giovedì 21 gennaio 2010
Rutilio Sermonti. Sulla socializzazione
Matteo Cavallaro è un giovane studente della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino e un militante controverso di Rifondazione comunista. Per la sua tesi di laurea: Il mito della socializzazione, ha realizzato una serie di interviste a diverse personalità di area, fra le quali Rutilio Sermonti. Nel testo che segue.
Le chiederei proprio al brucio, per iniziare, una descrizione sintetica, tre righe proprio, con giudizio, della socializzazione. La approfondiremo più avanti nell’intervista, ma serve per sottolineare da subito quali sono i caratteri per te davvero importanti di quell’esperienza.
La tua domanda introduttiva è molto opportuna, perchè coloro che scrivono e dibattono della famosa Socializzazione della R.S.I., anche se favorevoli o addirittura fanatici, lo fanno troppo spesso per sentito dire, e da ciò dipende la varietà -da te rilevata – di interpretazioni “ideologiche” di una cosa che , a studiarla seriamente, è di una inequivocabile semplicità.
Socializzare le imprese significa infatti, nè più nè meno che renderle sociali, cioè trasformarle in società. Società, in senso proprio, indica una pluralità di soggetti (soci), che si uniscono per perseguire uno scopo comune (non ho mai capito perchè si continui a chiamare retoricamente società quella degli uomini, i cui rapporti reciproci sono sempre consistiti in parte rilevante nel combattersi e accopparsi a vicenda). Qualcuno potrebbe obbiettare che anche in regime capitalistico quasi tutte le imprese (meno le artigiane) sono società. Ma direbbe una sciocchezza. Non le imprese, oggi, sono società, ma gli imprenditori, e la differenza è fondamentale. La FIAT (exempli gratia) non è una fabbrica di automobili, come il volgo pensa: è una S.p.a. proprietaria di una fabbrica di automobili. Io sono proprietario della mia pipa, ma non per questo sono una pipa, nevvero?
E veniamo all’impresa. La parola impresa, nel diritto positivo pre-bellico e in quello attuale, designa non un soggetto nè un oggetto di diritti: è la semplice indicazione dell’attività dell’imprenditore. Oggetto di diritti è l’azienda, definita ” il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 cod. civ.). Essa non è quindi che una “universitas bonorum”, e può essere alienata , acquistata o locata come qualsiasi altro bene. Solo per evidenti fini comunitari, la legge stabilisce espressamente che, in caso di cessione di un’azienda, oltre che negli stabili, macchinari, giacenze, ecc., l’acquirente subentri anche nei crediti e debiti gestionali, primi tra i quali le reciproche obbligazioni esistenti coi prestatori di lavoro.
Ma, a parte questa specifica norma protettiva, i lavoratori di tutti i livelli, pur essendo parte fondamentale dell’impresa produttiva, giuridicamente non ne fanno parte. Hanno solo un rapporto esterno, di natura contrattuale, con l’imprenditore-società. Do ut des, fatica contro denaro, interesse contro interesse.
Va, a questo punto, aggiunta la considerazione che, con la generalizzazione della forma di società di capitali (anonime o a r. l.) che caratterizzò l’imprenditoria industriale sin dall’Ottocento, cessò del tutto di sussistere anche quel rapporto personale che era stato invece sostanziale tra l’artigiano e i suoi allievi. Un “grumo” di capitale, diventato imprenditore e “persona giuridica” non ha personalità umana nè affetti: solo aridi interessi. Il “rapporto di lavoro” tese quindi, naturalmente, a diventare conflittuale, con evidente discapito sia della solidarietà nazionale che della produzione.
La grande innovazione dei decreti del ‘44 consistette nel dare struttura sociale alle imprese, e quindi non ai soli imprenditori ma a tutti coloro che collaboravano al processo produttivo, creando così tra loro un interesse comune a migliorarlo e potenziarlo, che faceva passare in secondo piano i problemi di ripartizione (che, peraltro, anche il sistema corporativo “dualistico” aveva giuridicamente risolti, senza il ricorso al rozzo ricatto sindacale a base di scioperi). Quello che occorre capire, però, senza fluttuare tra le rosee nuvolette di “principi” più o meno immortali, è che, per poter “funzionare”, il nuovo sistema esigeva l’acquisizione da parte delle maestranze di una mentalità, ed anche di conoscenze, ben diverse da quelle partorite dal sistema capitalistico e dalla predicazione classista. Cose che si ottengono con un graduale tirocinio, e non con un decreto legislativo, per ben congegnato che sia.
