uno strumento profondamente rivoluzionario capace di trasformare il rapporto di lavoro da contattuale in associativo, sì da dare un nuovo volto alla società moderna.
All’inizio della mia esposizione vi ho citato un articolo in cui si diceva che molte sono le vie del socialismo. Può essere. Sono sicuro però che una sola è la via della giustizia sociale, ed è questa!


Relazione al I congresso nazionale del Msi, Napoli
27-29/VI/1948 (Archivio Massi)


Aggiunto da SOCIALE    ---  Il 1° congresso del M.S.I.
http://pocobello.blogspot.it/2010/04/primo-congresso-del-msi.html


tratto da: http://www.lottastudentesca.net/download/formazione/75-anticapitalismo-militante-la-socializzazione-corporativa.html

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