Implicava inoltre, per legislatori saggi e responsabili, che amassero il proprio popolo più che le elucubrazioni di barbutissimi “pensatori” da scrivania, e non procedessero taurinamente sbuffando fumo dalle froge (alla maniera di Lenin), la soluzione di intricatissimi problemi di transizione da un sistema all’altro. Transizione che si doveva operare, si badi bene, senza produrre crisi produttive, il che significava, più o meno, riformare profondamente un motore, mantenendolo sempre in moto. Non era roba da poco, credo. Posso dire che era un autentico prodigio? Tali precisazioni iniziali contengono in nuce, come acutamente hai intuito, tutte le affermazioni che seguiranno.
L’esperienza della socializzazione è a suo dire un patrimonio condiviso da tutta la c.d. “Area”? Sarebbe interessante, se se la sentisse, distinguere tra l’eredità come “immaginario” e l’eredità come “posizione politica”. Quanti cioè la portano “nel cuore” di militanti come uno splendido passato, ma appunto passato, e quanti invece la ripropongono in chiave presente e futura?
Fai bene a distinguere, per quanto riguarda il versante politico cui appartengo, tra socializzazione mitica e socializzazione metodo e criterio operativo. Solo che la prima, con tutti i suoi vezzosi svolazzi utopici, è solo un effetto del comune vizio di “dibattere” su cose di cui non si ha adeguata conoscenza. Ma è un vizio umano innato, molto più antico che i concetti (per me, assai fumosi) di “destra” e “sinistra”, tanto che persino il Corano, quindici secoli addietro, ammoniva: ” Vi siete messi a disquisire su temi di cui eravate a conoscenza, e va bene. Ma perchè vi inoltrate nella discussione di cose di cui siete digiuni ?” (Sura III, 46). Non si tratta di storicizzarla o attualizzarla, la socializzazione delle imprese. Si tratta di studiarla e comprenderla o di acchiappare farfalle.
Quanto è importante nell’immaginario politica d’area il ricordo di questo evento? E quanto nel suo?
“Immaginario politico” è espressione che credo si attagli solo ai cacciatori di farfalle sopra detti. Per me e quelli come me, la socializzazione promulgata e posta in attuazione in R.S.I., come le continue riforme precedenti, non fanno parte di alcun “immaginario”. Sono state cose molto serie, attentamente ponderate da gente estremamente qualificata e attuate col più rigoroso realismo. E con realismo ancora maggiore vanno considerate oggi, in rapporto a una realtà circostante e ad una problematica grandemente diversa da quella in cui furono concepite.
A suo dire questa eredità come si è trasmessa? Più in forma scritta o in forma orale? Più per immagini e suggestioni o attraverso analisi e ricerche?
Si è trasmessa certamente più per immagini e suggestioni, e questo è il guaio a cui io – ed altri meglio di me- cerchiamo in ogni modo di porre rimedio. E, devo dire, non del tutto invano, soprattutto dopo il decesso del’equivoco MSI-DN, che alla formazione dei militanti non dedicò mai la dovuta attenzione.
Nel mio lavoro io parto sostenendo l’idea che la socializzazione, più che come progetto politico, sia passato come “mito” nella c.d. “Destra Radicale”. Tradotto: questa è più il “sogno” di uno stupendo passato, che un ‘obbiettivo per il presente o per il futuro.
Più, ricollegandomi alla domanda prima, una suggestione che un progetto. Si sente di condividere questa mia analisi? In cosa a suo dire pecca o va approfondita?
Anche con questa domanda, mi sembra, tu alludi chiaramente a quella che ho definita socializzazione-mito, che ha ben poco a che fare con quella storica, e ancor meno con quella progettuale. E’ solo effetto della confusione mentale di alcuni bravi ragazzi, che accettano addirittura la ridicola definizione di “destra radicale” e credono di poter combattere il balordo sistema che sta liquidando il poco che resta della nostra Italia, accettandone inconsciamente categorie e parametri. Per fortuna, la loro buona fede, il loro coraggio e il loro intenso desiderio di apprendere (di cui ho ogni giorno testimonianza) sono per me molto incoraggianti.
Per concludere questa parte molto generale, se mi dovesse consigliare due testi, qualsiasi, su questa esperienza, quali sceglieresti?
Testi assolutamente indispensabili sono i decreti legislativi del Duce 22 febbraio 1944, n°375 (istituitivo) e 24.6.1944, n°384 (entrata in vigore), ambo sulla G.U. 151 del 30 giugno succ., e il decreto ministeriale 12 ottobre 1944, n° 861 (norme di attuazione). La serietà , profondità e accuratezza di detti strumenti legislativi non è certo compatibile con l’opinione che la socializzazione sia stata un semplice e abborracciato espediente propagandistico. Quanto ai commenti, allora e in seguito, c’è un vero profluvio di saggi e articoli, alcuni dei quali di alto pregio, ma non mi consta l’esistenza di libri interamente dedicati alla socializzazione. Ciò dipende chiaramente dal fatto che, nel 1944-45, i fascisti repubblicani avevano ben altro da fare che scrivere libri, ed è già mirabile che abbiano trovato la concentrazione necessaria per giungere alle leggi sopra menzionate; e dopo la cosiddetta liberazione la grande editoria si è messa tutta, allineata e coperta, al servizio dei vincitori. Ma dipende anche dalla oggettiva impossibilità di trattare della socializzazione come fatto a sè, avulso da tutta la complessa realtà che fu il fascismo e la sua globale politica socio-economica. Ciò equivarrebbe solo a fraintenderla. Di qualche utilità potrebbe essere il mio Stato Organico (Settimo Sigillo, Roma, 2003), in cui, appunto, tento di collocare la socializzazione nella concezione fascista dello Stato. Per i saggi, sono da segnalare riviste come L’Uomo Libero (Milano), Italicum (Roma), Heliodromos
(Catania), Ordine Nuovo (Roma), L’Officina (Roma), e i “Quaderni di Raido” (Roma).
Approfondiamo ora il discorso sulla socializzazione in senso storico. Siamo nel 1944, c’è la guerra, la RSI, il difficile rapporto con i tedeschi. Viene tuttavia deciso, in questo clima di incertezza e anche un po’ di scoramento di varare il decreto sulla socializzazione? Perché secondo lei? Motivi propagandistici, la voglia di lasciare un testamento, l’idea che la vittoria passasse dal fare un passo aggiuntivo nella “rivoluzione fascista”?
Il motivo fu la certezza, nel Duce come in tutti noi, che il Fascismo fosse l’unica soluzione possibile e secondo natura dei tremendi problemi creati dalle aberrazioni della “modernità”. La sconfitta militare incombente ci appariva quindi come una disgrazia di percorso, che avrebbe solo aggravato quei problemi, ma non avrebbe evitato al capitalismo (privato e di Stato, coalizzati contro di noi) il fallimento, e quindi il mondo avrebbe avuto ancora bisogno (come previde espressamente Mussolini) delle concezioni e dei metodi fascisti, per risollevarsi. Occorreva quindi procedere sino all’ultimo sulla via intrapresa nel 1919, non tanto per “lasciare un testamento”, come tu scrivi, quanto per additare, già parzialmente sperimentato, il successivo passo da compiere. E non puoi negare che- per quanto attiene all’afflosciamento “spontaneo” e inevitabile dei due capitalismi, la nostra previsione fosse azzeccata, anche se in tempi più lunghi dell’allora pensabile, per la tediosa sceneggiata della “guerra fredda” e per la inedita possibilità di narcosi di massa data dalla mai abbastanza maledetta televisione.
Per quale motivo non vi si è arrivati prima ? Non è forse stato un provvedimento “tardivo”?
La domanda mi meraviglia davvero, posta da te, che il fascismo-regime l’hai sentito solo raccontare (malamernte), ma hai bene sperimentato i tempi della legislazione “democratica”. Per rinnovare completamente dalle radici un complesso e articolato sistema, consolidatosi in due secoli negli istituti e nelle coscienze, e, per giunta ( come ho già detto) senza arrestarne il funzionamento, il regime fascista ha avuto a disposizione 15 anni (1925-1940), inframmezzati da due guerre vittoriose (Etiopia e Spagna) e da spietate sanzioni economiche, più altri 5 impegnato allo spasimo in un gigantesco conflitto, nella seconda fase del quale col territorio nazionale progressivamente invaso dal nemico e con gentili connazionali dediti a sparare alle spalle. Si aggiunga che canone fondamentale della rivoluzione fascista fu sempre quello della gradualità, sia per non provocare tragiche crisi, sia perchè innovazioni veramente profonde non possono realizzarsi tirando colpacci all’impazzata (alla maniera bolscevica), ma solo dando modo alla “forma mentis” popolare di evolversi nella direzione voluta. Ora, in vent’anni di cosiddetta pace, i democratici e strapagati legislatori rappresentanti dei partiti sono a mala pena capaci di “partorire”, a base di quinquies e di sexies, il ritocco di qualche articolo di una legge preesistente, consistente regolarmente nello scimmiottamento di norme anglosassoni. Vent’anni addietro, considera, si era nel 1988. Quali “passi” sono stati compiuti? Quali “sviluppi” conseguiti ? Solo negli stipendi da nababbi degli Onorevoli Parlamentari. Per il resto: ZERO: passi indietro e peggioramenti. In compenso, l’economia nazionale è stata ridotta al fallimento, l’agricoltura giustiziata e le “conquiste” del rampante sindacalismo classista vanificate. Esagero, forse ? Non esiste forse un piagnisteo generale? Ed ecco gli antifascisti, e anche solo i non-fascisti come te, rimproverare al passato regime, che sbalordì il mondo per la sua fattività, addirittura la pigrizia ! Evidentemente – devo freudianamente pensare – essi nutrono per il deprecato fascismo una inconscia e latente ammirazione, superiore perfino ai suoi meriti, tale da ritenerlo capace di miracoli a petto ai quali quelli attribuiti a Gesù Cristo sarebbero giochetti da dilettante.
Una domanda se vogliamo banale e scontata: la socializzazione fu una rottura rispetto al corporativismo? O ne fu la legittima continuazione?
Non so perchè tu voglia definire la tua domanda “banale e scontata”. Al contrario: è domanda essenziale, per “pulirsi gli occhiali” dell’indagine storica; tanto che, praticamente, intorno ad essa ruota tutta la presente intervista. Infatti ad essa, in parte, ho già implicitamente risposto, e certamente dovrò tornarci in prosieguo. Chi parla di “rottura”, ovvero di svolta, di resipiscenza, o magari di ritorno a non si sa quali “origini”, può farlo solo per mancanza d’informazione, per superficialità o per partito preso, tanto è evidente e palmare che la socializzazione del 1944 non è che corporativismo puro e distillato, e corporativismo è sinonimo di fascismo, per chi, come me, non ammette separazione tra politica ed economia. Per non essere apodittico in simile affermazione, dovrò dilungarmi in questa risposta più che nelle altre. Ti prego di seguirmi nel mio lineare percorso “transcorporativo”, promettendo la massima possibile concisione:
1^ Fase – Ordinamento sindacale di diritto (Legge 3 aprile 1926, n° 563) Con essa, alle associazioni sindacali riconosciute, sia di imprenditori che di lavoratori, veniva affidata la delicata pubblica funzione di stabilire d’accordo, con effetto legislativo (valide erga omnes) quelle condizioni di lavoro e di retribuzione che erano oggetto di ultrasecolari conflitti. Condizioni per il riconoscimento: l’impegno a subordinare gli interessi di parte a quelli superiori dell’economia nazionale, unitariamente intesa. Nei casi (di fatto, rarissimi) in cui l’accordo non si raggiungesse, era approntata (come una civiltà esige per tutte le controversie) la soluzione giurisdizionale, davanti a una Corte mista di togati e tecnici (la Magistratura del Lavoro)che, udite le ragioni delle parti e considerata la situazione economica del momento, emetteva una sentenza tenente luogo del c.c.l.. Sistema, quello, certamente migliore della tutela attraverso scioperi che, oltre a danneggiare sia la produzione che la pace sociale, non sono che un “braccio di ferro”, e quindi assicurano la vittoria del più forte, non del giusto.
2^ fase: Carta del Lavoro. Emessa il 21 aprile 1927 come dichiarazione programmatica del P.N.F. e divenuta legge dello Stato solo 13 anni più tardi. Importante perchè sanziona solennemente che sia il lavoro in tutte le sue forme (dich. II) che l’iniziativa privata nel campo della produzione (dich. VII) sono doveri e funzioni nazionali, da regolarsi e tutelarsi dallo Stato come tali. Il lavoro è quindi uno strumento della nazione (come anche il capitale), non uno strumento del capitale, come oggi.
3^ fase .Le corporazioni.(Legge fondamentale 3.2.1934, n°136). Erano organi dello Stato, stabiliti per rami produttivi e tutori delle esigenze di essi. Ma erano composte pariteticamente di rappresentanti delle associazioni sindacali (delle due “parti”) interessate al ramo. Loro compito principale (oltre quello di mediazione nelle controversie sindacali) era il controllo della conduzione economica, e il loro Consiglio Nazionale era l’autore di quella programmazione economica unitaria che fu preclara caratteristica del fascismo, e che gli permise, nel 1935-36, di affrontare e sconfiggere quelle pesanti sanzioni economiche, decretatele dalla S.d.N. per volontà brtitannica, che oggi metterebbero l’Italiucola che ci è concessa in ginocchio in tre giorni. Rappresentanti dei lavoratori venivano così quindi a formulare, alla pari con l’imprenditoria, quelle direttive produttive a cui tutte le imprese erano tenute a ottemperare.
L’esaltazione e responsabilizzazione del “fattore lavoro” aveva fatto un bel balzo avanti.
4^ fase- La riforma della rappresentanza politica. (Legge 19 gennaio 1939, n°129 ). Fu il deciso passaggio alla “rappresentanza organica”, e cioè per funzioni e non per consenso generico non qualificato. Per il problema che ci occupa, i Consiglieri Nazionali (che subentravano ai “deputati” (e non si chiamavano onorevoli) erano composti per la metà dai membri del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Significa che i rappresentanti dei lavoratori sedevano come tali e perchè tali, nel massimo organo legislativo. Così ,nel diritto pubblico, qualsiasi subordinazione del lavoro al capitale era definitivamente cancellata.
Restava il diritto privato (commerciale), che riservava ancora all’imprenditore (anche se persona soltanto giuridica) la conduzione dell’impresa, pur con le limitazioni e condizioni sopra accennate. E non v’è dubbio che immettere le maestranze anche nella gestione aziendale era il passo più rischioso. Tale immissione -devo aprire una parentesi- era già prevista nel programma fascista del 1921. ma, con il realismo che sempre ispirò Mussolini, vi si aggiungeva “(lavoratori) che ne siano moralmente e tecnicamente degni”. Non erano parole al vento: una tale “dignità” (potremmo parlare di maturità) era requisito rigorosamente indispensabile. Perchè (è bene strano che i “dibattenti” non ci pensino ), l’imprenditore, che impiega la massima parte dei profitti in reinvestimenti, nell’impresa o altrove, può anche subire perdite, ma il lavoratore, che la sua parte di “utili” li impiega per mantenere sè e la famiglia, perdite non ne può subire. Un minimo di reddito decoroso gli deve essere in ogni caso assicurato. O no ? Quindi, se il rischio d’impresa vale a rendere “prudente” un imprenditore che non sia un imbecille, per il lavoratore partecipante alla gestione senza rischio, la prudenza può derivare solo da un bene sviluppato senso di responsabilità e di consapevolezza. Quindici anni di corporativismo erano bastati a conseguire un simile risultato? Questo era il problema, altro che farsi prendere da coliche ideologiche! Io penso che fossero quasi bastati, ma non del tutto, e che la fase socializzatrice, sia stata un pò anticipata (per motivi ben comprensibili), e non ritardata, come pensano i rivoluzionari da redazione, col peperoncino sotto la coda. Si cominciò, comunque, a portare la rivoluzione anche all’interno delle aziende, con la
5^ fase- La riforma dei codici civili del 1940. ( Legge 3 gennaio 1941, n° 14) E’ veramente singolare che nessuno dei commentatori vi faccia riferimento, quasi che l’idea della socializzazione fosse un grillo saltato per il capo a Mussolini mentre volava via con Skorzeni da Campo Imperatore. Eppure, in quel codice, c’era già mezza socializzazione. Già significativa è la soppressione del Codice di commercio e l’incorporazione delle norme dell’attività economica nel Codice Civile, ad affermazione del criterio unico (civico ed economico) che deve presiedere anche all’attività produttiva, contrariamente alla pretesa capitalistica della c.d. “economia di mercato”. Ciò esige la gestione da parte degli uomini, che, a differenza del capitale apolide, sono insieme singulus e civis. Vi troviamo poi l’imprenditore (o chi lo rappresenta, se anonimo) definito “capo” dell’impresa, e non più titolare o padrone, e il rapporto con lui definito “gerarchico” e “di collaborazione”, come quello di un comandante militare, che persegue lo stesso scopo e porta le stesse “stellette” del soldato. Vi troviamo la responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato per la sua conduzione dell’impresa, e vi troviamo persino la espressa previsione di una retribuzione anche totale, con partecipazione agli utili. Già nel 1940, il regime era quindi sulla soglia della socializzazione, e attendeva solo l’ultima “maturazione” delle coscienze per compiere il gran passo. E’ quindi evidente , come ho premesso, che la socializzazione è stata solo l’ultima fase di un percorso che era tutto nel DNA (si direbbe oggi) del fascismo, e che, semmai, essa è stata leggermente anticipata, non ritardata.
Dopo il decreto nella RSI ci sono stati altri esempi nel mondo simili o almeno paragonabili ad esso? Penso a possibili somiglianze con alcuni aspetti del capitalismo renano o con l’importanza della CGT nel regime peronista. Quali differenze strutturali e strategiche vede tra questi progetti?
A parte il regime peronista, notoriamente ispirato al fascismo italiano, non mi risulta. La rassomiglianza con qualche singola norma (per esempio nei vari tentativi di azionariato operaio, o addirittura nel new deals rooseveltiano) non è che esteriore e occasionale, in assenza della “Weltanschauung” fascista, che conferisce alla riforma una finalità completamente diversa.
Da cosa “nasce” invece la scelta socializzatrice? Quali strumenti di analisi e quali fini vede dietro a quel decreto? Giustizia sociale e analisi “di classe”? Il passo successivo verso la costruzione di una “società organica”?
La domanda mi offre il destro di precisare il concetto precedente. Lo scopo della socializzazione della R.S.I. non aveva infatti nulla a che fare col fumosissimo concetto di “giustizia sociale”, passepartout di tutte le demagogie, ed era proprio precisamente “il passo successivo verso la costruzione di una società organica”, secondo la tua felice espressione. Ricordando che un “organismo” non è che una pluralità di parti, diverse e con diverse funzioni, ma tutte necessarie e interdipendenti, ed è proprio il paradigma con cui l’ineguagliabile maestra che è la natura ci addita l’unico metodo per fare ex pluribus, unum. E quale, se non quello, è lo scopo della politica, intesa come scienza ?
In cosa si differenziò maggiormente dal normale sistema capitalistico? Rispetto ad esso fu una riforma delle sue storture o una vera e propria rivoluzione?
Credo, dopo quanto ho detto, superfluo aggiungere parole per dimostrare che il sistema capitalistico ( che, non so perché, definisci “normale”, dato che è il colmo dell’anormalità), è l’opposto diametrale di quello corporativo, e della socializzazione in particolare. E un suo carattere precipuo è che le sue “storture” non possono essere riformate, in quanto dipendono dalla sua più intima essenza. Deve solo essere del tutto soppresso, nella sua glaciale demenza, nelle sue premesse “filosofiche” e nei suoi pseudo-valori; e tale era appunto l’obbiettivo del fascismo
Ed in cosa dagli esempi di socialismo che si sono succeduti nella storia contemporanea?
A mio avviso, la catalogazione del fascismo come una forma di socialismo, sia pure “corretto” dall’aggettivo “nazionale”, è uno dei maggiori abbagli in cui abbiano incappato, nelle loro sistemazioni concettuali, anche molti sinceri fascisti. Innanzi tutto, se si esclude il socialismo marxista, ben delineato in poderosi sacri testi, non mi è mai stato chiaro che cosa sia il “socialismo in genere”, salvo uno spontaneo moto dell’animo in favore degli umili e degli oppressi, che non ha nulla di sistematico, e quindi di paragonabile con nessuna dottrina politica. Ora, considerando il socialismo “codificato”, sia nella versione “scientifica” che in quella pragmatica e “realizzata”, il corporativismo (socializzazione inclusa) mi appare come esattamente l’opposto. Oltre il fatto che il socialismo nega la nazione, che il fascismo pone invece al centro: il socialismo è materialista, mentre il fascismo è spiritualista. Il primo è determinista, mentre il secondo è volontarista (siamo noi che facciamo la società, non la società che fa noi). Il primo avversa e il secondo favorisce l’iniziativa privata. Il primo avversa la proprietà privata e il secondo le conferisce una funzione sociale. Il primo ravvisa nei “rapporti di produzione”il motore del divenire storico, mentre il secondo li ritiene solo uno, e non il prevalente, dei fattori di esso. Il primo condivide i valori delle rivoluzioni massoniche americana e francese di fine Settecento, mentre il secondo espressamente li nega e li supera. E, in fine, il primo è un’ideologia codificata, mentre il secondo è un modo di essere, che si trasfonde in un metodo, ma nega qualsiasi prefigurazione ideologica dell’avvenire. Quale altra analogia si trovi tra i due, a parte l’assonanza di certe parole, rimane per me un mistero. E altrettanto per i socialisti, che infatti sono stati sempre i più feroci avversari del fascismo, e, all’atto della “liberazione” (anzi, una settimana prima) si sono precipitati ad abrogare, come primo atto di imperio, le norme sulla socializzazione. Ecco perchè, a fare lo spasimante respinto dei socialisti, non mi ci vedo proprio!
Come vede il rapporto tra socializzazione e stato? Come si collegano, come si influenzano, cosa legittima cosa..
E’ un rapporto ben precisamente stabilito. La funzione economica essendo una funzione pubblica, il Capo dell’impresa risponde della gestione di essa davanti allo Stato, che rappresenta, nella concezione fascista-corporativa, le esigenze globali della nazione. Nei casi-limite, era previsto addirittura il commissariamento! La dich. 1^ della Carta del lavoro non consente dubbi; e il decreto del Duce 22 feb. 1944 inizia con le parole: “Vista la Carta del Lavoro”.
Passiamo al post- Salò. Cosa successe alla socializzazione? Chi continuò a portare avanti la bandiera della socializzazione?
Le vicende della socializzazione nell’Italia “liberata”, oggi poco note, sono quanto mai significative. Partendo dal ricordato decreto abrogativo del C.L.N.A.I. (che, in realtà, abrogava ben poco, e si limitava a ficcare i propri scagnozzi “provvisoriamente” nei consigli di gestione, in luogo di quelli eletti dalle maestranze, in attesa di elezioni “libere”(?) che non avvenero mai), il primo passo, e non da poco, fu quello di rendere la partecipazione operaia meramente consultiva. Non passò, però, un anno, che anche gli imprenditori che avevano fatto la “concessione” dichiararono fallito l’esperimento e si tirarono indietro.Nasceva intanto, ad opera dei sindacati “rossi”, un Comitato Coordinatore dei Consigli di Gestione, che però coordinava melanconicamente solo la componente meramente consultiva dei medesimi, e ne creava anche dei nuovi, che la controparte industriale ostentatamente ignorava del tutto. Il Comitato e i partiti di “sinistra” retrostanti presero però ad esercitare forti pressioni sul governo (Parri e poi De Gasperi) per ottenere una legge che ripristinasse l’abrogata (da loro) cogestione, e, cedendo ad essa, furono elaborati i due progetti (poi unificati) D’Aragona e Morandi. Fin dalle prime avvisaglie (una promessa verbale fatta ai Comitati dal Morandi, socialista, il 5,8.1946), si scatenò da parte confindustriale ( pres. Costa, che già aveva messo le mani avanti con una lettera a De Gasperi già del 21.9.1945 !) che da parte delle singole Unioni e Federazioni, un vero tornado di vivacissime obiezioni, quasi sempre molto ampie, documentate e motivate, per scongiurare la iattura. E il sottoscritto che, pur non potendo essere sospettato di simpatie per il capitalismo, le ha lette tutte (un centinaio) deve riconoscere che erano molto più ragionevoli che le sparate demagogiche di “parte lavoratrice”. Il Leitmotiv era che una legge come quella richiesta avrebbe semplicemente trasferito la lotta di classe anche nelle gestioni aziendali, con quale pregiudizio per la ripresa economica era facile immaginare. Intanto, l’11.X 1946, anche la III sottocommissione della Costituente aveva redatto una norma generica, molto simile al poi approvato art. 46 (solo che usava la parola “partecipazione”, prudentemente poi sostituita con la meno impegnativa “collaborazione”). Comunque, la promessa Morandi fece la fine di tutte le promesse “democratiche”, e i progetti compartecipativi antifascisti non andarono oltre la vaga e non precettiva formuletta embrionale del prefato art. 46 Co., che fu prontamente posta sotto formalina, in un barattolo, sul polveroso scaffale su cui da sessant’anni riposa in pace, amen.
Quale era la posizione dell’MSI sulla socializzazione? Quale invece quella di Ordine Nuovo?
La posizione di Ordine Nuovo, di cui l’esponente per i temi economico-sociali ero io, è stata esattamente quella esposta in questa intervista. Quella del MSI, purtroppo, non è mai esistita, pur circolandone tra i suoi aderenti svariate versioni. Il partito, come tale non ha fatto che adornarsi con la socializzazione-mito di cui dicevo all’inizio. Era troppo occupato a contare voti e preferenze per occuparsi di certe bazzecole.
Al di fuori di ON invece come era la situazione? Gli altri gruppi politici come si ponevano al riguardo di questo tema? Riusciresti a farmi un quadro riassuntivo delle posizioni?
No, non ci riuscirei. E’ che le “posizioni” degli altri gruppi politici, oltre ad essere quanto mai evanescenti e fluttuanti (ormai, ad esempio, non si capisce più in che si differenzino) non sono che pietosi grembiulini per coprire la squallida brama di potere e di privilegi: esche per la pesca dei gonzi. Sono, quelle formazioni, i dichiarati eredi ed allievi degli sciagurati che vinsero la guerra che l’Italia ha rovinosamente perduta. Nei loro confronti, in me, la nausea è più forte persino della curiosità.
Le capitò mai di parlare dell’argomento socializzazione con esponenti “antifascisti”? Con che risposte?
Quanto detto per gli “altri gruppi politici” (tutti antifascisti d.o.c.!) vale anche per i loro “esponenti”. Parlo volentieri coi non fascisti, soprattutto se intelligenti come te, ma la mia opinione sugli “esponenti antifascisti”, di recente o vecchia data, è tale da dissuadermi dal perdere un solo minuto a conversare con loro.
Per concludere, lavoro e capitale sono per lei termini antitetici? O termini che si completano a vicenda?
Giunti a questo punto delle mie “confessioni”, la risposta al tuo quesito riassuntivo è addirittura pleonastica. Lavoro e capitale non possono essere antitetici, in quanto ambedue indispensabili per il risultato produttivo. Ma il sano rapporto tra di essi è che sia il capitale uno strumento del lavoro, e non viceversa. Che sia l’Uomo a usare il denaro e non il denaro a usare l’Uomo: questo è il succo.
tratto da: http://www.mirorenzaglia.org/?p=7465
Di Rutilio Sermonti in questo stesso blog: Civiltà - http://pocobello.blogspot.com/search/label/Rutilio%20Sermonti%20-%20Civilt%C3%A0
Natura - Rutilio Sermonti - A lume di ragione. http://pocobello.blogspot.com/search/label/natura%20-%20Rutilio%20Sermonti%20-%20A%20lume%20di%20ragione
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